Capitolo 18 - Blackout

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Aprii gli occhi e sbattei le palpebre diverse volte prima di riuscire a mettere a fuoco quanto mi circondava e quando mi accorsi di essere seduta in un angolo buio della città, m'immobilizzai, entrando nel panico perché non riuscivo assolutamente a capire come fossi arrivata a tarda notte a stare distesa per terra in un maledetto vicolo. Un forte dolore mi colse e mi portai una mano alla tempia per cercare di contenerlo inutilmente. Provai ad alzarmi ma le mie gambe non mi ressero, imprecai appoggiando la testa al muro alle mie spalle e tentai invano di ricordare qualcosa. Mi guardai attorno e capii di essere in periferia; probabilmente dovevo essere andata in qualche locale ma, in questo momento, avevo un blackout totale. Il mio ultimo ricordo risaliva al funerale tenutosi in mattinata e sinceramente avrei preferito dimenticare anche quello.

Mi ero recata in chiesa da sola, per poi raggiungere mio fratello nei posti in prima fila. Non mi era sfuggito esserci troppa gente mentre avrei preferito qualcosa di più intimo per poter piangere in pace i nostri cari. Le due bare erano state posizionate davanti all'altare e Arthur aveva provveduto a fare avere le due fotografie corrispettive, così come aveva fatto riempire la chiesa di fiori bianchi, abbellendola per fare onore ai suoi genitori.

La funzione si era rivelata più commovente del previsto visto che l'anziano sacerdote era parso conoscerli molto bene, d'altra parte ci erano praticamente cresciuti in quella comunità. Non mi ero mai ritenuta una brava credente ma ero stata cresciuta da due persone che lo erano, perciò, ero in grado di distinguere quale fosse la giusta strada da percorrere e quella sbagliata e purtroppo avevo scelto la seconda. E ora che non c'erano più, ero più che sicura che non avrei fatto altro che peggiorare. 

Quando la cerimonia terminò, la maggior parte della gente si era avvicinata per fare le condoglianze e per lasciare i loro commiati o qualche ricordo che gli legava ai due defunti. Ero rimasta ad ascoltare in silenzio senza intromettermi, per lasciare spazio a mio fratello che sembrava avere bisogno di tutto il sostegno possibile e quando non ce l'avevo fatta più; invece, mi ero aggirata per la chiesa, diretta verso l'uscita. Mi ero fermata sul fondo per osservare la navata e avevo aspettato che iniziasse la processione verso il cimitero che era situato poco lontano.

La sepoltura era stata agghiacciante ma non ero riuscita a versare neanche una lacrima, facendo mormorare qualcuno dei presenti: avevo cercato d'ignorarli anche se i loro sguardi avevano detto più delle parole. Arthur mi si era avvicinato, stringendomi a lui. «Non badare a loro.» Avevo annuito impercettibilmente e mi ero beata del calore della sua stretta che era stato proprio quello di cui avevo bisogno. Avevano coperto le due buche con la terra dopo aver lanciato alcuni fiori all'interno e, stretta a mio fratello, li avevo guardati sparire per sempre sottoterra. Avevamo aspettato che se ne andassero via tutti per poter rimanere da soli davanti alle due lapidi e, in silenzio, eravamo restati l'uno di fianco all'altro a realizzare che purtroppo fosse tutto reale. Avevo taciuto perché, in realtà, avevo paura di dire qualsiasi cosa. Avevo atteso che fosse lui a fare il primo passo e così era stato. «Ho sbagliato a parlarti in quel modo all'ospedale.» Alzai lo sguardo su di lui. «Non lo pensavo davvero, anzi ho mentito alla grande.»

«Non mi devi nessuna spiegazione, Arthur.» Avevo portato una mano sul suo petto per impedirgli di continuare. «Lo avevi appena scoperto.»

«Ma voglio dartela: non è vero che la mia vita è finita quando sei arrivata. È da lì che è iniziata, Vita.» Una morsa mi aveva stritolato il petto e gli occhi mi erano diventati lucidi. Avevo ritratto subito la mano, come scottata dalle emozioni che mi avevano travolta e avevo preso le distanze. Mi aveva fissato per nulla sorpreso, per poi gettare un'ultima occhiata ai nostri genitori e andarsene. «Ti aspetto in auto, mettici pure tutto il tempo che ti serve.» Mi aveva sorpassato e lo avevo guardato sparire in lontananza.

Mi ero inginocchiata davanti alle lapidi e un pesante sospiro mi ero sfuggito dalle labbra. Li avevo pregati di aiutarci perché sinceramente non sapevo se saremmo mai stati in grado di farcela da soli. Mi ero alzata, lasciandomeli alle spalle ed ero uscita dal cimitero con un forte peso sul petto che mi avrebbe impedito di ragionare con lucidità.

E probabilmente era proprio per questo motivo che mi trovavo qui adesso. Non sapevo dov'ero stata e con chi, né che cosa fosse successo e la situazione cominciò a spaventarmi, perché poteva esserci solo un motivo se ora ero ridotta in questo stato. Qualche lacrima sfuggì dai miei occhi e prontamente le asciugai per evitare che mi segnassero più del previsto e, abbassando lo sguardo, notai che il vestito fosse leggermente strappato sul fianco. Mi sollevai a fatica su due gambe traballanti e mi appoggiai con tutto il peso contro il muro per sorreggermi. Rovistai nella borsa alla ricerca del telefono e una volta che lo ebbi trovato, lo accesi. Notando una chiamata persa da mio fratello, la prima cosa a cui pensai fu che non potevo assolutamente chiamarlo; non volevo che si preoccupasse, non dopo la giornata che aveva avuto. E così le scelte si ridussero drasticamente: o disturbavo James, sapendo che sarebbe venuto istantaneamente, oppure... Jonathan. Il primo evitavo volentieri di vederlo mentre il secondo sapevo che riusciva a mantenere una buona dose d'indifferenza in certe occasioni e così mi sembrò la scelta più ovvia. In fondo, era stato proprio lui a lasciarmi il suo numero per poterlo chiamare in caso di necessità e allora, dopo un attimo di esitazione, lo feci. Non avevo nessun altro da chiamare e mi feci pena da sola. Il telefono squillò per diversi minuti prima che mi rispondesse con voce severa. «Pronto?» 

Dopo aver inalato tutto l'ossigeno possibile, parlai. «Jonathan, sono...»

«So chi sei» mi prese in contropiede. «Lo sai che sono le cinque del mattino, vero?» Controllai l'orario sul telefono e mi vergognai di averlo disturbato e lui, visto che non rispondevo, domandò. «Hai bisogno, Vivienne?» 

Esitai, non sapendo se fosse giusto parlargliene o coinvolgerlo e alla fine vinse la follia. «Ho bisogno che mi passi a prendere, anche se con precisione non so dove io sia.» 

Mi giunse solo silenzio dall'altra parte della linea e pensai che avesse chiuso la chiamata. «Accendi la tua posizione e mandamela, ti trovo io», disse. Mi diedi della stupida per non averci pensato e feci come mi aveva chiesto. «Non muoverti da lì, arrivo subito.»

«Non potrei farlo, neanche se volessi.» 

M'intimò un'altra volta di non muovermi e capii dal suo tono che non gli fosse piaciuta per niente la mia risposta.

Dopo aver chiuso la chiamata, controllai la posizione e rimasi sorpresa di constatare che fossi finita più lontano del previsto dalle zone che ero solita frequentare e questo mi confuse maggiormente. Chiusi gli occhi e rimasi così in attesa, cercando di non pensare a nulla.

Ad un certo punto, sentii dei passi avvicinarsi e mi voltai impaurita, per poi accorgermi che si trattava di Jonathan. Non mi piacque il suo sguardo su di me ma aspettai che mi raggiungesse. «Che ti hanno fatto?» non lessi assolutamente indifferenza nel suo sguardo e non era di questo che avevo bisogno. Abbassai lo sguardo. «Chi è stato, Vivienne?»

«Non lo so, va bene?» risposi. Serrò la mascella. «Vorrei risponderti ma non posso.» M'immersi nel blu dei suoi occhi e, dopo un attimo di tensione, si arrese. 

«Ce la fai a camminare?» chiese.

«No, perché ho la testa che mi scoppia. Devono avermi dato qualcosa.» Lo aveva già intuito ma non aggiunse nient'altro. «Dammi due minuti e...» non feci in tempo a finire che mi aveva già sollevata per prendermi in braccio, lasciandomi basita. S'incamminò fuori dal vicolo e si diresse verso la sua auto mentre io non potei fare a meno di bearmi del calore del suo corpo e del suo profumo. Sentendo il mio sguardo su di sé, lo abbassò per incontrarlo mantenendo un'espressione indecifrabile.

Mi caricò in auto e, dopo essere salito al mio fianco, partì. Mi appoggiai al sedile e chiusi gli occhi per provare a estraniarmi da qualsiasi cosa e probabilmente mi addormentai perché mi svegliò Jonathan una volta arrivati davanti alla mia abitazione.

Uscì dall'auto per venire ad aprirmi la portiera e scesi, per poi lasciarmi accompagnare fin dentro casa. Mi sedetti sul letto sentendo il mondo girare. «Riposati adesso, in giornata passo a vedere come stai.» 

Se ne stava andando e il panico mi colse perché una vocina dentro di me mi urlava di impedirglielo. «Jonathan.» Mi guardò e continuai sapendo che fosse un azzardo. «Potresti restare? Ti sembrerà stupido ma non voglio rimanere sola.» 

Tentennò indeciso, poi acconsentì, così mi alzai per lasciargli spazio e andare in bagno. Chiusi la porta dietro di me e mi posizionai davanti allo specchio per ispezionarmi. Tolsi il vestito e mi osservai: avevo dei lividi sul collo, sul seno e sui fianchi e sentii il vuoto espandersi dentro di me perché la prima cosa a cui pensai fu che era tutta colpa mia. Magari avevo incontrato un tizio in un locale e una volta fuori quest'ultimo non aveva esitato un attimo a saltarmi addosso, complice l'alcol o qualunque cosa avessi preso in un momento di crisi. Una vocina nella mia testa, però, mi diceva che non fosse andata così, non era da me fare uso di sostanze o recarmi da sola in quella particolare zona della città. Ritornai così al punto di partenza, dove l'unica soluzione era non credere a nulla e, non ricordando, volendo potevo anche farcela.

Entrai dentro la doccia e mi posizionai sotto il getto dell'acqua per lavare via di dosso qualsiasi tipo di sensazione e, tutto a un tratto, scoppiai a piangere senza che riuscissi a fermarmi. Mi appoggiai con i palmi alle piastrelle fredde e lasciai uscire tutti i singhiozzi che mi colsero assolutamente impreparata. Piansi lasciando che le mie lacrime si mischiassero all'acqua che continuava a scendere ininterrottamente sul mio capo: ero un disastro e questa ne era la prova perché non sarebbe successo niente se me ne fossi restata a casa. Riaffiorò in pochi attimi tutto il dolore accumulato nel corso degli ultimi giorni e mi lasciai scivolare sul marmo bianco esausta: i miei genitori, Patrick, mio fratello, l'aggressione e... adesso questo. Pensarci mi annientò in pochi secondi, privandomi di tutto. Il mio pianto risuonò tra le pareti, impedendomi di sentire che Jonathan mi stava chiamando. Lo vidi entrare nella stanza, sfocato, a causa del velo sui miei occhi. Afferrò il primo asciugamano disponibile e fermò lo scorrere dell'acqua. Mi coprì senza dire nulla. Mi aiutò a sollevarmi e ad asciugarmi i capelli. Indossai qualcosa di asciutto e mi costrinse a infilarmi sotto le coperte. Si distese al mio fianco, ma a distanza, e lo sentii sospirare nel buio della camera. Gli diedi le spalle e chiusi gli occhi per provare a dormire ma avevo troppi pensieri in testa, così l'unica soluzione che trovai e che sapevo mi avrebbe calmata, senza neanche conoscerne il motivo, fu quella che mai e poi mai mi sarei aspettata dalla sottoscritta. Mi voltai verso su lui e rimasi a osservarlo per qualche attimo indecisa. Non si era ancora accorto dei mie occhi su di lui, era troppo preso dal fissare il soffitto meditabondo, ma quando lo fece, volse lo sguardo verso di me scandagliandomi con attenzione. Lo imitai, tenendo i miei occhi fissi nei suoi senza capire che cosa stesse cercando di leggervi e quando presi coraggio, mi sollevai per avvicinarmi a lui. Non si mosse ma qualcosa cambiò nella sua espressione. Mi posizionai al suo fianco e lo sorpresi, appoggiandomi alla sua spalla. Si irrigidì e abbassò lo sguardo su di me ma non incrociai i suoi occhi perché mi sentivo già abbastanza a disagio così, nel dovermi mostrare debole. Pensavo che mi avrebbe respinta invece mi strinse a sé, appoggiando il mento sulla mia testa, facendomi sentire al sicuro e infatti senza neanche accorgermene mi addormentai, cadendo tra le braccia di morfeo in pochi attimi. Attimi che difficilmente avrei dimenticato.

Mi svegliai in un letto vuoto e compresi che se ne fosse già andato. Controllai l'orario sul telefono e mi accorsi che fosse già ora di pranzo. Mi arrivò un messaggio da James in cui mi chiedeva se potesse passare per fare un salto e acconsentii malvolentieri, ricordandomi dell'obbiettivo che mi ero posta. Mi alzai e mi vestii, per poi recarmi in cucina intenzionata a sgranocchiare qualcosa. Salutai il gatto che mi seguii curioso e così ne approfittai per dargli da mangiare.

Quando James arrivò, si diresse subito verso di me con un sorriso intenzionato a lasciarmi un bacio sulle labbra ma qualcosa lo fermò prima che potesse farlo e la sua espressione mutò nel notare alcuni segni che non ero riuscita a nascondere. Mi si avvicinò e mi prese per le spalle, studiandomi con attenzione. «Che ti è successo, Vivienne?» mi fissò in attesa di una risposta che non gli avrei dato, perché non ce l'avevo nemmeno io. 

Esitai, poi scossi la testa in segno di diniego perché non avevo più nessuna voglia di parlarne. «Non ti preoccupare. Non è niente di grave.»

Provai a spostarmi ma non me lo permise. «A me non sembra.» Portò le dita al mio collo, dove i segni erano evidenti e li sfiorò. «Qualcuno...»

«Non ti riguarda, James, e ora lasciami respirare.»

S'irrigidì. «Non posso neanche preoccuparmi per te, adesso?» 

Sospirai prima di affrontarlo. «Certo che puoi, ma...»

Mi si avvicinò perché non fuggissi dal suo sguardo. «Ci tengo davvero a te. Devi credermi.»

Lo guardai senza sapere come affrontare le sue parole ma mi sembrò sincero, forse troppo. Mi sentii in trappola e capii che mi fossi spinta oltre, che lui stesso si fosse spinto troppo oltre e non ero assolutamente in grado di gestire la situazione in questo momento, così decisi di abbandonare quanto mi ero posta, solo pochi attimi prima. «Forse è meglio che tu te ne vada.»

La sua espressione cambiò nuovamente, poi acconsentì sorpassandomi. «Ci vediamo...», disse, non avendo compreso il vero senso delle mie parole.

«James, voglio che tu prenda le tue cose e che te ne vada per davvero. Non c'è più niente qui, per te.» Non m'interessava del lavoro né di informarlo di quello che avevo scoperto, lo volevo immediatamente fuori dalla mia casa e dalla mia vita.

Mi guardò confuso per un lungo momento perché, probabilmente, non se lo aspettava e capii di aver fatto un casino a fargli credere il contrario. «Io non capisco. Era tutto un gioco per te?» non mi meravigliò il suo attacco. «Mi hai solo usato, è così?»

«Voglio che tu te ne vada, non voglio dovertelo ripetere.»

«Quindi tu decidi quando farla finita e la mia opinione non conta minimamente? Non sono una macchina, ho dei sentimenti anche io, Vivienne.» Mi tesi ma non lasciai trapelare alcuna emozione sul mio volto, indicandogli nuovamente la porta. Osservò il mio gesto incredulo. «Sei una malata del controllo, ecco cosa sei» mi colpì verbalmente, per poi guardarmi in attesa di una risposta che non sarebbe arrivata. Alzò le mani con freddezza e mosse qualche passo verso l'uscita ma prima di andarsene, con uno scatto repentino, tirò un pugno contro lo stipite in legno della porta, ammaccandolo. Notai la sua mano sanguinare ma non mi mossi interdetta dalla sua reazione. «Se cambierai idea, non mi troverai ad aspettarti e probabilmente lo farai, perché tu hai bisogno di uno come me.» 

Se ne andò, sbattendosi dietro la porta. Mi sedetti terrorizzata dal fatto che potesse aver ragione ma gli avrei dimostrato che si sbagliava di grosso, con tutta me stessa.

Un'ora dopo afferrai la mia borsa e, dopo aver indossato un foulard per coprire i segni sul collo, uscii. E finalmente, dopo aver cambiato due autobus, arrivai a destinazione. Entrai nel palazzo, trovandolo già aperto e al suo piano suonai. Sentii i suoi passi avvicinarsi alla porta e quando l'aprì, rimase sorpreso di vedermi. Notando la sua espressione perplessa, lasciai spuntare un piccolo sorriso sul mio volto che ricambiò, anche se durò per poco perché non appena mi ebbe fatta entrare, mi attaccò verbalmente. «Si può sapere dov'eri finita? Ti ho chiamato diverse volte ieri.»

E anche lui non sapeva dove fossi stata ieri sera, né era stato con me.

«Ho avuto da fare.» Restai sul vago perché non era, di certo, mia intenzione farlo preoccupare.

«Hai avuto da fare

Mi addentrai nell'appartamento, sorpassandolo. Feci vagare il mio sguardo alla ricerca di qualcun altro o meglio della sua nuova e fantastica ragazza. «Sei solo, vero?»

«È un po' tardi per chiederlo, no?» Sorrisi e mi osservò, prima di sorridere anche lui. «A cosa devo l'onore della tua visita?» chiese.

L'allegria sparì dal mio volto e lasciai che mi accompagnasse verso il soggiorno, dove ci sedemmo sul suo grande divano. «Ho bisogno di parlarti di alcune cose...» m'incitò a continuare con lo sguardo. «Mi è giunta notizia che non hai un alibi per la notte in cui è morto Spencer e mi stavo chiedendo se avessi provveduto al riguardo.»

Sbarrò gli occhi e, dopo il primo attimo di stupore, si sporse in avanti per prendere le mie mani tra le sue. «Non ti devi preoccupare per me. Posso benissimo cavarmela da solo. Bazzico continuamente in questo mondo e so come comportarmi di conseguenza.» Mi sottrassi alla sua presa. Comprese il mio scetticismo, così trasse un profondo respiro, per poi continuare spiegandomi meglio la situazione. «L'agente Rupert è stata qui, ieri pomeriggio.» 

M'irrigidii nel sentire nominare la donna che non mi aveva per niente in simpatia dalla morte di Spencer. «E cosa voleva?»

Deviò il mio sguardo e così m'insospettii. «Farmi delle domande e rassicurarmi su un mio possibile coinvolgimento.»

«E tu ti sei fidato?»

«Sì, Vivienne. Era qui per conto di Jonathan, quindi sì» mi soprese tanto che non badai alla supponenza con cui mi si era rivolto. «Lui non mi farà impazzire e vederlo mi scatena la violenza pura, ma alla fine ha fatto solo quello che andava fatto.» Rimasi senza parole perché non ci stavo capendo più niente. «Mi fido perché alla fine Rupert fa quello che lui le dice di fare, anche se non sembra.»

«Perché dovrebbe farlo?» la voce mi uscii tremolante nel chiederglielo, avevo paura della risposta.

«Perché ci è ancora molto legata.»

Sentii la rabbia crescere dentro di me e non perché ne fossi gelosa ma perché il diretto interessato non si era degnato di dirmi niente. «Era sua moglie?»

Alzò lo sguardo su di me confuso dal fatto che lo sapessi e annuì per confermare. Mi portai una mano al volto nervosa dal casino in cui mi ero messa, essendo perfettamente consapevole che quella donna mi avrebbe fatta a strisce se avesse scoperto quello che era successo e non sarebbe stata la prima volta che qualcuna ci provava. «Vivienne, che cos'hai fatto?» Arthur mi fissò, indagatore.

«Non ho fatto niente, smettila di tormentarmi» risposi, prima che traesse da solo le sue conclusioni.

«Non ti sto tormentando, voglio solo che tu abbia ben chiari in testa tutti i motivi per cui devi stare alla larga da Jonathan.»

«Ce li ho molto chiari invece» sussurrai, abbassando lo sguardo ed evitando di insistere su quest'argomento; eravamo entrambi fin troppo testardi.

Eccome se ce li avevo ma nessuno di essi riguardava quelli che mi aveva elencato lui. Riguardavano il modo in cui era solito guardarmi fin dentro l'anima, il modo in cui mi capiva o il modo in cui doveva sempre mettere in contraddizione ogni cosa che facevo e... probabilmente la lista era troppo lunga per potergli elencare tutti in questo momento, ma un'idea chiara ce l'aveva eccome.

Mi fissò scettico, per poi alzarsi e informarmi che andava a prendere qualcosa da bere per entrambi e si avviò verso la cucina. Lo fermai. «Arthur, vorrei che ti attenessi al tuo progetto iniziale.» Si voltò verso di me con espressione perplessa. «Dovresti andare via come avevi deciso. Credo sia la cosa migliore per entrambi, ma soprattutto per te.»

Increspò la fronte. Mi fissò indeciso e attesi la sua risposta che sapevo essere alla fine una sola. L'ultima cosa che voleva era rimanere qui, dove tutto ci arrecava maggior sofferenza. E il motivo per cui, in realtà, avevo ritirato fuori quest'argomento era uno solo: lo volevo al sicuro e sapevo che qui non lo sarebbe stato, non con quello che era successo nell'ultimo periodo. Probabilmente non lo era neanche per me ma prima di fare qualcosa di avventato, avrei pensato a lui e al suo futuro che di sicuro si preannunciava più roseo del mio.

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