Capitolo 16- Perché Dovrei Fidarmi?

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«Se vuoi, vengo dentro con te.»

Alzai lo sguardo su Jonathan e lessi la sua preoccupazione nel vedermi tentennare, così dal nervosismo presi a torturarmi le mani. Poi inspirai a fondo e finalmente reagii. «No, devo farlo da sola.»

Serro la mascella ma, senza aggiungere nient'altro, si fece da parte per lasciarmi il mio spazio. Entrai nella stanza e trovai Arthur intento a guardare fuori dalla finestra. Poi si accorse di me. Lo avevano medicato e gli ematomi erano ancora evidenti ma almeno avevano già iniziato a cicatrizzarsi. Si sforzò di mettersi seduto e notai una smorfia spuntargli sul volto per il dolore all'addome. Mi morsi il labbro inferiore senza sapere che cosa dire e Arthur, notando il mio disagio, pensò che ce l'avessi con lui per l'incontro della sera prima. «Mi dispiace che tu abbia assistito.»

Mi strinsi nelle braccia, lasciando che riaffiorassero i ricordi dell'incontro truccato e l'unica cosa che riuscii a dire fu una sola. «Il debito è saldato: mi è stato detto di riferirtelo.»

La sua espressione mutò. Poi sbottò: «È così difficile per te fare semplicemente quello che ti viene chiesto?» M'irrigidii. «Ti avevo detto di aspettarmi dentro allo spogliatoio e invece, come al solito, non l'hai fatto. Cos'è, eri curiosa di farti un giro

«Non prenderti gioco di me. Tu non hai la minima idea...»

«Di cosa? Che cos'hai fatto, Vivienne?», chiese. Non risposi e mi fulminò con rabbia intuendo quello che ero arrivata a fare; a sua insaputa. «Ti avevo detto di no. Ti avevo detto di non immischiarti e ora hai rovinato tutto.» 

«Ho fatto quello che dovevo, ho cercato di aiutarti: non credo sia un crimine, no?» 

«Senti, lasciamo perdere. Come al solito, dovrò riparare io ai tuoi casini.» Cercai di trattenere la rabbia e rimasi in silenzio tanto che spostò lo sguardo su di me. «Ah non dire niente a casa, non voglio che si preoccupino.» Sentii le mani tremarmi e probabilmente persi di colore perché il suo sguardo si fece attento. «Che hai?»

Il mio battito accelerò per la tensione e mi avvicinai al letto. «Non gli potrò dire niente perché... non ci sono più, Arthur. Sono morti questa mattina.»

Rimase in silenzio per diversi attimi. Minuti che mi sembrarono eterni, poi scosse la testa freneticamente. «Ma di che cosa stai parlando?» non parlai, non c'era niente che potessi dire. «No... No, non possono essere morti. Loro sono...»

«Mi dispiace, Arthur.»

«Non dire che ti dispiace. Non lo dire, dannazione.» Chiuse gli occhi furioso e percepii tutto il suo dolore. Si passò le mani sul volto e tra i capelli in un evidente stato di crisi. «Non dire niente.» Gli occhi mi diventarono lucidi e compresi che quel poco che mi ero costruita in questi anni fosse tutta una menzogna, non mi sarebbe rimasto più nessun altro entro la fine di questa giornata se adesso lui mi voltava le spalle. «Ho smesso di vivere da quando sei arrivata, lo capisci questo vero?» si sedette sul letto, pronto ad alzarsi. «Mi hai portato via tutto.» Mi sentii sprofondare la terra sotto i piedi nuovamente. Ci guardammo negli occhi e lessi tutto l'odio che non aveva potuto fare a meno di riversare su di me ma se fosse stato l'unico modo che gli avrebbe consentito di superare questo dolore, allora non mi sarei opposta. L'odio, però, era difficile da mandar giù e alcune lacrime scesero dai miei occhi inaspettatamente. «Non ho più una cavolo di vita per colpa tua.» Mi morsi le labbra per non dover dire qualcosa di cui poi mi sarei pentita. Mi si avvicinò instabile, ma lo fece, e quando me lo ritrovai di fronte, non mi spostai in attesa del colpo finale che non sapevo se avrebbe avuto il coraggio di sferrare. Mi fissò in silenzio e notai i suoi occhi farsi lucidi, si sporse in avanti come sospinto da una forza maggiore con tutta l'intenzione di abbracciarmi, poi ci ripensò e le sue mani arpionarono in due pugni la giacca che indossavo e mi trovai così pressata contro il muro alle mie spalle. «Lo sai che adesso saremmo da soli? Anzi, mi correggo, sarò da solo.»

Un nodo mi si formò in gola nel sentirglielo dire. «Non sei solo, Arthur. Hai me.»

Un cipiglio sorse sul suo volto, poi un sorriso di scherno andò a delineare le sue labbra. «Io non ho te, Vivienne. Tu non ci sei mai, ho dovuto supplicarti per starmi vicino nell'ultimo periodo. E quando mi sei vicino, non ci sei con la testa.» Trattenni il respiro ferita dalle sue accuse. «Ti sono stato vicino, ho cercato di aiutarti, ma tu non me l'hai mai permesso e quando si è trattato di ricambiare il favore, non te ne è mai fregato niente di me. Perché adesso dovrebbe essere diverso?» 

Afferrai le sue mani perché mi mollasse. «Non è colpa mia quello che ti è successo: hai fatto delle scelte e queste hanno avuto delle conseguenze.» L'occhiata gelida che mi gettò avrebbe dovuto intimorirmi. «Mi dispiace per la tua perdita, ma li ho persi anche io.»

Una risata amara sfuggì dalle sue labbra. Mi morsi l'interno della guancia fino a sentire il sangue fuoriuscire. Cercai di spostarmi ma non me lo permise, quasi come se fosse in contraddizione con sé stesso: da un lato voleva tenermi lì con lui e dall'altra avrebbe voluto liberarsi per una buona volta della sottoscritta. Stavo per dirgli di lasciarmi andare quando lo fece qualcun altro al mio posto. «Lasciala andare, immediatamente.»

Mio fratello si voltò verso di lui sorpreso tanto quanto me di trovarselo sulla porta. Non mollò subito la presa su di me, prima passò lo sguardo tra noi due. «Che ci fai tu qui?» Jonathan si fece avanti con aria tetra nel notare che non mi aveva ancora lasciata andare e, percependo un'aura negativa, provai a farmi avanti ma Arthur mi precedette. «Siete insieme?» Percepii la tensione nella sua voce e lo sguardo furioso che mi rivolse mi spaventò ma feci l'errore di gettare una rapida occhiata verso Jonathan. «Eri con lui?», chiese. Sinceramente non erano affari suoi ma evitai di provocarlo visto che sembrava già fuori di sé. «Ti ho fatto una domanda, Vivienne.»

«Mi ha aiutata, come credi che avrei fatto ha portarti fino a qui altrimenti?»

Ridusse gli occhi in due fessure. «Eri con lui quando sono morti?»

La sua presa si fece più forte e probabilmente entro sera sarebbe spuntato un bel ematoma ma per adesso era l'ultimo dei miei problemi, anche se Jonathan fu di tutt'altro avviso; infatti, si fece avanti scansando Arthur. «Vedi di lasciarla in pace, la mia pazienza ha un limite.» Mi si parò davanti, indicandomi l'uscita. «Credo sia ora di andare.»

Lo guardai titubante. Non volevo lasciare mio fratello da solo ma forse, per il momento, era l'unica soluzione. «Non puoi accusarmi di niente, Arthur», dissi.

Quest'ultimo mi guardò deluso dalla scelta che stavo per fare. «Ah sì? Ti stai sbagliando, non ho fatto altro che metterti in guardia da lui, e tu cosa fai?» Jonathan si irrigidì. «Ti sta manipolando e tu glielo stai lasciando fare.» Fermai la mia avanzata. «E vuoi sapere come lo so? Perché è l'unica cosa che gli riesce bene.» Jonathan si voltò verso di me, scuotendo la testa, ma non sapevo più a chi credere all'interno di quella stanza. «Come tradisce lui un collega non lo fa nessuno, vero Jonathan?» Mi sentii di troppo tra i loro sguardi e indietreggiai verso la porta lasciando che ogni parte del puzzle andasse al suo posto e, ancora una volta, mi sentii in errore per essermi fidata. «Se scegli lui, allora è meglio che non mi cerchi più.»

Jonathan rimase in silenzio senza replicare alle parole di mio fratello e sentii le forze mancarmi, così me ne andai. Voltando le spalle a entrambi.

Uscii dall'ospedale, quando Jonathan mi raggiunse. «Non devi credere a una parola di quello che ha detto», mi disse.

«Perché no?», chiesi. «Perché a me è sembrato tutto piuttosto chiaro: è per colpa tua se è finito dentro, giusto?» 

«Non è così facile da spiegare, dammi solo la possibilità...»

Avvertii una morsa stritolarmi lo stomaco e indietreggiai. «No, adesso è troppo tardi.»

Gli diedi le spalle e lui mi richiamò con tono duro. «Vivienne!»

«Perché dovrei fidarmi?» mi voltai. «Dammi un solo motivo perché io debba crederti.» Lo vidi in guerra con sé stesso e quando capii che non avrebbe detto niente per rassicurarmi o confortarmi, come invece aveva saputo fare benissimo in mattinata, me ne andai delusa da lui e da me stessa senza più dargli il tempo di spiegarsi.

Mi fermai alla prima fermata dell'autobus e una volta che quest'ultimo fu arrivato, mi sedetti nel primo posto disponibile diretta ovunque, bastava che riuscissi a levarmi dalla testa la sua espressione dispiaciuta o di rammarico. Quei due occhi glaciali e caldi al contempo da incendiarmi dentro come se non ci fosse un domani. Quel blu in cui mi sarei voluta immergere e quello stesso blu di cui ero più che certa non sarei più riuscita a farne a meno.

Senza saperlo ripassai davanti all'ospedale, avvistandolo nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato. Non sapevo se riuscì a vedermi ma, dopo qualche attimo, s'incamminò nella direzione opposta alla mia, con le mani nelle tasche e un'aria sconsolata: imprecai, prendendomi la testa tra le mani seccata da tutto il casino che si era creato.

Rimasi sull'autobus per diverso tempo, persa a guardare fuori dal finestrino e a ripensare alle parole di mio fratello senza capacitarmi di come potesse portarmi così tanto rancore ma... probabilmente aveva le sue ragioni, anzi quasi sicuramente.

Non mi ero resa nemmeno conto di dove fossi finita che sentii qualcuno sedersi al mio fianco. «Credo che lei si sia persa, signorina.»

Mi voltai verso colui che avevo riconosciuto all'istante. James mi sorrise e mi sforzai di fare lo stesso con scarsi risultati e a lui, di certo, non sfuggì. «Non mi sono persa, so perfettamente...»

Guardai fuori dal finestrino cercando di capire dove fossi ma con scarsi risultati e la sua risata calda mi giunse alle orecchie, imbarazzandomi. «Sei fortunata che tu ti sia imbattuta nel sottoscritto, non è una bella zona per una ragazza sola.»

«Non sono così indifesa come voglio far credere, ti conviene ricordartelo.»

Sorrise, annuendo convinto. «E ora mi vuoi dire che ti è successo?» domandò.

«Ho semplicemente perso le uniche due persone che mi volevano bene a questo mondo.»

Mi studiò con attenzione come se facesse fatica a comprendere le parole che avevo usato e il loro significato. Mi voltai nuovamente verso il finestrino, evitando di ritornare sull'argomento o anche solo di pensarci. «Non sarai più sola, Vivienne. Se lo vuoi» sussurrò talmente piano che rischiai di non sentire quello che aveva detto e cercai il suo sguardo confusa ma lui invece deviò il mio. Restammo in silenzio per i minuti successivi fino a quando la sua voce non si fece rivalere. «Forse ci conviene scendere, ormai siamo quasi al capolinea.» Osservai attorno e mi accorsi che non era rimasto praticamente più nessuno sull'autobus, così annuii. «Dai, ti accompagno.» Provai a impedirglielo ma fu irremovibile sull'argomento. Mancava ancora un po' fino all'avviso della prossima fermata così si schiarì la voce: «Anche io ho perso i miei genitori, Vivienne.» Mi tesi e riportai l'attenzione su di lui, notando che la sua espressione si fosse fatta seria. «Ero piccolo e questo mi ha segnato più del previsto ma... quello che non uccide fortifica, no?»

«Sì, forse hai ragione» bisbigliai.

«Dai, vieni qui.»

Lo guardai male, facendolo ridere. Mi tirò verso di lui perché mi lasciassi abbracciare e, dopo aver dato un'occhiata in giro, mi arresi e ricambiai la stretta. «Ti odio, lo sai vero?»

Rise, per poi rinsaldare la presa su di me e alla fine non mi opposi perché era quello di cui avevo bisogno, anche se non lo avrei mai ammesso. Soprattutto perché non era tra quelle braccia che avrei voluto essere ma non sapevo ancora se mi potessi fidare, non con quello che avevo scoperto in giornata e non con il fatto che mi sarei dovuta dividere tra le ragioni di mio fratello e le sue. Non potevo e non volevo, ma immaginavo che sarebbe stato più difficile del previsto prendere la decisione giusta.

Quando arrivò la nostra fermata, scendemmo e lasciai che mi accompagnasse verso casa mia. Fu una passeggiata lunga, ma piacevole: il mio umore era leggermente migliorato e forse il merito andava all'uomo che ora mi camminava a fianco.

Una volta che mi ebbe accompagnata, ci salutammo e, dopo averlo visto avviarsi verso la direzione da cui eravamo appena arrivati, entrai in casa. Il gatto mi corse incontro e lo strinsi subito al petto sentendolo brontolare. Sorrisi divertita dal suo brutto carattere e mi avviai verso la camera da letto. Mi ci lanciai sopra e restai ferma a guardare il soffitto, mentre il gatto si posizionava al mio fianco. Non riuscii a dormire e non saprei dire per quanto rimasi in quella stessa posizione ma, a un certo punto, sentii il gatto tendersi e correre fuori dalla stanza. Lo guardai confusa, per poi seguirlo e mi accorsi subito che si era recato davanti alla porta, soffiando. Alzai un sopracciglio sempre più perplessa e mi sporsi dalla finestra per vedere fuori ma non vi era nessuno e, dopo averlo preso, mi recai in cucina per dargli da mangiare. Sistemai un po' la casa per tenermi impegnata e quando passai davanti alle scale che conducevano al seminterrato, mi fermai senza un apparente motivo e, vedendo il buio che lo avvolgeva, sentii una morsa attanagliarmi il petto. Decisi di sfidare le mie paure e feci i primi gradini, scendendoli a uno a uno con estrema cautela e una volta arrivata alle fondamenta, accesi la luce e mi guardai attorno. Quello che vidi, però, m'immobilizzò seduta stante, non potevo credere ai miei occhi: era esattamente lo stesso seminterrato di sempre, non vi era alcuna modifica. Non aveva fatto niente e mi sentii presa in giro a livelli indicibili non riuscendo a capire quello che realmente fosse venuto a fare. Ci aveva lavorato ore e ore e questo era stato il risultato. Sentii la rabbia crescermi nel petto: non sapevo se fosse giusto lasciargli dare una spiegazione o se dovessi picchiarlo appena mi fosse ricapitato sotto tiro ma di sicuro ero più propensa per la seconda opzione.

Ritornai al piano superiore, spegnendo la luce e una volta nel mio soggiorno, feci vagare il mio sguardo attorno senza sapere che cosa fosse giusto fare; e la soluzione fu niente. Non gli avrei fatto capire che sapevo.

M'infilai la giacca e decisi di fare una pazzia: sarei andata a trovare Jonathan in centrale, avevo bisogno di un consiglio ed ero convinta che lui avrebbe potuto darmelo. Mi ricordai solo dopo che non avevo più l'auto e ci impiegai più tempo del previsto ad arrivarci con i mezzi pubblici ma una volta giunta a destinazione, entrai all'interno e chiesi di lui.

All'ingresso una poliziotta anziana mi guardò con diffidenza prima di accontentarmi e farmelo chiamare, avvertendomi però che stava quasi per finire il suo turno. Lo aspettai. Ero nervosa perché non sapevo se mi avrebbe voluto aiutare, non dopo come ci eravamo lasciati in mattinata e quando lo avvistai scendere le scale, in compagnia della strega, m'irrigidii. I nostri occhi s'incontrano e lessi la confusione nei suoi: era sorpreso di vedermi lì.

Disse qualcosa alla sua collega che mi fissava in cagnesco, per poi avviarsi nella mia direzione e una volta che mi ebbe raggiunta, mi parlò duramente. «Seguimi.» Mi sorpassò e mi ritrovai a dargli ascolto, non prima però di aver gettato una rapida occhiata contro l'altra agente di polizia che, dopo un attimo di esitazione, lasciò spuntare un sorriso di scherno sul suo volto. Seguii Jonathan fino a quando non mi fece entrare in quello che doveva essere il suo ufficio. «Mi vuoi dire che ti è saltato in mente di presentarti qui e chiedere di me?»

«Avevo bisogno di parlarti» risposi.

Alzò un sopracciglio scettico, poi m'indicò la sedia davanti a lui ma non mi sedetti. Si lasciò cadere sulla sua poltrona scocciato. «Allora parla.»

L'irritazione crebbe dentro di me ma cercai di resistere dall'insultarlo seduta stante. «Senti, sono solo supposizioni: ma se avessi lasciato entrare in casa colui che ha fatto succedere tutto questo?»

«Chi è che hai fatto entrare?» non stava capendo e forse non aveva tutti i torti, non ero stata molto chiara ma, in realtà, era voluto.

«Un tuttofare, James. Il cognome non ho idea di quale sia ma a casa ho il volantino con i contatti.»

«Hai delle prove, Vivienne, di quello che stai dicendo?» chiese. Mi tesi perché aveva colpito nel segno e quando negai, si lasciò andare a un sospiro amaro. «Come credi che possa aiutarti allora? Le tue sono solo supposizioni. Capisco che tu voglia trovare una spiegazione o un colpevole ma forse...»

«Non ti azzardare a darmi della pazza. Non sono venuta qui per sentirmelo dire, volevo solo il tuo aiuto.»

«Beh, in questo caso non te lo posso dare.» Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e lo guardai delusa. «Come stamattina mi hai detto che non ti puoi fidare del sottoscritto, io non posso crederti. È da quando ci conosciamo che ti diverti a fare giochetti, questa potrebbe essere una di quelle volte» mi accusò. «E poi abbiamo già una sorta di pista da seguire» mi sorprese. «Hai presente il luogo dove è morto Spencer? Ci avevi detto che eri solita andarci ma non eri l'unica a conoscerlo, giusto? Hai omesso di dircelo ma c'era un'altra persona che lo conosceva ed è tuo fratello, Vivienne.»

«Non osare coinvolgere Arthur, lui non c'entra niente» alzai la voce, fuori di me. 

Mi fissò senza lasciar trapelare come davvero la pensasse. «Il suo comportamento morboso e iperprotettivo può benissimo essere visto come un movente e non lo penso io, ma diversi agenti di là.» Alzò un braccio, indicandomi il mondo al di fuori di questo ufficio.

«Lascia in pace, Arthur. Tu lo sai benissimo che non ha fatto niente», dissi solo.

«Tu sai dov'era? Lo sai? Perché lui non ha dato risposte sull'argomento.»

«Lo sai benissimo dov'era e sai anche che se lo direbbe lo sbatterebbero di nuovo dentro.»

Mi si avvicinò con espressione seria. «Io lo so, ma gli altri agenti no. E questo non va di certo a suo favore.»

Mi agitai e provai ad appigliarmi a qualcosa. «Ci penso io. Trovo una soluzione, ok?»

Mi prese per un una spalla con decisione. «Tu non farai proprio un bel niente, ci siamo capiti?»

Tolsi la sua mano da me, trucidandolo con lo sguardo. «È mio fratello, tu non faresti lo stesso con il tuo?» Qualcosa cambiò nel suo sguardo e indietreggiò come scottato dalle mie parole. «Quindi, in sostanza, non mi vuoi aiutare?» domandai.

«Ho le mani legate e tu non dovevi venire qui. Non è visto di buon occhio dai miei colleghi...»

«Il tuo maledetto lavoro prima di tutto, eh?» lo spintonai. «Ti ho chiesto una mano e non sai dire altro che no.» Sembrò combattere contro sé stesso, poi m'indicò la porta come tacito invito ad andarmene. «Non ho nessun altro a cui chiederlo.»

Si perse a fissarmi indeciso. Lo supplicai con lo sguardo e, dopo un'occhiata eloquente, s'irrigidì, prendendo nuovamente le distanze. «Non puoi fidarti di me, Vivienne. Avevi ragione.» L'amarezza mi avvolse e distolse lo sguardo, impedendomi di leggere nei suoi occhi come la pensasse davvero.

Mi avviai verso l'uscita ma prima di andarmene mi voltai un'ultima volta. «Avrai le tue dannate prove» affermai decisa, poi aprii la porta e fuggii via. Mi richiamò ma, notando che gli altri avevano diretto il loro sguardo su di noi, non insistette e sentii sbattere la porta del suo ufficio.

Corsi fuori di lì e ritornai a casa che ormai si era già fatta sera. Cenai, per poi oziare per il resto del tempo: ero agitata e nervosa per tutta la tensione accumulata.

Presi il telefono, pensando a mio fratello: non potevo e non volevo credere che c'entrasse qualcosa con questa storia, altrimenti non l'avrei mai sopportato. Scorsi tra le chiamate perse e vi trovai quelle di Patrick, all'improvviso mi ricordai del messaggio che mi aveva lasciato in segreteria. Esitai terrorizzata da quello che avrei potuto sentire ma alla fine trovai la forza di lasciare partire il messaggio.

«Vivienne, so cosa avevo detto ma avevo bisogno di sentirti: sta succedendo qualcosa di veramente strano. Ho bisogno di vederti, chiamami appena senti questo messaggio e scusami ancora. Ho fatto un casino...»

Una morsa mi attanagliò il petto. Alcune lacrime scesero copiose dai miei occhi perché ora con questo messaggio sapevo che non era autore del suo gesto. Ne avevo la certezza e allora ci doveva per forza essere qualcuno a piede libero che era stato capace di fargli del male e per questo l'avrebbe pagata cara. Lo avrei vendicato: era una promessa che facevo a Patrick in persona e a me stessa. Non importava chi fosse, aveva appena commesso l'errore più grande della sua vita.

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