Capitolo 11- Blitz

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Ero uscita a fumare una sigaretta per cercare di cancellare il nervosismo che avevo accumulato durante l'incontro.

Dovevo smetterla di mentire a me stessa: non avevo paura degli incontri o meglio sì, avevo paura che potesse succedergli qualcosa, ma a spaventarmi era che quando saliva su quel ring si trasformava, non era più l'Arthur che conoscevo e mi terrorizzava perché attaccava il suo avversario con una violenza tale da massacrarlo in pochi minuti. A lasciarmi basita ogni volta era che sembrava più a suo agio su quella piattaforma che nella vita di tutti i giorni. Adorava la folla che urlava impazzita al suo seguito: quello era il suo regno e la sua droga e capii che sarebbe stato più difficile di quanto pensassi allontanarlo da quel mondo che sembrava inghiottirlo sempre più.

Un rumore attirò la mia attenzione e alzai lo sguardo per notare diverse auto arrivare e diversi uomini scendere da esse. Quando compresi di chi si trattasse, sbarrai gli occhi e imprecai nel riconoscere divise della polizia di stato. Tra di loro riconobbi quella strega che era venuta a casa mia e il mio cuore accelerò alla sola idea che potesse esserci anche Jonathan. Il loro arrivo avrebbe di sicuro scatenato il panico all'interno del locale. Così mi precipitai dentro e corsi giù per le scale, poi in mezzo alla gente spintonando chiunque per arrivare da mio fratello e farlo uscire da lì il più in fretta possibile.

Una volta raggiunto lo spogliatoio, spalancai la porta attirando tutta l'attenzione su di me. Mi diressi decisa verso mio fratello che mi guardò confuso senza capire perché mi fossi precipitata in quel modo alla sua ricerca, ma gli fu tutto chiaro quando pronunciai l'unica parola che anche lui temeva. Raccolse le sue cose e in fretta corse all'esterno trascinandomi con lui mentre anche gli altri uomini, che erano con lui, si dileguavano altrove per cercare di non farsi beccare dalla polizia.

«Dove stiamo andando?» chiesi.

Si coprì con il cappuccio della felpa per non farsi riconoscere e passammo attraverso la calca di gente che stava ancora festeggiando la vittoria indisturbata e completamente ubriaca. «C'è un'uscita secondaria», mi disse. «Stammi dietro e non mollarmi per nessuna ragione.»

Tre uomini ci vennero addosso e prontamente Arthur gli spintonò con tutta la sua forza, mandandoli a qualche metro di distanza. Poi proseguì fino a quando non si sentirono gli urli della gente impaurita dall'arrivo del blitz e, come avevo previsto, si scatenò il panico. Tra fischi e manganelli la gente impazzì, cercando di fuggire da lì il prima possibile per non rischiare di finire nei guai ma ormai era tardi: ci avevano intrappolati all'interno essendoci una sola uscita a parte quella che sembrava conoscere mio fratello e sperai con tutta me stessa che avesse ragione.

Mi guardai attorno non capendo più niente in mezzo a tutta quella confusione e quando a un certo punto, notai un uomo incappucciato a distanza cercare qualcuno tra la folla, mi paralizzai perché mi tornò in mente la sera prima lungo il fiume. Lo fissai senza sapere se fosse lui e la paura s'insediò nuovamente nel mio cervello.

Arthur mi strattonò, sgridandomi per la mia esitazione, e non mi rimase che andargli dietro finché del fumo si levò dal centro del magazzino e mio fratello si voltò con espressione allarmata. Seguii il suo sguardo per capire che doveva aver preso fuoco qualcosa e che questo posto sarebbe stato più caldo dell'inferno stesso tra pochi minuti. Quanto avvenne dopo mi colse di sorpresa: mi sentii strattonare e persi la presa da Arthur che si ritrovò in pochi secondi addosso lo stesso uomo con cui aveva combattuto sul ring. Parve essere parecchio infuriato tanto che lo bloccò contro la parete. Mio fratello mi cercò subito con lo sguardo: la situazione stava precipitando e non avevo idea di come uscirne ma ci pensò quest'ultimo o meglio Arthur fece qualcosa che mi sconvolse ancora di più. In un secondo triò fuori una pistola e la puntò alla testa del suo avversario che notai solo ora essere ridotto piuttosto male, sorprendendolo, ma un ghigno comparve sul volto dell'energumeno e il perché lo capii poco dopo quando mi trovai con qualcuno alle mie spalle che m'impedì qualsiasi movimento, trattenendomi. Mio fratello mi chiese di avvicinarmi a lui senza essersi ancora accorto del problema che incombeva su di noi e infatti quando si voltò verso di me, tenendo sotto tiro il suo avversario, si allarmò nel vedermi nella stessa identica situazione. Ci guardammo negli occhi e cercai di comunicargli tutto quello che volevo, ringraziai che sapeva capirmi così bene tanto che mi fissò contrariato ma non avevamo scelta se voleva uscire da qui senza farsi beccare.

Doveva uscire da qui, dopo lo avrei ucciso con le mie mani ma adesso doveva andarsene e il più rapidamente possibile.

Mi liberai dalla presa dell'uomo alle mie spalle, per poi colpirlo con una forte gomitata in volto, sentendo il rumore di una rottura. L'uomo grugnì. Mi voltai verso mio fratello che aveva messo KO il suo avversario ma ora tra noi ci dividevano un buon numero di persone che correvano impazzite e le urla degli agenti m'irrigidirono. Fissai Arthur che sembrava indeciso sul da farsi e gli urlai di andarsene e che me la sarei cavata. Rimase immobile qualche minuto, provando a raggiungermi, ma fu tutto inutile così gli indicai nuovamente la direzione per la sua libertà e lui in cambio mi guardò rammaricato, andandosene.

Venni spintonata e mi trovai schiacciata contro la parete, provai a cercarlo ma non lo vidi più. Mi diressi dalla sua stessa parte nella speranza di trovare l'uscita io stessa ma si rivelò un'impresa: un tizio completamente fatto mi si aggrappò alla maglietta, strappandomela, e me lo tolsi di dosso. Tossii perché l'aria stava diventando irrespirabile e capii che non sarei mai riuscita ad andare in quella direzione visto che le persone si erano imbottigliate, bloccando ogni via di fuga; decisi così di tentare di tornare indietro. Mi feci largo a suon di braccia e quando alzai lo sguardo, incrociai quello di qualcuno che non volevo assolutamente che mi vedesse qua dentro. Sgranò gli occhi fissandomi sorpreso, abbassai subito lo sguardo e cercai di dileguarmi prima che arrivasse a me. Mi feci largo tra le persone infilandomi nell'unico corridoio che speravo mi avrebbe condotta verso un accesso possibile per l'esterno ma non riuscii nel mio intento perché un uomo mi afferrò per un braccio, impedendomi di continuare. «Eri con Cataldi prima?»

Lo guardai confusa. «Mi lasci andare.» Mi accorsi che a differenza degli altri era piuttosto calmo, forse perché non temeva per niente la polizia e questo mi piacque ancora meno.

«Mi deve parecchi debiti», disse. Provai a strattonarmi dalla sua presa inutilmente perché la rinsaldò maggiormente, sbattendomi contro il muro. «Digli che mi deve pagare, altrimenti la mia faccia sarà l'ultima cosa che vedrà.»

«Non so nulla...»

«Oh lo sai, invece.» Un ghigno sinistro gli comparve sulle labbra.

«Ti pago io, dimmi solo quanto.»

Una risata divertita esplose dalla sua bocca e qualche schizzò di saliva mi colpì il volto, facendomi venire il voltastomaco. «Sai, non mi dispiacerebbe accettare la tua offerta ma...» non riuscì a finire che qualcuno lo afferrò strattonandolo con forza a tal punto che non riuscì nemmeno a fiatare e spingendolo tra la gente in corsa che finì per inghiottirlo. Assistetti alla scena in trance, per poi alzare gli occhi su Jonathan interdetta ma lui mi afferrò per un braccio e mi trascinò dietro di lui. Lo seguii aspettandomi il peggio, soprattutto perché sembrava parecchio adirato. Si fermò e si voltò verso di me togliendosi la sua giacca e coprendomi con quella, poi mi condusse dietro di lui verso l'uscita principale, non dissi niente perché non avevo la più pallida idea di quali fossero le sue vere intenzioni.

Una volta all'aperto, si distanziò dal casino che si era creato attorno all'edificio, poi tirò fuori una sigaretta e se l'accese. Ci fissammo. Il suo sguardo da minaccioso aveva assunto la solita maschera indifferente: mi aveva fatta uscire e non sapevo che cosa aspettarmi, né lui lo faceva intendere. Inspirai a fondo e siccome restava in silenzio, gettai un'occhiata attorno per cercare di capire da dove potesse essere uscito mio fratello, poi mi voltai verso di lui sentendo il suo sguardo bruciarmi addosso. Mi innervosii sentendomi sotto esame e gli passai la sua giacca che non esitò ad afferrare. «So che cosa sta pensando ma non è...»

«Non penso a niente» ribatté. «Ora è meglio che se ne vada.»

«Non vuole sapere il perché?» domandai, perplessa.

Gettò la sigaretta. «No, è meglio così. E no, perché temo la risposta come qualsiasi cosa la riguardi» mi punse sul vivo. Mi guardò un'ultima volta come per farmi capire qualcosa che non compresi e poi lo fissai allontanarsi per ritornare a svolgere il suo lavoro.

Girai attorno all'edificio per arrivare così dalla parte dove intuivo fosse uscito Arthur e mentre camminavo non potei fare a meno di pensare che Jonathan mi aveva aiutata, sì forse a modo suo, ma lo aveva fatto e questo mi confuse perché non sapevo se potermi fidare; contavo solo di poterlo scoprire presto.

Il lampeggiare di un'auto attirò la mia attenzione e appena la riconobbi, mi ci avvicinai. Arthur aprì lo sportello e uscì dalla macchina con sguardo preoccupato. «Vivienne.» Salii dal lato del passeggero e lui mi seguì poco dopo. «Mi dispiace, non immaginavo...»

«Non mi va di parlarne adesso.»

«Beh, a me sì invece...»

«Ce ne andiamo, per favore, prima che si accorgano di noi» lo pregai, esausta.

Ci fissammo eloquentemente, finché non distolse lo sguardo per primo e mise in moto andando in retromarcia. Poi percorremmo una strada secondaria verso la libertà. «Come hai fatto a uscire?» mi chiese dopo un po'.

«Un angelo custode» sussurrai.

Si voltò verso di me confuso e mi guardò come se avessi perso la ragione, ma era proprio quello che mi sentivo di dire. Tra quello che era successo al fiume e quello che mi aveva detto, non potevo fare a meno di pensarlo. Non dopo oggi.

Appoggiai la testa contro il finestrino per sentire il freddo del vetro e ancorarmi così alla realtà. Arthur non mi fece più domande sull'argomento, anche se durante il tragitto mormorò qualcosa che mi fece riflettere. «Non dovevo andarmene come un vigliacco, dovevo restare con te.»

Non risposi perché probabilmente era vero, ma adesso non sarebbe stato qui a riportarmi a casa. Avrei dovuto passare i mesi successivi ad andare a trovarlo in carcere e non potevo sottoporre i nostri genitori a un altro periodo come quello passato, non avrebbero retto quindi era giusto così.

Tirai giù il finestrino e chiusi gli occhi, assaporando il vento su di me prima di sentire il bisogno di fare una cosa in risposta alla sua affermazione sconsolata: appoggiai la mia mano sulla sua che era posizionata sul cambio, portandolo a girarsi verso di me e, dopo una calda occhiata, me la strinse ricambiando la stretta.

Il resto del viaggio trascorse in silenzio fino a quando non mi lasciò davanti a casa e, dopo esserci salutati, vi entrai scossa per gli avvenimenti a cui ero stata sottoposta: decisi così di fare un bagno rilassante per cercare di cancellare la serata appena trascorsa, sperando che fosse possibile.

Ci restai per diverso tempo senza neanche accorgermi dello scorrere del tempo visto che l'acqua aveva un potere calmante su di me tanto che sarei voluta rimanere dentro di essa in eterno, ma fui costretta a interrompere, quando saltò la luce e il buio mi avvolse. M'immobilizzai nella vasca cercando di non farmi prendere dal panico, mi alzai e cercai a tentoni qualcosa con cui asciugarmi. Uscii dalla stanza e, tenendomi ancorata alla parete, cercai di arrivare al contatore per capire se potessi semplicemente resettarlo ma imprecai perché dopo diversi tentativi sembrava essere saltato completamente. L'unica soluzione mi sembrò quella di chiamare James; non volevo disturbarlo a quest'ora di notte ma non avevo scelta, altrimenti non avrei retto fino a mattina. Odiavo l'oscurità e la temevo.

Ripercorsi la casa a ritroso per andare a prendere il mio cellulare che era rimasto nella mia borsa e quando lo trovai, feci partire la chiamata. Mi rispose dopo diversi squilli e con una voce assonnata, ma non appena sentii la mia voce agitata mi disse che sarebbe arrivato in pochi minuti, solo il tempo di vestirsi. Lo ringraziai, chiusi la chiamata e uscii in fretta all'esterno: la luna era alta nel cielo e i lampioni illuminavano a sufficienza la strada, permettendomi di aspettarlo non al buio pesto che si era diffuso in casa.

Arrivò dopo un quarto d'ora circa e mi fissò confuso trovandomi seduta all'entrata, poi entrò in casa e aspettai che avesse finito. Quando finalmente la luce tornò, rientrai in casa più tranquilla. Lo ringraziai e andai a prendere il portafoglio per dargli quanto gli spettava per il disturbo, mi guardò male e mi disse che eravamo a posto così. Insistetti un'altra volta ma fu categorico sull'argomento così alla fine mi arresi. Mise via i suoi attrezzi. «Cosa ci facevi ancora sveglia a quest'ora?» mi chiese. Era una storia troppo lunga da spiegare e lui, vedendomi esitare, la buttò sullo scherzo. «Non riuscivi a smettere di pensarmi dopo la fantastica serata passata insieme?»

Risi per poi offrirgli qualcosa da bere che accettò volentieri, naturalmente di non alcolico perché doveva guidare. Glielo portai e mentre glielo stavo servendo, mi trascinò a sedere sulle sue gambe e anche se il suo azzardo non mi sorprese, non avevo intenzione di stare al gioco questa volta e non sapevo neanche il perché, ma qualcosa mi frenò. Lo guardai e lui mi sorrise scostandomi i capelli dal collo. «Che stai facendo?»

«Se non è ovvio, credo di essere proprio un disastro» sussurrò.

Mi allontanai dal suo volto che si era avvicinato fin troppo al mio; per stasera non avevo nessuna voglia di andare oltre. Mi osservò con attenzione per capire le mie intenzioni e quando gli furono chiare, il suo volto si adombrò istantaneamente. Mi distanziai, alzandomi. «Forse è meglio che vai adesso.»

Rimase un attimo fermo, esprimendo tutta la sua perplessità, poi si alzò. «Come preferisci.» Mi sembrò alquanto seccato ma avevo sbagliato la prima volta e non avevo intenzione di farlo una seconda. Lo guardai raccogliere le sue cose e andarsene senza dire nient'altro. Guardai la porta sbattuta finché non sentii un'auto sgommare via e capii che doveva essersene andato.

Finalmente sola ne approfittai per riposare un po' e appena raggiunsi il letto, mi ci distesi sfinita e senza poter fare a meno di lasciare la luce accesa a farmi compagnia.

Mi svegliai dopo poche ore di sonno e mi alzai pronta per recarmi al lavoro: oggi avrei avuto solo mezza giornata, così avrei evitato anche di stancarmi eccessivamente ma non ci avrei rinunciato per nulla al mondo, avevo bisogno di distrarmi. L'unica pecca sarebbe stata quella di dover sopportare i colleghi o i genitori impiccioni.

Durante la mattinata il vero problema, però, arrivò direttamente dal preside che mi chiamò in disparte per avvertirmi che si sarebbe tenuta un'assemblea straordinaria per discutere delle situazione e con "situazione" capii subito che dovesse trattarsi della mia posizione. Non mi azzardai a dire che il mondo mi crollò sotto i piedi ma ci andai vicina; amavo il mio lavoro e non sarebbe stato facile trovarne un altro, non con il curriculum che mi sarei portata dietro dopo quest'esperienza.

Una volta finite le mie ore lavorative, tornai a casa con l'intenzione di cambiarmi e andare a fare un giro per alleggerire un po' in miei pensieri da tutto quello che mi era successo nell'ultimo periodo: optai per un percorso diverso dal solito senza però abbandonare il fiume che tanto adoravo e che qualcuno era riuscito a rovinare in pochi attimi. Per stare più tranquilla lo raggiunsi dalla parte del porto o meglio dalla parte dove alcuni cittadini erano soliti ormeggiare le loro barche o qualsiasi mezzo che gli consentisse di solcare le acque del fiume. Camminai sulla banchina cullata dal vento e accompagnata dal rumore degli alberi, delle vele e del rumore dell'acqua contro le imbarcazioni. Un signore anziano si accorse della mia presenza e mi chiese cordiale: «Vuol fare un giro, mademoiselle

Gli sorrisi e mi trovai a riflettere sulla sua proposta quando qualcosa o meglio qualcuno attirò la mia attenzione e l'osservai stupita perché non mi sarei mai immaginata di trovarlo qui. Non sembrava proprio il tipo da prendere il largo.

Senza neanche avere più alcun controllo di me stessa, m'incamminai nella sua direzione dopo aver salutato il gentile signore.

Ormeggiato con la sua barca, attaccato al molo, Jonathan era intento a sistemare qualcosa e quando si accorse della sottoscritta, si alzò in piedi studiandomi da lontano, per poi distogliere lo sguardo continuando a fare quello che stava facendo come se niente fosse. Mi avvicinai titubante senza sapere nemmeno che cosa in realtà volessi fare e siccome lui restava in silenzio, decisi di prendere in mano la situazione. «Le suonerà strano ma grazie per ieri e per la sua discrezione

Gettò una rapida occhiata verso di me, tornando al suo lavoro. Sentii la rabbia crescere a causa del suo comportamento; aspettai una sua reazione che non avvenne. Anzi mi diede direttamente le spalle e io, permalosa com'ero, mi rimangiai quanto appena detto e me ne andai intenzionata a non rivederlo mai più, perché come mi scombussolava nell'animo quest'uomo non lo faceva nessuno. Non avevo fatto neanche pochi metri, però, che la sua voce virile e decisa fermò la mia ritirata. «Vuole salire?»

Mi voltai verso di lui incredula della sua proposta. Mi guardò in attesa di una risposta che tardava ad arrivare e alzò un sopracciglio per incentivarla e sinceramente non seppi cosa fare, comprendendo solo ora che non fosse Jonathan che non capivo ma me stessa: ritornai verso la sua barca. Mi tese la mano per aiutarmi a salire e, dopo un attimo di esitazione, l'afferrai e lasciai che mi trascinasse a bordo. In un attimo mi trovai di fronte a lui e, sfiorando il suo petto, mi tesi nel provare strane e contrastanti emozioni. 

Stavo perdendo il controllo di me stessa e la colpa era dell'uomo che mi stava davanti e che ora mi guardava in un modo che non capivo, come del resto tutto quello che lo riguardava.

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