Capitolo 15- Aspettando Il Sorgere Del Sole

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La boscaglia si estendeva alle nostre spalle e la città si ergeva davanti a noi. Non eravamo su un'altura ma la pianura era così deserta da non sottrarci a quella vista. Mi fermai ad ammirare gli enormi palazzi e le luci che riflettevano, poi mi voltai verso Jonathan. «Si può sapere dove mi hai portata?»

Non mi rispose subito facendomi irritare ma ormai stavo imparando a conoscerlo e se avessi voluto delle risposte, sarei stata costretta ad attendere. Nell'attesa presi la bottiglia che lo avevo costretto a fermarsi a prendere. 

«Vacci piano con quella», disse.

Il solito guastafeste.

Mi sedetti sul cofano della sua auto e mi persi a guardare il panorama. La meravigliosa vista mi riportò a galla le stesse sensazioni che ero solita provare nel mio ormai ex-posto preferito e la memoria di Patrick mi sommerse senza che potessi far nulla per impedirlo. Il ricordo della sofferenza che gli avevo provocato negli ultimi giorni che eravamo stati insieme mi dilaniò nell'animo perché non potevo fare a meno di attribuirmi la maggior parte della colpa. Lui mi amava e lo avevo ripagato così: il prezzo era stato troppo caro per entrambi, perché se la prima volta che ci eravamo incontrati mi fossi comportata diversamente forse ora non sarei qui a piangere la sua morte.

Aprii la bottiglia, ne buttai giù un sorso per cercare di distrarmi e, portando gli occhi davanti a me, mi trovai ad ammettere che meritasse davvero questo luogo: sia per la calma sia per la bellezza che era impossibile non notare anche a quest'ora di notte. Il buio era ovunque ma tra poco il sole sarebbe sorto; infatti, si poteva già notare un leggero chiarore in lontananza che annunciava minaccioso il nuovo giorno. Jonathan rimase in silenzio e lo apprezzai ancora di più per questo, era proprio quello di cui avevo bisogno ma poi la razionalità prevalse e, ripercorrendo gli eventi di quella sera, non riuscii a trattenermi dal fargli una domanda. «Cosa ci facevi lì? Mi hai seguita?»

Un sorriso sarcastico comparve sulle sue labbra. «Stai diventando un po' troppo ripetitiva, non credi?» Gli gettai un'occhiataccia e lui preferì rassicurarmi sulla questione. «No comunque, non ti stavo seguendo.»

«E allora perché eri lì?»

Mi fissò e attesi ma, ancora una volta, deviò il discorso. «Lo sai che potrei farti la stessa domanda, vero?» Sì e non avrei risposto, in questo eravamo simili. Lo guardai, aspettando la sua risposta che non arrivò. «Non posso parlartene, Vivienne.»

«Il lavoro prima di tutto, giusto?» lo rimproverai.

«Giusto.» Il tono malinconico con cui lo disse mi fece riflettere e quando riportò lo sguardo davanti a sé, mi persi a osservare il suo profilo per cercare da sola le risposte che stavo cercando. Un silenzio carico di significato ci circondò, impedendoci di dire davvero come ognuno dei due la pensasse. «Lo amavi, Vivienne?»

Mi voltai verso di lui sconvolta dalla domanda inaspettata. Capii subito a chi si stesse riferendo e una morsa mi attanagliò il petto. Diressi lo sguardo altrove. «È un po' tardi per pormi questa domanda, non credi?» sentii i suoi occhi su di me. «Mi hai portata qui per questo? Vuoi sapere di Patrick?»

«Solo se me ne vuoi parlare, niente costrizioni.»

Incastrai il mio sguardo al suo per capire se fosse sincero e ne trovai la conferma. Non sapevo se fosse giusto parlarne o se fosse sensato parlarne proprio con lui, ma questa volta decisi di fare un'eccezione e il perché era ancora tutto da scoprire. «Per quanto provi in ogni modo a farmene una ragione, non riesco ad accettarlo e, fidati, sarebbe più facile ma ho un brutto presentimento che mi tormenta e che non riesco a togliermi dalla testa.» Rimase in silenzio e ne approfittai per continuare. «Non credo che sia stato lui a compiere personalmente quel gesto, non era assolutamente...» m'interruppi sentendo un nodo formarsi nella mia gola. «Oppure sto solo cercando di attenuare il mio senso di colpa, convincendomi di conoscere una persona quando, in realtà, è evidente che non era così.» Bevvi un altro sorso, fissando le luci in lontananza, gli occhi mi diventarono lucidi ma ricacciai indietro qualsiasi emozione stesse cercando di riaffiorare per fargli un'altra domanda. «Qual è la tua storia, Jonathan?» lo sorpresi.

«Niente di eclatante: divorziato e dedito al mio lavoro.»

Alzai un sopracciglio incuriosita e decisi di scherzarci su. «E chi è stata la povera sfortunata?»

«Non devi avere una buona considerazione di me», disse, senza collera, era divertito in realtà. Sorrisi e in un piccolo angolo del mio cervello mi concessi di pensare che di chiunque si trattasse aveva fatto un errore a lasciarselo scappare.

Ero stata con molti uomini, forse troppi, ma nessuno aveva mai avuto quel fascino che lo caratterizzava e che, in certo senso, mi attraeva. E non era da me riconoscerlo perché di solito gli uomini gli sceglievo proprio perché non m'interessavano, così sarebbe stato tutto più facile, emotivamente parlando. Anche se, in realtà, questo era uno solo dei tanti motivi che mi avevano costretta a intraprendere questa strada contorta e senza uscita.

Jonathan mi sfiorò la spalla con la sua per riportarmi alla realtà e gli sorrisi, bevvi un altro sorso, poi gliela offrii e, dopo un attimo di esitazione, ne bevve anche lui. Scesi dall'auto sotto il suo sguardo attento e una volta aperta la portiera, mi chinai all'interno per accendere la radio: cambiai diversi canali per cercare la canzone giusta e quando la trovai, alzai il volume e posizionai davanti alla vista della città. Cominciai a muovermi a ritmo della musica, lasciandomi guidare dalle note: adoravo le sensazioni che la musica riusciva a scatenare, riuscivo a sentirmi libera come non mai.

Mi girai per vedere se Jonathan fosse ancora vivo e quando lo feci, mi accorsi che fosse intento a guardarmi. Gli porsi la mano come tacito invito a raggiungermi e scosse la testa, facendomi spuntare un sorriso sulle labbra. Iniziai ad avvicinarmi con passo lento e studiato e lo divertì.

Quando gli fui davanti, lo invitai a farmi compagnia ma rifiutò nuovamente e il perché, sinceramente, non mi fu chiaro ma preferii non indagare. «Ho capito: sei uno di quelli a cui piace guardare.»

Gli ammiccai e indietreggiai, mentre un sorriso sornione andò a incorniciargli il volto: stuzzicarlo cominciava a diventare il mio passatempo preferito e a lui, di sicuro, non era sfuggito. Poi se ne uscii con qualcosa che non mi aspettavo e che mi scombussolò a tal punto da lasciarmi silente per diversi attimi. «Mi piace guardare te» sussurrò.

Incrociai i miei occhi nei suoi, interdetta, cercando di capire se stesse dicendo il vero o se la sua fosse solo una presa in giro ma non feci in tempo a scoprirlo che, indietreggiando, m'imbalzai in qualcosa e caddi all'indietro nella più orrenda delle figure.

Ecco l'effetto che mi avevano fatto le sue parole e mi sentii morire dall'imbarazzo.

Percepii i suoi passi avvicinarsi in fretta. «Tutto bene?» cercò di trattenere un sorriso e lo minacciai con lo sguardo se solo osava ridere ma alla fine non ce la fece. Rise. «Vuoi alzarti o hai intenzione di restare lì per sempre?»

Che spiritoso!

Spostai lo sguardo sopra di me distogliendolo dal suo e mi persi ad ammirare le ultime stelle rimaste, ormai il chiarore dell'alba stava cancellando ogni loro traccia. «Sdraiati vicino a me.» Esitò e non me ne meravigliai, poi mi ascoltò e si sdraiò al mio fianco, in silenzio, perso anche lui a guardare il cielo sopra di noi. «Sei figlio unico, Jonathan?» gli chiesi, anche se in realtà non volevo una risposta né m'interessava. Mi sentivo semplicemente sola. E quando mi arrivò la sua conferma, capii che non avrebbe potuto comprendere il mio rapporto con Arthur né adesso né mai, ma lo stesso quando si sollevò su un gomito per potermi guardare in viso, lessi qualcosa nei suoi occhi che mi convinse del contrario.

«Riesco a sentire il filo dei tuoi pensieri: non sei una cattiva sorella, Vivienne, e quello che è successo stasera non è colpa tua», mi disse. «Arthur poteva beccarsi qualcuna di molto peggio, non ti pare?»

Gli gettai un'occhiataccia irritata dalla sua impertinenza e in risposta mi sorrise. Mi ritrovai a fare lo stesso consapevole che lo avesse fatto per riportare il sorriso sul mio volto e dovetti ammettere che, inaspettatamente, ci fosse riuscito anche se non condividevo appieno la sua teoria. Non ero affatto una buona sorella e il motivo era ovvio, solo che eravamo bravi a nascondercelo l'un l'altro. Non ne parlavamo mai e il motivo era che io non amavo trattare questo argomento in particolare, o meglio qualsiasi argomento che mi riguardasse.

«Come riesco a farlo smettere? È un mondo che non concede o regala niente a nessuno, prende tutto fino all'ultima goccia di sangue, poi un giorno si sveglierà e avrà perso tutto quanto, compreso sé stesso.» Sentii il suo sguardo su di me ma non lo incontrai. «E vorrei aiutarlo, solo che non so come fare senza lasciarmi trascinare io stessa a fondo con lui, perché è così che andrà.»

«Non voglio assolutamente difendere tuo fratello, ma non sottovalutarlo. Sono convinto che sappia perfettamente quello che c'è in gioco e il prezzo che comporta, quindi non ti resta che lasciargli il tempo di abituarsi all'idea.»

L'ascoltai turbata dalla scoperta appena fatta. «Sembri conoscerlo molto bene, così come lui sembra conoscere te: il risentimento dell'altro giorno ne è la prova.»

«Lavoravamo insieme un tempo... ma non credo spetti a me parlartene.» 

La sua confessione mi lasciò basita ma cercai di non darlo a vedere, anche se il modo e il tono che aveva usato mi fecero intendere che ci fosse stato molto di più di un semplice contatto di lavoro: la rabbia di Arthur verso di lui e il suo mettermi in guardia non mi rassicuravano per niente.

Questa storia si stava già facendo fin troppo ingarbugliata per i miei gusti.

Mi sollevai per ritrovare la giusta distanza. «Forse è meglio tornare.»

Mossi qualche passo verso l'auto ma la sua voce mi impedì di proseguire. «Non volevo turbarti, Vivienne.»

Non lo voleva ma c'era riuscito alla grande. E non tanto per il discorso di mio fratello ma per gli ultimi giorni in generale e il modo in cui si era insinuato nella mia vita, senza che potessi impedirglielo.

«Non l'hai fatto, mi viene solo spontaneo chiedermi cosa io stia facendo o meglio cosa stiamo facendo.» Non rispose, impedendomi di fare chiarezza. «Non posso vederti, Jonathan, perché se lo scopre Arthur da di matto; e non posso vederti perché la presenza di Spencer aleggia tra di noi. Perciò atteniamoci solo a un rapporto strettamente confidenziale per il bene di entrambi.»

Mi appoggiai al cofano dell'auto abbassando lo sguardo persa nei meandri della mia mente tanto che non mi accorsi di avercelo davanti fino a quando non alzai gli occhi su di lui. Il sole ormai era sorto e ci illuminava con i suoi tiepidi raggi, sostituendo l'oscurità che ci aveva circondati fino adesso. Un'oscurità che avevo imparato a combattere e che non aveva ancora smesso di farmi paura ma nel momento esatto in cui il suo sguardo incontrò il mio, si annullò tutto il resto. «È questo che vuoi?»

Mi tesi, non era la domanda che mi aspettavo. Non capivo che cosa volesse sentirsi dire da me, mi sembrava di essere già stata chiara o almeno ci avevo provato. Distolsi lo sguardo ma lui mi sollevò il volto delicatamente per impedirmi di fuggire il suo e il tocco della sua mano su di me mi scatenò emozioni contrastanti: da una parte volevo scappare il più in fretta possibile e dall'altra avrei voluto... non essere stupida!

M'immersi nei suoi occhi e quando lessi la tempesta che vi si agitava, tolsi la sua mano dal mio volto e provai a scansarmi per impedire a entrambi di commettere un'imprudenza ma non me lo permise e, afferrando il mio volto con entrambi le mani, si calò a carpire le mie labbra. M'immobilizzai e lui mi lasciò il tempo di decidere, quando prese a giocare con le mie labbra in un tacito invito a ricambiare, lo feci e... Dio baciava divinamente. Mi lasciai trasportare nel mio mondo proibito e nel momento in cui mi sollevò per farmi sedere sul cofano, posizionandosi tra le mie gambe, persi ogni lucidità per le carezze a cui mi stava sottoponendo: dapprima dolci, poi decise per attrarmi contro il suo corpo. Lo strinsi a me desiderando di più. Mi tolse il respiro e le sensazioni che provai mi erano così sconosciute da sconvolgermi e infatti quando divenne troppo intenso, premetti le mani sul suo petto per fermarlo. Mi costò fatica ma lo feci e quando si distanziò confuso e con gli occhi pieni di desiderio, mi portai una mano sulle labbra gonfie del suo attacco e sentii la rabbia crescere. Non verso di lui ma verso me stessa: non potevo lasciarmi andare, non con Jonathan. Non con lui.

Mi alzai sotto il suo sguardo attento e anche a distanza riuscii a percepire il suo respiro accelerato. «Per rispondere alla tua domanda: sì, è questo che voglio e ora riportami a casa, per favore.»

Mi avviai verso la portiera e la aprii sedendomi all'interno. La musica suonava ancora a tutto volume, così l'abbassai senza perdere di vista Jonathan che era rimasto tutto il tempo a fissarmi e, dopo un attimo di esitazione, mi raggiunse. In silenzio azionò l'auto e partì in retromarcia per fuggire dall'errore colossale che avevamo appena fatto.

In auto mi passai una mano sul volto e spostai nervosamente i capelli impaziente di allontanarmi da lui il prima possibile. «Hai finito?» domandò.

«No, non ho finito.» Non m'interessava se gli dava fastidio il mio nervosismo ma non potevo farne a meno e infatti, poco dopo, sbottai adirata. «Ma che cavolo ti è preso? Hai ascoltato almeno una sola parola di quello che ti ho detto?» notai le sue mani stringere il volante con forza e non compresi che cosa gli stesse passando per la testa. «Ovviamente non puoi spiegarmi neanche questo, giusto?» mi scappò una risata amara e mi voltai verso il finestrino.

«Non farne un dramma, non ha significato niente.»

Stronzo! Pensai. Non lo avrei mai ammesso ad alta voce ma mi ferirono le sue parole perché, per una volta, ero io a trovarmi dall'altra parte e non era affatto piacevole ma decisi di non prendermela, dopotutto me l'ero cercata.

«Forse per me, ma per te non credo proprio. Se la mia memoria non m'inganna, sei stato tu a iniziare e stavi quasi per farmi sul cofano della tua auto.» Si voltò verso di me, distogliendo un attimo lo sguardo dalla strada. Le sensazioni del suo tocco erano ancora impresse su di me e, guardandolo, l'unica cosa che volevo era portare a termine quello che avevo interrotto ma dovevo essere completamente impazzita, così cercai di ignorarlo e nascosi questo folle desiderio nell'angolo più recondito di me. Lasciai comparire un sorriso di scherno sul mio volto. «E ora direi che possiamo stare anche in silenzio.»

Mi accontentò. Parlai solo per indicargli il luogo dove portarmi e soddisfò la mia richiesta senza contestare nulla: avevo bisogno di fare un salto dai miei per vedere mio padre perché come sapeva calmarmi lui, non ci riusciva nessuno.

Una volta arrivati lungo la via in cui si trovava la loro abitazione e, dopo avergli indicato il punto esatto, fermò l'auto per farmi scendere. «Vivienne...»

«Non c'è bisogno che dici niente. Direi che è già tutto chiarito», sbottai. «Come ti ho già detto la prima volta: lasciami in pace e stammi alla larga. Solo questo.»

Scesi dall'auto senza neanche salutarlo ma tirai un sospiro di sollievo troppo presto perché sentii la sua portiera aprirsi e dei passi seguirmi. Non mi fermai ma non fu sufficiente dallo sfuggirgli, infatti mi arpionò con delicatezza il braccio per impedirmi di continuare e mi voltai verso di lui. «Ti chiedo scusa, ho commesso un errore ma non si ripeterà più. Hai la mia parola.» 

Lo fissai per cercare di capirlo senza riuscirci. Il problema non era quello che era successo ma quello che avrebbe comportato e significato per quelli che ci erano attorno.

«A che gioco stai giocando, me lo spieghi? Prima mi salti addosso, poi mi offendi e adesso ti scusi: tu stai cercando di farmi ammattire.» Serrò la mascella e fece vagare il suo sguardo ovunque tranne che sulla sottoscritta e, osservandolo, capii che era più in difficoltà di me, così mi arresi. «Grazie per il giro, ma è meglio che la finiamo qui.» Mi tolsi dalla sua presa. Qualcosa attirò la mia attenzione. Diventai di marmo e m'irrigidii terrorizzata. Non credetti a quello che stavo vedendo e la paura mi colse tanto che iniziai a correre verso la casa dei miei lasciando dietro di me l'uomo che era riuscito a sconvolgermi la notte, ma sentivo che qualcosa di molto peggio fosse pronto a farlo di nuovo e alla luce del sole.

Un'ambulanza era ferma davanti alla casa e dei poliziotti entravano ed uscivano da essa, parlando tra di loro. Sbarrai gli occhi e sentii l'ansia crescere, cercai di mantenere la calma. Quando però portarono fuori la prima barella con un corpo coperto da un lenzuolo bianco, sentii il mio cuore fermarsi a quella vista, le gambe mi tremarono e provai ad avvicinarmi per assicurarmi che non fosse solo un terribile incubo. Un agente mi urlò di fermarmi ma non gli diedi ascolto. Poi vidi la seconda barella e sentii la terra dissolversi sotto i miei piedi. 

Non potevano essere morti entrambi? No...

Mi sentii male ed ebbi un capogiro ma rimasi in piedi ad assistere inerme. Qualcuno mi si affiancò e alzai lo sguardo per incontrare quello preoccupato di Jonathan. Ci guardammo un attimo negli occhi e quando appoggiò una mano sulla mia spalla per darmi forza, mi scansai cercando di parlare con qualcuno per scoprire qualcosa di questa situazione che rasentava l'assurdo. Nessuno però mi prestò attenzione. Stavo rischiando di spegnermi inesorabilmente, quando intervenne Jonathan facendosi valere con il suo distintivo e in un attimo si aprirono le acque al suo cospetto e la verità venne a galla, sommergendomi: una banale e stupida fuoriuscita di gas che gli aveva sorpresi durante la notte, portandoli così a una morte certa e indolore. Erano morti nel sonno, insieme e abbracciati nel loro letto, e mi sentii morire al solo pensiero. Chiusi le mani a pugno e mi conficcai le unghie nei palmi per cercare di contenermi e focalizzarmi su quel piccolo dolore, piuttosto che sul dover affrontare una simile tragedia o meglio un'altra a così breve distanza dalla prima.

Udii l'agente svelare che erano stati i vicini a sentire il forte odore di gas avvertendo la polizia e prevenendo così la catastrofe perché, probabilmente, se non lo avessero preso in tempo, avrebbe potuto anche portare ad un'esplosione. Spostai lo sguardo sulle due barelle e non saprei dire dove trovai la forza per parlare, ma lo feci. «Posso vederli?»

Jonathan si voltò verso di me, cercando di farmi desistere ma lo ignorai rivolgendomi solo all'estraneo davanti a me che, dopo un attimo di esitazione, acconsentì e mi condusse personalmente nella loro direzione. Prima che li caricassero sull'ambulanza, mi permisero di riconoscerli e quando sollevarono i lenzuoli a uno a uno, vedere i loro volti rilassati fu come ricevere un pugno allo stomaco perché ora era reale. Lo era davvero: erano morti sereni e senza accorgersi di niente nel loro letto ma la loro morte era così brutale da privarmi di tutto e al solo pensiero di doverlo dire ad Arthur ebbi quasi un mancamento perché sapevo che non l'avrebbe presa per niente bene. Indietreggiai facendo intendere che avevo finito e me ne andai, affrettando il passo per fuggire da lì il prima possibile. M'incamminai verso l'unico posto in cui sapevo che avrei riacquistato un po' di lucidità ma non feci in tempo a fare pochi passi che sentii la voce di Jonathan chiamarmi. Mi afferrò per impedirmi nuovamente di proseguire e, voltandomi verso di lui, lo fulminai con un'occhiata. «Ma che cosa vuoi da me?» 

Lo guardai e lui guardò me preso in contropiede dalle mie grida. Cercai di liberarmi ma non ci riuscii e il suo non dire nulla m'innervosii notevolmente così con forza lo spintonai ma, ancora una volta, non mollò la presa. Lo presi a pugni sul torace perché mi lasciasse ma non avvenne e non potei fare a meno di sentirmi in trappola. «Ti devi calmare, Vivienne», disse.

Mi sentii vulnerabile sotto il suo sguardo dolce e al contempo disarmante. La tensione accumulata esplose e lacrime copiose scesero dai miei occhi e non trovando altro a cui appigliarmi per avere un po' di sostegno, mi aggrappai alla sua maglietta. Appoggiai la fronte sul suo petto senza più forze per combattere e dopo un attimo di esitazione mi strinse tra le sue braccia e mi cullò, cercando di farmi calmare. Mi avvinghiai a lui per cercare un po' di conforto che non mi negò e piansi tutte le lacrime che avevo e che ero solita negarmi, almeno davanti a qualcuno. Piansi tra le sue braccia, perdendo la cognizione del tempo. Piansi tra due braccia che credevo nemiche ma che invece riuscirono a farmi sentire al sicuro come mai mi era mai capitato. Piansi finché potei. Piansi finché me lo lasciò fare.

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