Capitolo 23 - Incastri Perfetti

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«Cos'è una sorta di vendetta? Sono ore che sono in macchina» sbottai. Jonathan mi gettò un'occhiata provocatoria. «Quando mi hai costretta a venire con te, non avevi specificato che ti avrei dovuto aspettare tutto il tempo in auto mentre tu sbrigavi le tue faccende.» Fermò l'auto. Aprì la portiera e scese dall'auto sotto il mio sguardo incredulo. «Non avrai intenzione di...»

«Solo dieci minuti, Vivienne», disse. «Fai la brava e non uscire dall'auto» si prese gioco di me. 

Gli lanciai un'occhiata carica d'odio ma non ci badò. Sorrise. Chiuse la portiera ed entrò in un edificio. Sbuffai, esasperata. 

Era tutta la mattina che eravamo in auto e sinceramente non ne potevo più.

Aprii lo sportello e scesi per potermi fumare una sigaretta in pace. La nicotina m'invase e finalmente mi potei sgranchire le gambe. Non avevo la più pallida idea del perché mi avesse voluto portare con sé ma, dopo tutte queste ore, un'idea chiara me l'ero fatta: voleva che l'odiassi e ci stava riuscendo. Un sorriso comparve sulle mie labbra e feci un altro tiro prima di studiare la zona circostante. Ero in un pessimo quartiere e lo capii subito dal degrado che mi circondava. Mi chiesi subito perché fossimo qui ma ero più che sicura che non lo avrei scoperto tanto presto.

Un rumore attirò la mia attenzione e dovetti rimangiarmi subito le mie parole: due SUV neri si dirigevano verso la mia direzione, mi nascosi meglio alla loro vista e spostai lo sguardo sull'edificio in cui Jonathan era entrato e mi trovai a imprecare. Aggirai l'auto e, vedendo scendere dalle grosse auto alcuni uomini alquanto discutibili, mi fiondai dentro la stessa porta in cui era sparito Jonathan.

L'interno era ancora più inquietante e lugubre dell'esterno ma avanzai senza esitare per poterlo avvertire prima che fosse troppo tardi. Era fin troppo silenzioso e quando raggiunsi un portellone socchiuso, lo aprii per entrare all'interno e quello che vidi m'immobilizzò: Jonathan tratteneva un tizio alquanto malridotto e con il volto tumefatto a causa dei colpi subiti e stava cercando di dire qualcosa, lottando contro la saliva e il sangue. Entrambi voltarono lo sguardo verso di me. Jonathan mollò lo sconosciuto che gemette dolorante e tirò fuori la pistola per tenerlo sotto tiro e con passo deciso mi s'avvicinò. «Si può sapere che cavolo ci fai qui?» 

Lo guardai senza paura, solo disorientata da quello a cui avevo assistito. Poi riacquistai il controllo. «Sono arrivati due SUV neri carichi di gente.» 

Si tese e si voltò, dirigendosi verso l'uomo che aveva appena pestato. «Chi hai chiamato, eh?» 

Gli avvicinò la canna alla tempia e gli parlò a bassa voce per fare in modo che lo sentisse solo lui. Lo colpii alla testa, tramortendolo, per poi gridarmi di muovermi. Lo seguii cercando di tenere il suo passo e poco dopo mi afferrò per un braccio per fare in modo che gli stessi dietro senza perdermi. Corse fuori per un'uscita secondaria e continuammo a farlo anche all'esterno dell'edificio. Girammo attorno a un palazzo, per poi tornare indietro verso l'auto, intraprendendo un'altra strada. Un sorriso comparve sulle mie labbra e, dopo essere entrati in fretta dentro l'auto, partì sgommando. 

Mi gettò un'occhiata. «Lo trovi divertente, Vivienne?» 

«Ti ho appena salvato il culo, Jonathan. Rilassati.» Sgranò gli occhi incredulo. Non osò negare l'evidenza dei fatti, riportando lo sguardo sulla strada e sfrecciando a una velocità elevata verso una meta a me sconosciuta. Lasciai passare qualche minuto prima d'interrompere il silenzio che era sceso su di noi. «Cosa ti aveva fatto quel poveretto? Aveva offeso la tua suscettibilità?» 

Una risata sfuggì dalle sue labbra. «Quel poveretto è un sicario che non si è dimostrato molto incline a parlare civilmente.»

«Hai ottenuto quello che volevi?» chiesi.

Mi guardò solo un attimo, notando che non fossi minimamente impressionata da quanto avevo visto. «Sì, mi serviva un nome ed è quello che ho ottenuto.» Stava per aggiungere qualcosa, poi si trattenne, forse perché si ricordò con chi stava parlando e che non doveva rischiare di lasciarsi scappare troppo. Non lo biasimai. Volevo però fargli notare che non mi avesse ancora ringraziata, quando i miei occhi si soffermarono sulle sue mani tumefatte e sulla spalla: ogni volta che lo muoveva una smorfia compariva sul suo volto in risposta. Mi preoccupai. «Che ti sei fatto alla spalla?»

Sminuì subito e lo rimproverai per il suo comportamento alquanto infantile, sporgendomi verso di lui per dare un'occhiata. «Non è niente, Vivienne» insistette. Mi accorsi di essermi avvicinata troppo e indietreggiai come scottata. Tornai ferma sul mio sedile e rimasi in silenzio per il resto del tempo fino a quando la sua voce non si fece sentire. «Non volevo mi vedessi così. Io non...»

Lo guardai, aspettandomi di incontrare i suoi occhi ma mi evitò come la peste. «Non ti devi giustificare di nulla. È il tuo lavoro, no? Credi che m'impressioni per così poco? Con il fratello che mi ritrovo il sangue non mi fa né caldo né freddo, soprattutto sulle persone a cui non tengo.» 

«Tutto chiaro. Se fossi morto là dentro, non ti avrebbe fatto né caldo né freddo.» 

«Esattamente.» 

Rise divertito dal nostro scambio di battute perché, in fondo, nessuno dei due credeva veramente alle parole dell'altro ma entrambi non avremmo mai ammesso che forse, dentro di noi, stavamo iniziando a tenerci sempre di più l'uno all'altro.

Una volta terminati i suoi ultimi giri, ci fermammo in un posto per mangiare qualcosa al volo e poi ripartire subito dopo. Nel viaggio di ritorno il silenzio calò su di noi e la colpa fu soprattutto mia, avevo la testa altrove e diretta interamente all'uomo che avevo lasciato entrare nella mia vita senza sapere che, in realtà, stavo facendo accomodare nel mio salotto il diavolo in persona.

Ora che era ricomparso nella mia vita, una parte di me era combattuta tra quello che andava fatto e il legame che ci univa da un filo invisibile, fin troppo fragile e destinato quasi sicuramente a frantumarsi in mille pezzi. Era peggiorato e ne avevo avuto la conferma, mi aveva violata senza esitazioni e non mi era sfuggito il sorriso sinistro sulle sue labbra: era un folle e non avevo idea di fin dove si sarebbe spinto né avrei potuto prevederlo. Gliel'avevo letto negli occhi e, al solo ricordo, la pelle mi si accapponì dal terrore di quello che avrebbe potuto farmi; non sapevo come controllarlo, non sapevo nemmeno come si sarebbero potute mettere le cose per me domani con l'idea folle che mi era passata per la testa ma sentivo di non avere scelta. Non più ormai.

Mi sentii osservata e mi voltai verso Jonathan. Immersi gli occhi nei suoi, distogliendoli subito dopo prima che intuisse la tempesta che vi si stava combattendo. Notai che ci eravamo fermati e capii subito di che luogo si trattasse. «Devo portare fuori la barca, vuoi venire?» mi stupì.

«Non ho scelta neanche questa volta?» domandai.

«No, ce l'hai: spetta a te decidere, Vivienne.» 

Lo scrutai interdetta. «Volentieri.» 

Jonathan mi sorrise come mai aveva fatto, senza sarcasmi o enigmi impossibili. Era semplicemente genuino e mi sentii riscaldare il cuore in un attimo: un cuore che mi rifiutavo di riconoscere da troppo tempo.

Lo seguii fuori dall'auto e ci incamminammo lungo la banchina e poi per il pontile, alla ricerca della sua barca. Vi salì per primo, per poi tendermi la mano, ricordai subito la prima volta che me l'aveva tesa e, a differenza di allora, non esitai ad afferrarla. Mi sedetti e lui si recò al timone per pilotare la barca lungo il fiume. Mi persi con lo sguardo lungo l'orizzonte. E quando ritenni di aver riflettuto abbastanza, lo raggiunsi. Si voltò verso di me e mi lasciò il posto al timone, non era la mia intenzione iniziale ma alla fine ne approfittai per passare un po' di tempo in spensieratezza. La feci sbandare e lo sentii ridere per la mia espressione e, sentendomi punta sul vivo, la pilotai con più sicurezza. Quando però un traghetto si mise sulla nostra stessa traiettoria, mi agitai senza sapere con precisione che cosa fare e Jonathan non esitò a darmi una mano. Si posizionò alle mie spalle e afferrò il timone, intrappolando le mie mani tra le sue. «Respira, Vivienne», disse. Inspirai a fondo. «Tieni dritto il timone, poi vira all'ultimo a destra.» 

Lo guardai, credendo di aver capito male ma Jonathan mi sorrise. Seguii le sue direttive e all'ultimo virai, schivando il traghetto. Urlai divertita. Accelerai, sentendo l'adrenalina scorrermi nelle vene. Jonathan si sedette e si godette il panorama che ci sfrecciava attorno mentre, con i cappelli scarmigliati dal vento e la sensazione di volare sul pelo dell'acqua, mi sentii libera come poche volte lo ero stata.

Quando ne ebbi abbastanza e gli chiesi di prendere il mio posto per ammirare il calare del sole, si alzò e si mosse per raggiungere il timone. Feci lo stesso per andarmi a sedere ma la barca ondeggiò, facendomi perdere l'equilibrio. Mi afferrò al volo e alzai gli occhi su di lui imbarazzata e al contempo divertita, il sorriso non era ancora scomparso dalle mie labbra e Jonathan si perse un attimo a osservarmi rapito. Mi ritrovai così tra le sue braccia e a pochi centimetri di distanza da lui e dal suo viso. La mia espressione tornò seria e lo scrutai in silenzio senza trovare la forza di allontanarmi. I nostri nasi quasi si sfiorarono, così come le nostre labbra ma nessuno dei due sembrava propenso a prendere l'iniziativa, sicuri che poi avremmo aperto le porte dell'inferno. 

Si ritrasse per primo e, dopo una lunga ed eloquente occhiata, mi lasciò lo spazio per passare. Notai nel sorpassarlo che aveva stretto la mano in un pugno, come per trattenersi e mi sentii in colpa sapendo che non era mia intenzione fare giochetti, o meglio era il mio obbiettivo, ma per inaspettati motivi non riuscivo a portarlo avanti con lui. Non perché non volessi, ma sapevo che a rimetterci poi sarei stata solo e soltanto io. Mi andai a sedere con la mente e il cuore in subbuglio, fingendo di ammirare il tramonto, ma in realtà i miei pensieri furono tutti per l'uomo che mi stava entrando dentro senza che io potessi far nulla per impedirlo. 

Ignorare l'accaduto fu facile e conveniente per entrambi e il resto del tempo trascorse in tranquillità, almeno fino a quando uno dei due non iniziò a parlare. «Ho il terribile presentimento che tu non sia stata del tutto sincera.» Fermò la barca e lasciò il timone. Mi scrutò con espressione piuttosto seria. «Qualcosa mi sfugge e sono del tutto intenzionato a scoprire che cosa.» 

Era ritornato nel suo ruolo, deludendomi, e così diressi lo sguardo altrove piuttosto che su di lui. Mi aggrappai al primo appiglio possibile per poter sviare il discorso che sembrava essere del tutto intenzionato a percorrere. «Non sono la sola.» Lessi della confusione sul suo volto, poi trasparì della consapevolezza. «Non mi hai detto la verità su Arthur e nemmeno sull'agente Rupert e chissà su quante altre mi hai mentito. Come puoi pretendere che io mi apra o sia sincera al cento per cento se tu non fai lo stesso. Non mi fido, Jonathan, così come tu non ti fidi di me e questo non lo può più negare nessuno» parlai duramente perché mi ci trovai costretta, non sopportavo di essere messa alle strette e stavo reagendo solo di conseguenza.

«Io non sono te, Vivienne: vorrei fidarmi ma non me ne dai modo», disse a cuore aperto, prendendomi in contropiede. «Non ti ho mentito: toccava a Arthur parlartene a lavoro terminato ma vedo che non è riuscito a trattenersi dal dirtelo.» Mi pentii subito di essermelo lasciato scappare, sapendo che mio fratello sarebbe potuto finire nei guai. «Ma farò in modo che rimanga tra di noi.» Non esitò a sedersi al mio fianco senza lasciarsi trasparire alcuna emozione in particolare. «Per quanto riguarda invece l'agente Rupert non è un argomento che sono solito affrontare con una sconosciuta o meglio non sono solito affrontarlo proprio.» 

«Da come ne parli, si capisce subito che la ferita è ancora molto aperta» constatai.

«Non per lei», disse. Alzai gli occhi su di lui confusa. «Avevamo una figlia.» Notai l'azzurro dei suoi occhi cambiare, farsi di ghiaccio e impenetrabile e presagii il peggio. «È morta a pochi anni dalla nascita per una malattia degenerativa e non c'è stato niente che potessimo fare.» Trattenni il fiato. «E dopo averla persa, non sono riuscito più a trovare un solo motivo per stare con la madre, il divorzio alla fine è divenuto inevitabile.» 

Le sue parole mi spezzarono il cuore perché aveva preferito affrontare il suo dolore da solo e poi non credevo fosse stato così semplice come me l'aveva raccontata: c'era molto di più, soprattutto con la sua ex-moglie, perché quando si condivideva qualcosa di così tragico si finiva inevitabilmente per dare vita a un legame più forte e duraturo del previsto. Mi tornò in mente un particolare che mi scosse. «Hai dato il nome di tua figlia a questa barca, non è vero?» Non confermò ma ormai mi ero già fatta la mia idea. C'era un nome sul fianco dell'imbarcazione e non fu difficile da immaginare a chi fosse dedicata. «E scommetto anche che è il tuo lasciapassare per fuggire da tutto.» Mi fissò senza dire nulla. Mi sentii a disagio. «Perché hai voluto venissi con te, Jonathan?» gli chiesi.

Non meritavo di stare per qui, per mille e diverse ragioni. 

Si sollevò con tutta l'intenzione di andare al timone ma, prima di farlo, abbassò gli occhi su di me. «Perché credo che tu sia una delle poche persone che possa capirmi.» 

Mi persi a guardarlo per cercare di capire se fosse sincero e quando ne trovai conferma, mi commossi per le sue parole. Mi diede le spalle per pilotare la sua barca e ne approfittai per volgere lo sguardo verso il porto che si avvicinava. Un velo scese sui miei occhi e sinceramente non sapevo nemmeno perché mi fosse venuta una così desiderosa voglia di piangere.

Mi avvertì del temporale in arrivo. Mi voltai accorgendomi finalmente delle nuvole minacciose che ci seguivano e mi venne da ridere al pensiero che ogni volta che salivamo su questa barca la pioggia dovesse sorprenderci. Decisi d'ignorare l'amaro alla bocca dello stomaco per il coinvolgimento emotivo a cui ero stata sottoposta e mi avvicinai a lui con tutta l'intenzione di alleggerire la situazione che si era fatta fin troppo intensa. «Quindi ti fidi di me, Jonathan?» 

Un sorriso comparve sulle sue labbra nel sentire il tono ironico che avevo usato e la sua risposta ne fece spuntare uno sulle mie. «Neanche per un secondo.» Puntò gli occhi nei miei. «Ma quello che so e di cui mi posso fidare è che abbiamo gli stessi obbiettivi.» 

Riportai lo sguardo davanti a me e, insieme a lui, contai i secondi che ci separavano dalla riva.

La pioggia ci sorprese ancora prima che attraccassimo e una volta scesa sul pontile, mi urlò di correre verso l'auto mentre sistemava la barca. Risi e non appena mi raggiunse, notai che anche lui fosse parecchio divertito e grondante di pioggia. 

Salimmo in auto tra una risata e l'altra per colpa dei rispettivi aspetti a dir poco ridicoli e fradici. Arrivammo sotto casa sua e cercò con disperazione le chiavi, impiegandoci un po' a trovarle.

«Ho dato per scontato che mi ospitassi ancora una volta.» Mi resi conto solo ora che non ne avevamo minimamente parlato.

«E io ho dato per scontato che restassi anche stasera.» Mi gettò una calda occhiata. Infilò la chiave nella serratura e, dopo avermi tenuto aperta la porta, mi fece strada verso il suo appartamento.

Ormai mi sentivo perfettamente a mio agio al suo fianco e intuii che anche per lui doveva essere lo stesso, stranamente mi sentivo più a casa in questo appartamento spoglio che nelle quattro mura in cui avevo vissuto per tanti anni e sapevo benissimo il perché.

M'invitò a usare il bagno per prima per potermi cambiare e, senza protestare, feci come aveva detto. Mi seguì solo per darmi qualcosa da indossare e quando me le passò e le nostre dita si sfiorarono, un fremito mi colse e alzai gli occhi su di lui che mi fissò senza battere ciglio. Realizzai che fossi finita in un maledetto guaio, distolsi lo sguardo e me ne andai chiudendomi in bagno. Mi appoggiai alla porta confusa e con l'animo in subbuglio per le contraddizioni che dominavano dentro di me: domani sarei andata via e sapevo che non sarebbe capitata più nessun'occasione per essere davvero noi stessi e in questi giorni Jonathan, senza neanche rendersene conto, mi aveva mostrato parti di lui che mi avevano colpito più del previsto. Inspirai a fondo e, dopo aver aperto la porta, mi avviai con decisione verso la camera dove lo avevo lasciato.

Entrai e lui si voltò verso di me ma prima che potesse chiedermi qualcosa, lo precedetti avvicinandomi al suo cospetto. «Mi fido di te.» Lessi una certa sorpresa nel suo sguardo. «Forse sei l'unico di cui mi fido davvero.» Feci fatica a pronunciare queste esatte parole ma non riuscii più a tenermele dentro e una volta volevo poter essere libera anche io di dirle a qualcuno. Rialzai gli occhi su di lui leggermente scossa per quello che mi ero lasciata scappare e lo trovai ancora intento a fissarmi e la prima cosa a cui pensai, visto che non reagiva, era che non mi aveva creduta, oppure avevo appena fatto l'errore più grande ad aprirmi. «Puoi non credermi, ma...» 

Mi afferrò il volto tra le mani e carpì le mie labbra in un bacio vorace e intenso. S'impossessò della mia bocca fino a togliermi il respiro e, dopo la sorpresa iniziale, ricambiai lasciando che la mia lingua lottasse con la sua in un gioco di forza per decidere chi avrebbe preso il controllo ma non ci volle molto perché glielo concedessi completamente. Mi strinse i capelli in una presa ferrea e per impedirmi di cambiare idea mi strinse a sé senza lasciarmi via d'uscita. Portai le mie mani al suo collo, per poi farle scorrere tra i suoi capelli, mentre lui percorreva la linea della mia schiena e dei miei fianchi con decisione. Mi costrinse a indietreggiare e mi trovai incastrata tra lui e la cassettiera alle mie spalle. Mi ci appoggiai, permettendogli d'incastrarsi tra le mie gambe e non mi sfuggì il suo desiderio tanto che sentii l'eccitazione crescere dentro di me. Non riuscii a capire più nulla, la mia mente si svuotò di tutto e l'unico pensiero costante era che lo volevo, come mai avevo voluto nessuno. Portò le sue mani al mio collo e con una leggera pressione, mi distaccò dalle sue labbra per potermi vedere bene in volto. Lo fissai stordita, cercando di ragionare con lucidità e per capire quali fossero le sue intenzioni. Mi scostò i capelli che mi erano caduti sul viso e prese a scrutarmi alla ricerca di un ripensamento che di sicuro non avrei avuto. Non a questo punto.

Volevo che con il suo tocco cancellasse tutti i segni e le cicatrici che mi erano state lasciate impresse come fuoco vivo. Volevo poter provare anche io cosa volesse dire stare davvero con qualcuno per cui sentivi il desiderio di affidare tutto te stesso senza remore. Volevo poter provare qualcosa di diverso dal solito vuoto che non aveva mai smesso un attimo di accompagnarmi e credevo che tutto questo potesse essere possibile tra le sue braccia. Probabilmente ero la solita illusa ma, per il momento, era l'unica cosa che volevo davvero. Probabilmente ero anche pazza perché non avrei fatto altro che incasinare la situazione ancora di più ma, per adesso, era l'ultima cosa a cui avevo voglia di pensare.

C'eravamo solo noi, così tornai a concentrarmi su di lui che stava ancora aspettando una mia risposta, non esitai a dargliela. «Lo voglio davvero, Jon.» 

Mi scrutò a fondo prima di avvicinare nuovamente il suo volto al mio e percorrere con le labbra e il suo respiro la linea del mio collo, persi contatto con la realtà e quando ritornò con gli occhi nei miei, mi sfiorò senza toccare le mie labbra. L'impazienza si impossessò di me e un sorriso saccente comparve sul suo volto, agganciò le mie gambe ai suoi fianchi e mi sollevò senza alcuna fatica, dirigendosi verso il letto dove mi adagiò per poi raggiungermi subito dopo. Si posizionò al mio fianco, intrappolandomi tra le sue braccia. M'immersi nell'azzurro dei suoi occhi a cui difficilmente sarei riuscita a fare a meno e attesi, in silenzio, persa tra le sue lenzuola che sapevano di lui e probabilmente, dopo stanotte, di noi. «Se mi giuri che appena sorgerà il sole non rimpiangerai nulla, ti farò mia.»

Fluttuai nell'oceano che erano le sue iridi stupita dalle sue parole, vittima del suo sguardo penetrante. «Non lo farò.» Mi fissò, cercando la verità ed ero più che sicura che l'avrebbe trovata. «Non potrei neanche se lo volessi.» La sua fronte s'increspò e temetti di aver esagerato con la sincerità per stasera così decisi di stuzzicarlo un po'. «Anche se...» si fece attento. «Sarò costretta a farlo se quando uscirò da questo letto non mi riterrò abbastanza soddisfatta.» 

Provò a trattenersi ma alla fine un sorriso accattivante comparve sulle sue labbra. Percorsi con i polpastrelli la linea delle sue spalle, per poi soffermarmi sui suoi pettorali e quando si chinò su di me per parlarmi a un soffio dalle mie labbra, feci scorrere le mani lungo il suo collo e finii per accarezzargli i capelli. Non staccò un secondo gli occhi dai miei e con voce suadente rispose alla sfida che gli avevo lanciato. «Ti faccio una promessa, Vivienne. Non vorrai più alzarti da questo letto dopo stanotte.» Un fremito mi scosse interamente e arrossii sotto il suo sguardo. «E ora basta parlare» sussurrò. 

Una risata cristallina mi partii dal cuore. «Sei...»

«Cosa?» 

Sorrisi con malizia ed ero pronta rispondergli per le rime, quando mi zittì con le sue labbra per impedirmi di dire qualsiasi altra cosa. 

Ci rotolammo tra le lenzuola e con frenesia ci levammo i vestiti che ci impedivano di sentirci l'un l'altro e quando il suo corpo circondò il mio, mi trovai avvolta dal suo profumo e dal suo calore. Sotto di lui mi sentii al sicuro e nell'unico posto in cui avrei voluto essere nei giorni a venire. Si posizionò tra le mie gambe pronto a rendermi sua ma prima di farlo mi fissò negli occhi e ricambiai vogliosa. Presi le sue labbra tra le mie nello stesso momento in cui s'impossessava di ogni parte di me, gemettimo insieme per il puro piacere che ci avvolse e iniziò coinvolgendomi in una danza decisa ma allo stesso tempo dolce. I nostri respiri si mescolarono l'un l'altro, così come i nostri odori. Mi strinsi a lui, avvolgendogli le gambe attorno al busto e con le mani tracciai la pelle della sua schiena per ancorarmi a lui senza rischiare di affogare nei ricordi che stavano cercando in tutti i modi affiorare. Chiusi gli occhi e ritornai alla violenza subita e al suo tocco su di me tanto che chiusi gli occhi frastornata ma Jonathan fu veloce a riportarmi alla realtà. «Guardami, Vivienne.» 

Aprii gli occhi con fatica e qualche lacrima sfuggì dai miei occhi, portandolo a fermarsi preoccupato. Mi asciugò le guance, per poi perdersi a rimirarmi. Feci lo stesso, godendomi quel momento l'uno nell'altro, come se fossimo una cosa sola. Un incastro perfetto di due corpi e due anime che alla fine, senza ogni logica, si erano trovate a supportare l'una le ferite dell'altra e le emozioni che mi travolsero furono così intense da annullare qualsiasi cosa attorno a me: i dispiaceri, le paure, tutto quanto e il merito andava solo e unicamente alla persona che mi stava davanti. «Non ti fermare, per favore» lo pregai.

Dopo un attimo di esitazione, si calò sulle mie labbra, per poi riprendere da dove si era interrotto con una dolcezza disarmante. Lo lasciai guidare finché non decisi di prendere le redini in mano e aumentai il ritmo mentre lui si lasciava trasportare. Ribaltai la situazione e sembrò eccitato dalla mia intraprendenza ma non esitò a riprendere il controllo della situazione. Capii che come fuori dal letto fossimo sempre in guerra l'uno con l'altro per chi avesse ragione o a chi spettasse l'ultima parola, così era anche tra le lenzuola e la cosa non mi dispiacque affatto. Non saprei dire per quanto tempo continuammo a perderci l'uno nell'altra, l'unica cosa che sapevo era che quando crollai tra le sue braccia, sorrisi, constatando che aveva mantenuto la sua promessa.

***

Mi svegliai sentendo un buon odore di pane tostato e il mio stomaco brontolò in risposta. Al mio fianco non c'era nessuno e intuii che Jonathan dovesse essere alle prese con i fornelli. Mi distesi nel letto con un'espressione scema sulla faccia a prova del fatto che dovevo aver proprio perso la testa. Sentii dei passi lungo il corridoio e mi ricomposi appena in tempo, un attimo prima che entrasse.

Alzò gli occhi su di me e, vedendomi sveglia, sorrise furfante mentre io mi morsi il labbro inferiore con aria colpevole. Mi porse il vassoio con la colazione e i miei occhi s'illuminarono in risposta, mi ci fiondai sopra affamata sentendolo ridere e non esitai a fulminarlo con un'occhiata. «Non abbiamo cenato ieri sera. Non puoi biasimarmi se ora sto morendo di fame.» 

Sorrise mentre si allungava sul comodino per prendersi una sigaretta. Si distese al mio fianco e se l'accese mentre si godeva lo spettacolo. «Morendo di fame, eh?» 

Il tono allusivo con cui lo disse mi fece subito intendere che si stesse riferendo alla notte movimentata appena trascorsa e un sorriso sfuggì alle mie labbra senza che potessi far nulla per impedirlo. Sorrise tra un tiro e l'altro, alzando un sopracciglio convinto e trattenni a stento una risata, evitando di offendere il suo enorme ego maschile. 

Tra uno sguardo e l'altro mi trovai ad ammettere che fosse stata una notte perfetta, così come lo era ancora adesso. Solo che per colpa mia finì o meglio bastò che gli esponessi le mie intenzioni per la mattinata che la sua espressione cambiò radicalmente. «Devi andare a casa, davvero Vivienne?»

Appoggiai il caffè che stavo bevendo. «Non sto scappando, Jonathan. Ho solo bisogno di fare un salto a casa.»

«E quanto dovrebbe durare questo salto? È ancora in giro. Non mi sembra proprio il caso di rischiare.» 

«Non succederà niente, devo solo...» 

Rise amaramente. «Non serve che mi tranquillizzi. È te che vuole, non me, e ritengo che finché non troviamo qualcosa con cui impedirgli anche solo di muovere un passo verso di te, non dovresti andare in giro da sola.» 

Lo guardai sapendo che avesse ragione, poi mi alzai e indossai i vestiti che erano sparsi per la stanza. Sospirò rumorosamente e non potei fare a meno di sentirmi in colpa, ma non potevo fare altrimenti: avevo le mani legate. «Se ti va bene, torno da te stasera.» Mi avvicinai al letto e mi chinai per parlargli a pochi centimetri dal suo volto. Non mi rispose scocciato della mia testardaggine e attesi una sua risposta. 

«Questo dovrebbe rasserenarmi secondo te?»

«No», dissi. «Dovrebbe eccitarti.» 

Scosse la testa incredulo, per poi sorridere sardonico. Mi calai sulle sue labbra per lasciargli un ultimo bacio prima di andarmene e, dopo un attimo di esitazione, ricambiò tirandomi sopra di lui. Risi e, dopo qualche altro minuto di effusioni, mi sollevai malvolentieri e mi avviai verso la porta. «A stasera, Vivienne», disse.

Mi voltai per sorridergli e, senza aggiungere nient'altro, me ne andai percorrendo l'appartamento e chiudendo la porta dietro di me. Mi recai alla prima fermata disponibile, in attesa dell'autobus che mi avrebbe condotta a casa e mentre aspettavo, tirai fuori il telefono dalla borsa e digitai il numero di mio interesse. Lo lasciai squillare sentendo la linea libera e quando udii la sua voce dall'altra parte della linea, parlai decisa: «Ho bisogno di vederti, fatti trovare a casa mia tra un'ora.» 

Quando ebbe confermato, chiusi la chiamata e mi voltai verso l'edificio di Jonathan, pensierosa.

Speravo solo di non stare per commettere un errore.


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