Capitolo 20 - Sotto Copertura

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«Andare via? Credi che ti lasci sola dopo tutto quello che è successo?» 

Tirai fuori una sigaretta. L'accesi. «Sì, lo farai perché era così che doveva andare fin dall'inizio.» Mi studiò, per poi scuotere la testa in disaccordo. «Senti, Arthur, mi hai appena detto di non preoccuparmi per te, quindi direi che ho tutto il diritto di chiederti di fare lo stesso.» Serrò la mascella. «Segui il tuo piano: lasciati alle spalle tutta questa faccenda, goditi la tua donna e la nascita di tuo figlio in pace, lontano da qui. Io me la caverò.»

«Te la caverai? Chissà perché non sono stupito», disse. «Era il mio piano prima che morissero i nostri genitori. Almeno sapevo che c'era qualcuno su cui potessi fare affidamento ma ora... non ti lascio sola.»

«Posso farcela benissimo anche da sola», ribattei.

«No, non puoi.» Il tono deciso con cui lo disse mi demoralizzò, non volevo credere che avesse ragione. «Io ho bisogno di te, così come tu di me. Nessuno ci conosce o riuscirebbe a capirci, solo noi sappiamo quello che ha passato o sta passando l'altro, perciò, non voglio più sentirne parlare.» Sospirai delusa per il mio fallimento. «Io resto, Vivienne.» 

«Sai, Arthur, la tua melodrammaticità mi commuove ma sappiamo entrambi che non sono l'unico motivo per cui vuoi restare.» 

Gli scappò una risata sarcastica e compresi che la guerra fosse appena iniziata. «Sei impossibile, ogni volta che provo ad aprirmi con te reagisci nello stesso identico modo.» 

La sua strafottenza m'innervosì e non poco. «Non fingere di non capire a che cosa mi stavo riferendo: qualche giorno fa mi hai chiamato per dirmi che avevi intenzione di andartene e che niente ti avrebbe fatto cambiare idea, poi riprendi con i combattimenti. In ospedale mi vieni a dire che dovrai rimediare ai casini che, secondo te, ho combinato e ora dovrei credere al fatto che rimani solo per badare alla tua sorellina.»

«Va bene.» Si portò una mano al volto, passandosela sulla barba incolta. Distolse lo sguardo nervoso prima di riportarlo su di me. «Vuoi parlarne? Parliamone allora. Sei uno dei motivi, ma sei il principale. Non posso lasciarti da sola e ormai lo capiscono anche i muri: sei una persona autolesionista.» Mi tesi e prontamente abbassai lo sguardo, riprendendo a fumare la sigaretta. «Prendi ad esempio la moltitudine di uomini che passa per il tuo letto, non ti sei nemmeno accorta che ti stai rovinando con le tue stesse mani.»

«Non osare tirare in ballo la mia vita sessuale, Arthur» sibilai tra i denti. «Non lo fare.»

«E invece oso eccome perché hai un problema, Vivienne. Sei così terrorizzata dal provare qualsiasi emozione, da pensare che quelle che provi tra le lenzuola siano una valida alternativa, ma non lo sono. Non lo sono affatto.»

«Falla finita.» 

Mi si avvicinò e lo trucidai con lo sguardo. «Le ricerchi disperatamente da così tanto tempo che hai finito per perderti. È questo che vuoi sentirti dire? Che stai sbagliando tutto? Perché mi dispiace sbattertelo in faccia, ma è così.» 

Lo mandai a farsi fottere e raccolsi le mie cose rapidamente, per poi provare a muovere qualche passo verso l'ingresso, ma mi si parò davanti. «Levati di mezzo.» Rimase immobile a guardarmi e feci lo stesso: capii che non mi avrebbe lasciata andare. «Parlami degli altri motivi.» 

Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi ed esitò indeciso se parlarmene o meno. «Ci sono delle indagini in corso e non sarebbe visto di buon occhio se me ne andassi adesso.» E la verità man mano venne fuori, ferendomi. «E indovina un po' di chi è la colpa se mi trovo invischiato nuovamente in qualche casino? Tua, perché hai dovuto aprire le gambe a quel professore sposato e senza palle.» 

Lo colpii in volto. «Non osare mancarmi di rispetto.» Si zittì in un attimo. «Non so neanche perché sto ancora qui a preoccuparmi per te.» Provò ad avvicinarsi ma lo fermai, impedendogli di fare un altro passo. «Spiegami quale casino dovresti sistemare? Perché se scopro che mi hai mentito, non risponderò più di me, Arthur.» 

Storse il naso e fece vagare lo sguardo nella stanza, esitando dal darmi una risposta. «Hai pagato un tizio a cui non bisognava dare neanche un soldo: l'obbiettivo era che credessero di avermi ancora in pugno, di modo che potessi presentarmi agli incontri senza problemi.» Spensi la sigaretta. «Ho apprezzato il tuo gesto ma se avessi seguito per una buona volta quanto ti avevo detto di fare, sarebbe filato tutto liscio.»

«Se tu fossi stato sincero fin dall'inizio, ci saremmo evitati una marea di problemi. Io per prima.» Intuii di che casino stessimo parlando e non mi piacque per niente. Si mosse verso il tavolo e, dopo aver preso il suo telefono, lo spense togliendogli la batteria e mi chiese di fare lo stesso con il mio. Glielo porsi e mi fissò senza sapere da dove iniziare, così lo aiutai io. «Sei un agente sotto copertura» constatai.

Sospirò prima di annuire. «Mi hanno costretto o meglio incastrato per bene. Vogliono informazioni e posso dargliele visto che conosco già quel mondo. Non finisco dentro se li aiuto: questi sono i patti.» 

Non ci potevo credere che avesse accettato un accordo del genere: farsi spaccare la faccia ogni sera per un pugno di informazioni e, riflettendoci un attimo, tutti i pezzi del puzzle andarono al loro posto e non saprei dire perché, ma più che essere arrabbiata con mio fratello, lo fui ancora di più con l'uomo che da un po' di tempo non faceva altro che scombussolarmi le giornate. «Chi ti ha costretto? Jonathan?»

«No, la Rupert, ma Jonathan ne è conoscenza.»

«E come ne esci, Arthur?» lo presi in contropiede. 

«Non ne esco, almeno fino a quando non ottengono i pezzi grossi a cui mirano.»

Proprio un bel casino.

«Buona fortuna allora.» 

Alzò un sopracciglio confuso. Presi il telefono e lo sorpassi con tutta l'intenzione di andarmene. «Dove stai andando?» domandò. «Te lo leggo in faccia, Vivienne, e non esci da questa casa, finché non mi prometti che ne resterai fuori.»

«Non credo che il tuo amico voglia restarne fuori», dissi. La sua fronte s'increspò. «Sai, credo che dopo tutto quello che mi hai detto, forse posso darti una mano a uscirne.» 

«E come pensi di fare, eh?»

«Un modo lo trovo.» Un sorriso di scherno affiorò sulle mie labbra. «Posso sempre aprire le gambe a quel fantastico agente che odi tanto, in fondo è l'unica cosa che mi riesce bene, giusto?» 

Mi fissò incredulo. Aprii la porta e me ne andai.

«Vivienne!» mi richiamò. Non lo ascoltai. «Vivienne» urlò un'ultima volta.

Accelerai il passo e corsi giù per le scale prima che mi trattenesse. Aprii il portone e fuggii fuori. Voltai l'angolo e mi diressi alla fermata notando che l'autobus era già in arrivo. Vi salii e tirai un sospiro di sollievo per essermene liberata. Guardando fuori dal finestrino, mi accorsi che si era già fatta sera e così decisi di fermarmi da qualche parte a mangiare qualcosa.

Mentre cenavo, ripensai alla conversazione avuta con mio fratello e un'idea mi balenò in testa: sapevo dove Jonathan abitava e di logica avrei potuto incontrarlo in uno dei locali della sua zona, così decisi di cambiare i miei piani per la serata.

Entrambi mi avevano mentito o meglio omesso qualcosa che ritenevo di assoluta importanza e, come tutte le volte in cui la rabbia prendeva il sopravvento, ero pronta a commettere un'imprudenza senza pensare alle conseguenze.

Una volta arrivata a casa, diedi da mangiare al gatto e mi preparai. Mi stavo finendo di vestire, quando uno strano presentimento mi colse. Qualcosa stonava nell'appartamento e non riuscivo a capire che cosa: a prima vista sembrava tutto in ordine ma qualcosa non mi convinceva. Guardai il gatto ma sembrava calmo. Girai per la casa alla ricerca di un paio di scarpe che non sapevo dove fossero finite e una volta trovate, le indossai, perdendomi a osservare le scale.

Quello scantinato mi terrorizzava e ora grazie a James avrei dovuto trovare qualcun altro per continuare il lavoro, o meglio riiniziarlo.

Sbuffai, poi afferrai il gatto e gli lasciai un rapido bacio sulla nuca. Quest'ultimo alzò la testa e mi guardò male, facendomi sorridere. Lo liberai dalla mia presa e afferrai le chiavi. Prima di chiudere la porta, però, mi voltai per guardare all'interno e provai l'orrenda sensazione di non essere al sicuro in casa mia; la brutta sensazione di essere osservata. Guardai all'interno ancora qualche secondo, per poi chiudermi la porta alle spalle con l'ultima immagine del gatto seduto all'ingresso in attesa del mio ritorno.

M'incamminai verso la prima fermata dell'autobus e imprecai malamente per aver venduto la mia auto per quell'ingrato di mio fratello. Mi sedetti nel primo posto disponibile e attesi di arrivare a destinazione, lasciando che nel frattempo la mia mente vagasse altrove alla ricerca di un senso per tutto questo immenso casino.

Quando scesi nel suo quartiere, optai subito per l'unico locale notturno visto che gli altri in zona erano solo pub o bar poco frequentati. Entrai senza fare neanche un po' di fila, immergendomi nell'atmosfera che mi circondava: la musica assordante, l'odore di fumo e una distesa di persone intente a muoversi a ritmo o semplicemente a divertirsi in compagnia.

Mi diressi subito alla mia meta, mi feci servire un drink e nell'attesa feci vagare lo sguardo attorno a me. Mi sedetti su uno sgabello e me lo assaporai con calma, studiando chiunque mi circondasse. Un tizio mi aveva già adocchiata e un sorriso spuntò sulle mie labbra ma durò pochi secondi perché le parole di Arthur mi tornarono alla mente infastidendomi. Mi voltai, lasciandomelo alle spalle e mi ordinai un secondo drink, più forte del primo.

Non tenni conto del tempo, sapevo solo che dopo poco ero già in pista a ballare per cercare di non pensare a niente: chiusi gli occhi e seguii la musica cercando di andare a ritmo. Un tizio mi offrii da bere, accettai e mentre aspettavo che ritornasse, l'immagine di me intenta a camminare in una strada buia della città, mi colse in pieno, lasciandomi confusa: un flashback di pochi secondi ma che era riuscito a travolgermi in pieno.

Quando l'estraneo tornò con il bicchiere, l'afferrai come se ne dipendesse la vita e lo sorseggiai nella speranza che il ricordo si facesse più nitido. Ballai con chiunque volesse ballare e mi stavo quasi per arrendere all'idea di riuscire a incontrarlo, quando gettando un'occhiata verso l'entrata, lo avvistai in compagnia di alcune persone. Mantenni lo sguardo su di lui come calamitata dalla sua presenza e sentii la mia determinazione scemare in pochi secondi perché sapevo che non sarebbe stato facile raggirarlo: primo, perché era in grado di prevedere le mie mosse; secondo, riusciva a disorientarmi come nessuno: perciò se volevo riuscire nel mio intento, avrei dovuto giocarmela bene. Non pretendevo di riuscire a ottenere quello che volevo, non me lo avrebbe mai nemmeno concesso, ma volendo potevo riuscire a scoprire qualcosa con cui ricattarlo nello stesso identico modo in cui aveva convinto me e mio fratello. E dopo la nostra ultima conversazione, sembrava quasi che avessimo raggiunto un punto d'incontro quindi, forse, qualche chance di farcela l'avevo ottenuta. La mia sicurezza crebbe.

Dovevo inventarmi qualcosa e alla svelta.

Seguii con lo sguardo il gruppo con cui era e li avvistai a scegliere un tavolo. Chiesi ai due uomini con cui stavo ballando di aspettarmi in pista e mi diressi al bar con passo sicuro e una volta raggiunto, ordinai da bere dallo stesso barista che non esitò a sorridermi, per poi servirmi. Stetti al gioco per qualche minuto fino a quando avvertii una presenza al mio fianco o meglio la sua presenza e lo capii dal fatto che il mio corpo rispose alla sua vicinanza. Fremetti. Speravo solo che non se ne fosse accorto e per mantenere il controllo di me, non mi voltai, facendo finta di niente.

Quando arrivò il mio drink, mi mossi per pagare ma Jonathan s'intromise, precedendomi sul tempo. «Pago io quello della signorina.» Alzai gli occhi su di lui e lo scrutai, mentre pagava indisturbato. «Mi stai seguendo, Vivienne?» parlò con la sua voce bassa e virile. 

«Tu cosa credi?» 

Abbassò i suoi occhi azzurro su di me e notai una luce divertita attraversarli. Un sorriso sardonico comparve sulle sue labbra. «Credo solo che tu sia un po' troppo lontana da casa.» Mi scandagliò per qualche secondo di troppo, alla ricerca di una risposta sincera.

«Non t'illudere, sono venuta qui in ottima compagnia» lo provocai. 

«Se pensi che quei due, che in questo momento ci stanno fissando, siano di ottima compagnia, allora ti devo insegnare un paio di cose.» 

Mantenni lo sguardo nel suo senza vacillare e alla fine un sorriso divertito comparve sulle mie labbra. Abbassò lo sguardo su di esse prima di distoglierlo e pagare i drink che aveva appena ordinato senza però cancellare un sorriso furbo che la diceva lunga. Afferrai il mio di drink, ne bevvi un altro sorso e, approfittando del fatto che era distratto, cercai di riordinare le idee visto che il gioco si stava facendo più scottante del previsto. «Sono proprio curiosa di vederti all'opera.» 

Un angolo della sua bocca salì verso l'alto, lasciando intuire fosse divertito dal nostro scambio di battute. Mi gettò un'occhiata eloquente e per qualche secondo mi persi nel mare dei suoi occhi, così per salvarmi dalla trappola in cui ero caduta, ripresi a sorseggiare il mio drink. Mi voltai verso la pista e mi resi conto che davvero i due tizi, con cui stavo ballando prima erano intenti a gettare occhiate scocciate nella mia direzione e mi compiacque constatare che Jonathan avesse esaminato la situazione attentamente. Decisi così di togliere il disturbo per depistare il suo intuito fin troppo affine. «Ti lascio tornare dai tuoi amici...»

«Ti vuoi unire?» chiese. Indicò con un semplice gesto della mano il gruppo di persone con cui era venuto e mi sorpresi a riflettere sulla sua proposta, poi tornai lucida.

«Passa una buona serata, Jonathan. Molto probabilmente farò lo stesso.» 

Ci guardammo, mentre lasciavo affiorare sulle mie labbra un sorriso allusivo. Mi allontanai, dirigendomi verso la pista, sentendo il suo sguardo su di me. Mi voltai solo dopo qualche attimo per vederlo dirigersi verso il suo gruppo di amici.

Ritornai a ballare al centro della pista, ignorando i due tizi ma non fu sufficiente perché, poco dopo, mi seguirono. Continuai a ballare come se non ci fosse un domani e quando alzai lo sguardo, rimasi stupita di trovare Jonathan intento a fissarmi dal piano rialzato in cui si trovava. Un enigmatico sorriso non aveva ancora abbandonato le sue labbra e potei benissimo vederlo anche a distanza. Mi sforzai d'ignorarlo con scarsi risultati perché, se anche non alzavo gli occhi su di lui, potevo sentire chiaramente il suo sguardo bruciarmi addosso. Sentii uno dei due tizi tornare all'attacco, sfiorandomi i fianchi con le mani e posizionandosi alle mie spalle. Guardai Jonathan, alzando un sopracciglio perché la smettesse e, dopo aver ampliato il suo sorriso saccente, si voltò dandomi le spalle, sparendo dalla mia vista. Corrugai le sopracciglia per il terrore, non sapendo quali fossero le sue intenzioni, e feci l'errore di guardarmi attorno alla sua ricerca.

Stavo per tirare un sospiro di sollievo, pensando di averla scampata e poter tornare così a dedicarmi alla mia serata, quando lo avvistai scendere le scale e camminare nella mia direzione con passo deciso. Si muoveva come un felino tra la gente senza mai distogliere un attimo gli occhi dai miei. Mi sentii in trappola e capii che in questo stupido gioco avevo finito per essere la preda senza neanche rendermene conto. I ruoli si erano invertiti e lo compresi solo ora. Me lo ritrovai davanti e inconsapevolmente mi scrollai l'estraneo che avevo alle spalle che non esitò a protestare, ma bastò un'occhiata da parte di Jonathan per farlo desistere. Mi trovai così da sola con lui: l'ironia però era che eravamo tutto fuorché soli ma in questo momento, occhi negli occhi, lo eravamo davvero. 

Mi si avvicinò senza esitazioni e, abbassando i suoi occhi color del cielo su di me, mi parlò a pochi centimetri di distanza per sovrastare la musica a tutto volume del locale: «Balla con me, Vivienne» mi colse impreparata. La mia sicurezza scemò. 

Ci fissammo: lui in attesa di una mia reazione e io indecisa se accettare o meno, ero più che consapevole che mi stavo per gettare senza paracadute in qualcosa che, di sicuro, non avrei saputo controllare. Ma bastò, però, far riaffiorare la lite con mio fratello per seguire con esattezza la strada che mi ero imposta di percorrere e così, con un sorriso vittorioso, annullai la distanza che ci separava. Appoggiai le mani sul suo petto senza distogliere gli occhi dai suoi e lui mi cinse i fianchi in una stretta ferrea. Mentirei se dicessi che il cuore non mi saltò in gola e dei brividi mi per corsero interamente al suo contatto ma contavo sul fatto che sarei stata in grado di gestirlo, dimenticandomi però che non era di uomo qualsiasi di cui stavo parlando, ma di Jonathan. 

Un uomo che cominciava a interessarmi sempre di più a ogni minuto che passava, solo che non sarei mai stata in grado di ammetterlo con me stessa. O molto probabilmente avrei finito per farlo quando sarebbe stato troppo tardi.

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