Capitolo 19 - Animale

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Anonimo

Stavo camminando in mezzo al traffico cittadino intenzionato a far ritorno alla mia abitazione. La pioggia mi sorprese lungo il percorso. Stesi le mani per poi chiuderle in due pugni, sentendo la rabbia scorrermi ancora nelle vene ma preferii non lasciarla trionfare. Per ora.

Alcune persone si voltarono a fissarmi o mantennero il loro sguardo nel mio per qualche secondo di troppo, chi attratto e chi altro impaurito dall'aura nera che era solita accompagnarmi. 

Raggiunsi il mio palazzo e vi entrai, salii le scale di questo vecchio rudere fino a quando non arrivai al mio piano. I miei passi risuonarono lungo la salita, rendendo ancora più inquietante lo spazio che mi circondava. Stavo quasi per arrivare alla porta del mio appartamento, quando una voce mi impedii di continuare. «Ehi! Mi devi ancora due mesi di affitto e li voglio vedere adesso.» 

Trucidai con lo sguardo il proprietario dell'edificio. «Ho già detto che te li faccio avere, dammi solo qualche altro giorno.» 

Scosse la testa furioso e l'osservai schifato dal suo grasso aspetto, la sporcizia e il puzzo in cui era avvolto. Me lo lasciai alle spalle e, tirando fuori le chiavi, aprii la porta entrando in casa. Inspirai a fondo, godendomi quell'attimo di silenzio prima di sentire dei piccoli passi corrermi incontro. Appoggiai i soldi guadagnati durante la giornata e alzai lo sguardo per incontrare quello del minore dei miei figli che mi studiò in silenzio, per poi scappare via a chiamare sua madre. Mi tolsi il cappotto e mi addentrai nell'appartamento, dirigendomi verso la cucina dove trovai la donna con cui condividevo la casa e i figli. 

Si voltò verso di me e mi sorrise contenta di vedermi, poi tornò a fare quello che stava facendo. Spostai lo sguardo sulla tavola dove altri due bambini avevano già iniziato a cenare e mi fissavano in silenzio, anche loro diffidenti. Mi avvicinai verso la mia compagna e la strinsi da dietro, appoggiando le mani sul suo ventre gonfio. «Com'è andata, oggi?»

«Bene, mi hanno solo fatta impazzire i ragazzi. Tu invece? Sei riuscito a concludere?»

«Una specie, devo ancora mettermi d'accordo per il compenso e non sarà facile convincere Miller, quell'uomo non si fida mai di nessuno. Probabilmente nemmeno di sua madre.»

«E allora tu dimostragli quanto vali. In fondo non ci sono limiti che non supereresti e lui è proprio questo che vuole.» 

Le strinsi le spalle soddisfatto come sempre dai suoi consigli e mi allontanai per andarmi a sedere a capotavola.

Mi aveva appena iniziato a servire la cena, quando un frastuono ci sorprese tutti quanti. Mi alzai e corsi verso l'ingresso dove il proprietario insieme a due altri suoi uomini avevano appena sfondato la porta, entrando da padroni. La mia donna gli urlò furiosa di andarsene e uno dei miei figli scoppiò a piangere. Il proprietario alzò il braccio verso di me. «Prendetelo!» 

I due tirapiedi si gettarono su di me, per poi rovistarmi in ogni dove alla ricerca del denaro. «Ti ho detto che te li do, dannazione!» 

Mi sbatterono contro il muro e gemetti. «Li voglio adesso. Ti ho già concesso abbastanza tempo.» Mi voltai verso di lui, trucidandolo con lo sguardo e quando mi accorsi che aveva adocchiato il bottino che ero riuscito a fare in giornata, notai il suo volto illuminarsi. «Bene, bene.»

«Non li toccare, ho una famiglia da mantenere, figlio di puttana!» 

Rise, afferrando l'intero gruzzolo e intascandoselo: erano almeno il doppio di quanto in realtà gli dovevo. «Non me ne frega niente, questi adesso li prendo io, con anche gli interessi.» 

Mi strattonai dalla presa dei suoi uomini e serrai la mascella, per poi guardarli a uno a uno con gli occhi fuori dalle orbite. Gli avrei ammazzati con le mie mani ma la presenza dei bambini li salvò dal loro inevitabile destino.

Mi lasciarono andare, seguendo il loro capo fuori dall'appartamento. Lo fissai mentre, divertito, si contava il suo guadagno e giurai dentro di me vendetta.

«Li lasci andare via così?» mi chiese. «Gli permetti di trattarti così davanti ai tuoi figli?» 

«Chiudi quella bocca!» sibilai tra i denti.

«No, invece. Ci hai fatto trasferire in fretta e furia in questa fogna dove stiamo rinchiusi tutto il giorno e per che cosa, eh?» Aprii una bottiglia di vino e la bevvi a collo. «Tanto nei casini ci finisci lo stesso e lo sai perché? Perché ti stai esponendo per qualcosa che non riuscirai a controllare.» 

Abbassai gli occhi su di lei che s'irrigidì in risposta, mi si era avvicinata e questo fu il suo errore. La presi per il collo e la spinsi contro il muro. «Chiudi questa dannata bocca.» Lessi la paura nei suoi occhi. «Se non ti tocco, è perché porti in grembo mio figlio ma non giocare con la mia pazienza, ci siamo capiti?» 

Annuì, uscii dalla stanza dopo aver gettato un'occhiata ai bambini stretti al maggiore e impauriti. Bevvi un altro sorso e m'incamminai lungo il corridoio.

«Dove stai andando?» mi urlò. «Non voglio che la vedi, mi sembra di essere già stata chiara.»

«Ho preso un impegno e intendo rispettarlo.»

«Non azzardarti a passarci la notte!» Un sorriso sarcastico comparve sulle mie labbra che non fece che alimentare la sua gelosia. M'incamminai verso la scala ma la sua voce mi fermò di nuovo. «L'hanno fermata oggi.» Mi bloccai sui miei stessi passi, presagendo il peggio. «Una poliziotta in borghese, le ha chiesto dei furti avvenuti in zona o almeno è quello che mi ha riferito. Era fuori con Marcus ma i particolari non li so, quello che so: è che gli hanno chiesto di te.» 

«Come ti è sembrata?» 

Mi lanciò un'occhiata eloquente che non fece altro che innervosirmi ancora di più. 

La polizia a ficcanasare non ci voleva proprio. Non potevo finire dentro, altrimenti tutti i miei piani sarebbero andati in rovina. Tutte le mie entrare sarebbero svanite ma soprattutto non sarei riuscito a portare a termine quanto più mi interessava.

Le diedi le spalle per salire le scale che mi avrebbero condotto alla mansarda. Bussai per finta gentilezza e, non udendo risposta, entrai trovandola distesa sul letto e abbracciata a suo figlio Marcus di appena pochi mesi. Mi avvicinai e l'osservai dormire serena: restai così per diversi minuti, cercando di capire come affrontare la situazione ma purtroppo conoscevo un solo modo. La svegliai e lei mi fissò confusa, così mi chinai per lasciarle un bacio sulle sue labbra. Mi sorrise, per poi prendere ad accarezzare il bambino.

«Ti assomiglia sempre di più, sai?»

Povera ragazzina ingenua.

Infilai la mano in tasca e gli porsi un braccialetto. «L'ho preso per te.» Il suo voltò s'illuminò e mi chiese di allacciarglielo. Lo feci e mi beai della sua espressione felice, sedendomi sul letto al loro fianco. «Siete andate d'accordo, oggi?» 

Esitò qualche minuto senza sapere se poteva parlare, così l'incitai a farlo. «Non mi può vedere e non vuole che mio figlio stia con i suoi.» 

«Ci parlo io, tu intanto dalle un po' di tempo per abituarsi all'idea.» 

Mi sorrise riconoscente e ne approfittai per chiederle di prendere in braccio Marcus. Me lo permise contenta che gli concedessi attenzioni. Lo afferrai e, alzandomi, lo cullai tra le braccia mentre il bambino mi fissava curioso con i suoi grandi occhi. Ci osservammo a vicenda e dovetti ammettere che mi assomigliava davvero. Alzai lo sguardo, ritornando concentrato sul mio obbiettivo. «So che hai parlato con un poliziotto, Clere.» Sbarrò gli occhi e fiutai la sua paura a metri di distanza. «Non ti sto accusando di niente, ma voglio sapere per filo e per segno cosa gli hai detto e non osare mentirmi.»

«Non gli ho detto niente» iniziò a balbettare.

«Agatha non lo pensa.» 

Si tese notevolmente e mi strinsi Marcus al petto. Il gesto non le sfuggì e si alzò in piedi allarmata. «Ridammi Marcus.» Risi e scossi la testa, mentre lei alternò lo sguardo terrorizzata tra me e il bambino che si era appena addormentato indisturbato tra le mie braccia. «Ridammi mio figlio, per favore.» 

Mossi qualche passo verso la porta e lei seguì ogni mia mossa, agitata. «Rispondi prima alla domanda e dopo lo riavrai.»

«Non le ho detto niente, te lo giuro.» Si avvicinò in lacrime. «Davvero, non le ho detto nulla.» Esitai, per poi porgerglielo e lei se lo strinse al petto, tornando a sedersi sul letto. M'incamminai verso la porta. «Mi credi?»

Mi girai verso di lei. «Spero per il tuo bene che tu sia stata sincera.» Si rannicchiò addosso al muro sempre con il figlio tra le braccia. «Non vorrei dover essere costretto a fare qualcosa di poco piacevole.» La sentii piangere ma lo stesso me ne andai, sbattendo la porta dietro di me. Scesi le scale, dirigendomi verso l'uscita ma Agatha mi venne incontro.

«Torni dopo?» 

«Tienila d'occhio, non vorrei che commettesse qualche sciocchezza.» Raccolsi la giacca e le chiavi e uscii. Attraversai la strada, per poi salire in auto, sbattendo con forza le mani sul volante. Restai fermo ad aspettare per diversi minuti e quando fiutai la mia opportunità, decisi di coglierla: m'infilai i guanti e uscii dall'auto dopo aver adocchiato la mia preda. Il proprietario era appena uscito dall'edificio con un sorriso sulle labbra e tutta l'intenzione di andare a sperperare i miei soldi, così agii il più in fretta possibile dopo essermi assicurato che in giro non ci fosse nessuno. Impugnai per bene la mazza che tenevo in auto e mi ci avvicinai silenzioso. Una pistola avrebbe attirato troppi sguardi indiscreti a quest'ora di sera e non era quello che volevo.

Alzò lo sguardo e il ghigno scomparve dalle sue labbra alla mia vista, iniziò a indietreggiare ma gli fui addosso in un attimo e, tenendolo addossato al muro del palazzo, gli frugai nelle tasche e quando li trovai, un sorriso sinistro comparve sul volto. «Non te la caverai così facilmente» sputò furioso e risi visto che non aveva la minima idea di quello che gli sarebbe successo.

«Io credo di sì, invece.» 

«Quando i miei uomini lo sapranno...»

«E chi glielo dirà, tu? Tra pochi minuti sarai un ammasso sanguinolento diretto all'inferno.» 

Tremò dalla rabbia e dalla paura; sentii il demone scorrere dentro di me. Provò a parlare tra una tosse e l'altra, spuntando sangue. «Si vendicheranno su quelle puttane che tieni rintanate in casa.»

Sentii la rabbia crescere dentro di me ma il sorriso non abbandonò le mie labbra. «Non me ne frega un cazzo di loro, è questo il segreto del mio successo: che non me ne frega di niente e nessuno.» Tranne di una sola persona, ma lo tenni per me. «Dì le tue ultime preghiere.» 

Sbarrò gli occhi che ormai erano due macchie nere e non gli diedi il tempo di parlare che sollevandomi, lo finii a suon di mazzate.

Agatha sarebbe stata fiera di me.

Mi tolsi il sudore dalla fronte e mi avviai verso l'auto con l'arma sporca di sangue del tutto intenzionato a liberarmene in seguito siccome ora dovevo recarmi a un incontro con Miller per discutere insieme alla banda su come gestire i giri clandestini, compresi i combattimenti. 

Miller era furioso perché alcuni poliziotti avevano iniziato a ficcare il naso dove non dovevano e si stava davvero rischiando di dover chiudere l'intera baracca, ma il capo aveva detto di avere un piano e gli credevo, anzi speravo proprio che ce l'avesse con tutto me stesso.

Quando rientrai in casa a notte fonda, la scoprì silenziosa e, dirigendomi verso la camera da letto, trovai Agatha addormentata sotto le coperte. Mi svestii, per poi sdraiarmi al suo fianco e, voltandomi verso di lei, la scoprii per ammirare il suo ventre. Lo accarezzai delicatamente e lei, dopo qualche minuto, si voltò verso di me. Le sventolai davanti i soldi e mi sorrise orgogliosa, poi abbassò lo sguardo sulle mie mani sbucciate e livide e il suo volto si oscurò. Alzò lo sguardo su di me e mi guardò con espressione seria. «Hai fatto attenzione?»

«Sì, non mi ha visto nessuno. Stai tranquilla.» Le afferrai il volto prepotentemente per baciarla, dapprima s'irrigidì, poi ricambiò mentre si svestiva e si sollevava per cavalcarmi, la mia mente mi giocò un orribile scherzo: non era lei che volevo in questo momento e la verità mi crollò nuovamente addosso. Guardandola, m'innervosii perché avrei voluto un'altra donna con cui fare l'amore a ogni ora del giorno e da proteggere, non Agatha e nemmeno Clere. Volevo solo lei dato che nessuna l'avrebbe mai potuta eguagliare.

Mi trovai a capovolgere la situazione per potermi dimenticare che nel mio letto non ci fosse lei. La feci chinare e mi posizionai dietro di lei, per poi darci dentro come una animale. La immaginai e con il pensiero che sarebbe stata mia, in un modo o in altro, venni come poche volte ero venuto.

Mi sdraiai sul letto e Agatha si distese al mio fianco sfinita. «Caspita... lo sai che mi puoi parlare di qualsiasi cosa, vero? In fondo sono l'unica che ti capisce e a cui piaci davvero per come sei.»

«Non fiatare.» 

Si zittì. Mantenni lo sguardo davanti a me, immerso nel buio della stanza. Sentii Agatha addormentarsi al mio fianco e provai a fare lo stesso, chiudendo gli occhi ma fu un grande errore perché appena lo feci, sentii la presenza di quella bambina nella stanza. Sporca e con il suo vestitino sgualcito, mi fissava impaurita ma, al contempo, aveva quello sguardo pieno di odio che m'indusse in pochi secondi al solito attacco di panico. Mi sollevai e me ne andai dalla stanza per sdraiarmi sul divano nel soggiorno, sentendo il mio cuore battere in modo accelerato.

Udii dei passi avvicinarsi e tenni gli occhi fissi sulla porta dove Clere comparve titubante. La fissai e lei mi si avvicinò. «Hai avuto un incubo?» Abbassai lo sguardo nervoso e colpevole, mentre si sedette al mio fianco. «Sempre lo stesso?»

«Non mi perdonerà mai, Clere» sussurrai talmente piano che credetti non mi avesse sentito e invece, poco dopo, mi si avvicinò per abbracciarmi e stranamente glielo lasciai fare perché lei sapeva di cosa stessi parlando o meglio di chi.

Ci addormentammo insieme sul divano ma alla mattina, quando mi svegliai, ero da solo. Me ne rallegrai e mi preparai per uscire. Agatha si era già alzata e mi si avvicinò per lasciarmi un bacio per niente casto e, dopo essermi chinato a lasciare un lento bacio al suo ventre, mi avviai verso l'uscita. Mi chiusi la porta alle spalle e scesi le scale ma non feci in tempo a uscire dall'edificio che sentii la porta del mio piano aprirsi e Agatha urlarmi dalle scale. «Se n'è andata! Clere non c'è in stanza.»

Mi fiondai giù dalle scale. Salii in auto e girai tutto il quartiere alla sua ricerca perché di sicuro non poteva essersene andata lontano con un bambino e infatti, poco dopo, l'avvistai: sembrava un pulcino impaurito ma aveva appena commesso l'errore più grande della sua vita, provando a scappare. Capii così che non mi potevo fidare e con quest'ultima azione avrebbe perso la sua libertà. Mi fermai al suo fianco e scesi sotto il suo sguardo terrorizzato. Si strinse Marcus al petto e istintivamente indietreggiò. Era giorno, quindi non potevo permettermi errori. Le indicai il mezzo. «Sali subito in auto, Clere.» 

S'immobilizzò e la fulminai con una gelida occhiata, impedendole di fare qualcosa di stupido. Fece come gli avevo detto e la riportai a casa: non fiatò in auto perché non sapeva che cosa l'aspettava. La portai personalmente dentro l'appartamento e Agatha spuntò dalla cucina, guardandola con odio. «Te l'avevo detto che non ti potevi fidare, ma non mi dai mai retta.» 

Non le risposi, rapidamente presi Marcus e lo passai ad Agatha che mi fissò perplessa, mentre Clere ci pregava di riavere suo figlio. «Occupatene senza fare storie.» Afferrai Clere per un braccio e la trascinai verso la sua stanza. La spintonai all'interno e lei si voltò verso di me impaurita. «Non avrei detto niente a nessuno e lo sai. Non puoi biasimarmi: volevo solo andarmene con mio figlio.» 

Serrai la mascella e iniziai ad avvicinarmi lentamente, mentre Clere continuava a indietreggiare terrorizzata dal mio sguardo. Il mio respiro si fece pesante perché stavo cercando inutilmente di controllarmi. «Hai fatto l'errore più grosso della tua vita, ragazzina.» 

Iniziò a piangere e a supplicare, provando a fuggire dalla mia presa, ma ogni tentativo sarebbe stato vano, perché non avevo pietà per nessuno. Soprattutto verso chi osava tradirmi.

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