Capitolo 24- Straziante Scoperta

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Jonathan

Mi alzai, indossai i pantaloni e una camicia azzurra. Infilai la giacca e le scarpe e, dopo aver raccolto le mie cose, mi ritenni pronto per recarmi al lavoro. Provai a fingere che fosse una giornata come le altre, provai a non pensarci, ma ormai Vivienne era diventato il mio chiodo fisso.

Mi ero lasciato andare senza neanche sapere come potesse essere successo. Non era da me ignorare le conseguenze delle mie azioni, eppure ieri sera era proprio quello che avevo fatto. Ma in realtà mentivo solo a me stesso, perché nei fatti avevo smesso di seguire il protocollo dal primo momento in cui avevo posato gli occhi su di lei. Non so se fosse stato per il fatto che non potessi averla o perché non si era minimamente interessata al sottoscritto, incuriosendomi, ma di quello che ero certo era che era bastato passarci qualche minuto insieme per rimanerne colpito.

Ad attrarmi non era stata solamente la sua bellezza fisica, anche se era a dir poco disarmante, ma il suo carisma e il suo carattere al di fuori dal comune. Era intrigante e testarda come poche, orgogliosa e sicura di sé da mandarmi al manicomio ma poi mi bastava guardarla nei suoi occhi verde foresta per leggervi qualcosa che sapeva entrarmi nell'anima come nessuno e convincermi a lasciarmi andare alla sua mercé.

Mi ero imposto di non cedere ma quando mi si era presentata davanti dicendo di fidarsi, come se mi stesse concedendo il suo più prezioso dei regali, non avevo saputo resistere. E, a poca distanza da quanto avvenuto stanotte, mi scoprii incapace di non rievocare alla mente le esatte sensazioni che avevo provato quando l'avevo posseduta e quando il suo corpo aveva risposto al mio senza esitazioni in un incastro perfetto, lasciandomi senza fiato.

Non ero assolutamente pentito della mia scelta, anzi non vedevo l'ora di riaverla tra le mie braccia tanto da sentire quasi un dolore fisico.

Chiusi gli occhi per un secondo per cercare di riacquistare un po' di contegno: la volevo ancora, la volevo in un modo che mi faceva sentire confuso e colpevole.

Dio, vederla senza veli addosso e in tutte le sue forme mi aveva fuso il cervello tanto che non riuscivo a pensare a nient'altro. Vivienne mi era letteralmente entrata dentro, conficcando le sue unghie così affondo che difficilmente me ne sarei riuscito a liberare e la colpa era solo mia. E lo era anche quella di averla lasciata andare via stamattina: non avrei dovuto permetterglielo, dovevo insistere, ma non volevo che scappasse e conoscendola ero più che sicuro che lo avrebbe fatto se avessi lasciato uscire il mio lato dispotico, quello che non sembrava apprezzare.

Ero in collera con me stesso perché mi ero talmente fottuto il cervello da sapere che non avrei saputo ragionare con lucidità se le fosse capitato qualcosa ed era la mia preoccupazione più grande sapendo che quel James era ancora a piede libero. Se mi fossi soffermato anche solo un attimo a pensare a quello che era stato capace di farle, probabilmente lo avrei ammazzato con le mie stesse mani. Non ero un idiota, non me ne aveva parlato ma ero in grado di riconoscere quando una donna era stata vittima di abuso e Vivienne purtroppo presentava tutti i requisiti. Non volevo azzardarmi a pensare che potesse durare ma per adesso era l'unica cosa a cui tenevo e che volevo portare avanti con tutto me stesso.

Mi aveva detto che sarebbe venuta stasera ma non riuscii a fare a meno di pensare che non aveva confermato alla mia affermazione e se n'era andata senza dire nulla: aveva qualcosa in mente ma non me ne aveva voluto parlare. Voleva fare da sola e la rabbia crebbe dentro di me. Ero nervoso e una volta entrato in centrale, se ne accorsero tutti. Non mi fermai a salutare nessuno e mi chiusi nel mio ufficio, sbuffando, per poi lasciarmi cadere sulla mia poltrona senza riuscire a togliermi dalla testa il brutto presentimento che mi aveva colto fin da quel momento sulla barca, quando si era rifiutata di rispondere alla mia domanda distraendomi con le sue accuse e ci ero cascato in pieno. Poi non avevo più avuto modo di pensarci, almeno non fino a stamattina.

Mi alzai e decisi di dedicarmi al mio lavoro e a trovare un modo per risolvere questo casino, altrimenti sarei impazzito. Mi recai dal mio superiore per chiedergli un mandato per incastrare James Crawford ma non me lo consentì perché, a suo parere, non avevamo niente in mano e non potevo neanche insistere troppo, altrimenti non ci avrebbe messo molto a capire che ero troppo coinvolto.

Me ne andai dal suo ufficio colmo di irritazione per la situazione ingarbugliata e senza uscita in cui mi ero ritrovato tanto che non mi accorsi della mia ex-moglie intenta ad aspettarmi. Incrociammo il nostro sguardo, la sorpassai indifferente mentre lei mi seguì. «Agente Rupert, che posso fare per lei?»

«Jonathan, non potremmo darci semplicemente del tu.»

Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo e non mi fermai diretto alla mia meta. «No, mi sembra che fossimo d'accordo di distinguere la vita privata da quella professionale. Non voglio che si creino fraintendimenti su quello che facciamo qui.»

«Non ti preoccupare, Jonathan» si fece beffe di me. «Hai saputo gestire molto bene la situazione, forse troppo.» Non abboccai ed entrai nel mio ufficio, quando però mi voltai, mi accorsi che non se ne fosse andata. Attesi e alla fine parlò: «Ho bisogno di una mano con Cataldi, non si espone.» 

Sospirai prima di sorriderle, non essendone per niente meravigliato. «Te l'avevo detto di non coinvolgerlo ma tu hai voluto fare di testa tua. Che cosa ti aspetti da me adesso?»

«Che mi dai una mano, come ai vecchi tempi. Eravamo una bella squadra, no?» la sua voce si fece melliflua.

«Non fare giochetti con me, non ti conviene.» S'irrigidì a sentire il mio tono brusco. «Non lo siamo mai stati e lo sai perché?» Se ne rimase in silenzio, accrescendo la mia rabbia. «Mi hai mentito sulla persona a cui tenessi di più al mondo e quando è morta, è morta anche una parte di me. E non importa se non era figlia mia perché l'ha considero ancora tale ma dovevi dirmelo. Dovevi dirmelo, dannazione!» la guardai fremere dalla rabbia. «Ma non l'hai fatto, perché l'unica cosa che t'importava era ottenere me. Beh, mi hai avuto, così come ora mi hai perso, perciò levati dalla mia vista prima che perda la pazienza.» 

Deglutì, sospirando amaramente e aspettai che se ne andasse, sedendomi sulla mia poltrona. Non lo fece, anzi insistette. «Devi parlare con Arthur.»

Sbattei i fogli che avevo in mano sulla scrivania. «Non posso parlare con Arthur, non vuole neanche vedermi in cartolina e lo sai.»

«Se non lo convinci a rispettare i patti, mi toccherà sbatterlo dentro e mi sembra che non era questo quello che volevi.» 

In automatico pensai a Vivienne e, rimanendo impassibile, le concessi quello che voleva. «Lo farò, tu lascialo respirare. Lo conosco, se gli stai col fiato sul collo non ti darà niente. Lasciagli fare il suo lavoro: è un agente come te, no?» 

Annuì poco convinta, avviandosi verso la porta ma un attimo prima di andarsene si voltò di nuovo verso di me. «Come sta andando il caso della sorella? Hai scoperto qualcosa di nuovo?»

«Perché t'interessa?» parlai pacatamente, seccato dalla sua curiosità.

«Perché la gente mormora e poi non ti si è visto molto in giro ultimamente.»

«Prosegue, ti basta?»

«No, non mi basta perché non è da te.» Mi fissò indispettita e iniziò una delle sue scenate. «Sparisci per giornate intere, assilli i superiori esponendoti più del solito, pesti informatori...» Alzai gli occhi su di lei inespressivo. «Sì, credevi che non lo sapessi? Sei ossessionato e neanche te ne rendi conto... così rischi solo di giocarti la carriera e per quanto pensi che non m'interessi, ci tengo ancora molto a te», disse. «E vuoi rischiare tutto per cosa, eh? Non puoi tornare indietro e cambiare le cose.» 

Sentii la rabbia scorrermi nelle vene. «Non posso cambiare il passato ma se posso fare qualcosa adesso per sistemare le cose, lo farò. Non m'importa cosa dovrò fare per riuscirci.» 

Mi scrutò, poi si lasciò andare ad una risata sarcastica. «Non ci credo... tu, Jonathan Walker, ti sei lasciato abbindolare da quella donna...» 

Non mi sfuggii il tono dispregiativo con cui vi si era riferita e m'inalberai, cedendo alle sue provocazioni. «Modera i toni. Non voglio dovermi ripetere.» 

Mi fissò sconvolta. Arrivò alle sue conclusioni e sbottò isterica: «Hai perso il senno! Ma che cosa ti dice il cervello, eh? Se lo scoprono sei fuori, lo sai vero? Non ti puoi fidare di lei, non ti puoi fidare di nessuno e indovina un po', sei stato proprio tu a dirmelo. Perché questa volta dovrebbe essere diverso?» 

Le sue parole questa volta riuscirono a farmi effetto. La sua domanda era la stessa che mi stavo ripetendo da diversi giorni senza mai arrivare a una conclusione, perché non vi erano certezze, ma volevo provare con tutto me stesso a fidarmi. Probabilmente era un errore ma ora non potevo fare diversamente.

«Hai frainteso: è una fonte come un'altra, solo che è la mia fonte, quindi vedi di portarle un po' di rispetto. Cosa che invece non hai fatto fin dal primo momento a cominciare da come le hai rivelato della morte di Patrick. Volevi una reazione? Beh, l'ha avuta e ora che abbiamo appurato essere più umana di te, lasciami lavorare in pace.» 

Se avesse potuto, mi sarebbe saltata addosso per strangolarmi e, in un certo senso, godetti nel vederla bollire nel suo stesso brodo. Mi diede le spalle e sperai che finalmente se ne sarebbe andata ma le mie speranze morirono in pochi attimi. «Non me la dai a bere. Perché se ti fossi impegnato almeno un decimo di quello che stai facendo per quella donna, forse la nostra relazione non sarebbe andata in frantumi. E ci volevamo bene, ma sembra che tu te lo sia scordato come tutto il resto.» 

Serrai la mascella per trattenermi dal riderle in faccia perché sì, c'erano stati attimi felici, ma erano stati spazzati via dal vento in un batter d'occhio. «La gelosia ti rende cieca, perciò, ti consiglio vivamente di trattare i tuoi casi senza più preoccuparti dei miei, non vorrei dovermi trovare costretto a prendere provvedimenti.»

Indurì i suoi lineamenti. «Non vorrei essere costretta a prenderli anche io, potrei benissimo farti togliere il caso se andassi a riferire che non sei più in grado di intendere e di volere e solamente perché una tua fonte ti ha aperto le sue splendide gambe.» 

Mi sollevai e mi avvicinai a lei trattenendo a stento la collera dentro di me. «Ringrazia iddio che sei una donna e ora vattene dal mio ufficio.» 

Mi fissò furiosa per poi, con la coda tra le gambe, andarsene dalla stanza chiudendosi dietro la porta. Esplosi, lanciando in aria quanto c'era sulla mia scrivania. Ero furioso. Mi ci appoggiai con entrambe le mani per ritrovare il controllo e per pensare a quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Sbuffai esasperato e i miei pensieri andarono a Vivienne e seppi subito con chiarezza cosa andava fatto e che andasse pure a farsi fottere il protocollo e con esso tutti quelli che preferivano starsene fermi, finché non sarebbe successo l'inevitabile.

Uscii dall'edificio e una volta salito in auto, partii verso l'indirizzo che avevo memorizzato a memoria. Parcheggiai e scesi, i miei passi risuonarono per la strada deserta anche a quest'ora di mattina. Mi guardai attorno e inevitabilmente i miei occhi andarono alla via dove l'avevo trovata in quelle pessime condizioni e sentii la rabbia montarmi dentro. Lessi il piano in cui si trovava sul campanello ed entrai nell'edificio, trovandolo già aperto. Salii le scale e, dopo un attimo di esitazione, bussai alla porta con determinazione. Sospirai e mi tenni pronto per ogni evenienza ma ad aprirmi fu una donna dall'aspetto alquanto discutibile. Era sulla trentina e in evidente stato di gravidanza tanto che credetti di aver sbagliato appartamento. «Scusi se la disturbo, ma sto cercando James Crawford» mostrai il distintivo.

«Non è in casa al momento» parlò, duramente.

«Preferisce che torni con un mandato?» Si tese. «Posso aspettarlo dentro?» domandai.

Esitò, per poi lasciarmi passare malvolentieri. Mi guardai attorno diffidente e mi accorsi che due bambini mi scrutavano curiosi dalla cucina: amava le famiglie numerose a quanto potevo vedere. Non risi affatto della mia battuta idiota ma potei constatare che quest'uomo era più incasinato del previsto e capii che non avevo a che fare con uno dei soliti ossessi, qui c'era molto di più, solo che ancora mi sfuggiva il nesso fondamentale. 

«Sono figli suoi?» le chiesi.

«Sono miei e di James. È un padre meraviglioso.» Mi passò a fianco, indignata.

«Nessuno lo mette in dubbio, signorina.» 

M'indicò la sedia in cucina e mi accomodai, tenendo d'occhio ogni sua mossa e quando si scusò per andare al bagno, non ci credetti minimamente: probabilmente, anzi quasi sicuramente, stava andando a chiamare il suo grande amore perché da come lo difendeva o ne parlava era questa l'impressione che lasciava intendere.

Poco importava, voleva avvertirlo? Ben venga: avrei aspettato il ragno nella sua stessa tana.

Il mio occhio fu attirato dai bambini che erano rimasti in un angolo a osservarmi e m'intenerii a quella vista, erano impauriti e malnutriti. Mi soffermai su quello più piccolo di pochi mesi a cui non avevo badato, lasciato a piangere su un seggiolone a distanza. Mi ci avvicinai e lo fissai perplesso, lui d'altra parte mi guardò curioso smettendo di piangere. Distolsi lo sguardo quando sentii i passi della donna tornare e mi soffermai con attenzione su di lei e del suo pancione in netta evidenza. «Che lavoro fa il suo compagno, signorina?»

«Restaura appartamenti.» 

Mi trattenni dal riderle in faccia. Sapevo benissimo che lavoro faceva James e per chi lavorava e non c'era affatto da scherzarci sopra: avevo fatto ricerche appena Vivienne me ne aveva accennato e si era aperto un immenso vaso di pandora, poi il sicario di ieri mi aveva dato conferma del nome che mi serviva e il cerchio si era chiuso.

Spostai lo sguardo sul neonato, poi alzai con decisione lo sguardo su di lei. «Di chi è questo bambino? Non provi a dirmi che è suo perché è impossibile per i mesi che ha visto è già incinta e di parecchio.» 

Mi guardò allarmata, per poi fingersi indifferente, si tradì guardandosi attorno e una certa ansia mi salì dal petto. Mi mossi e la sorpassai con tutta l'intenzione di dare un'occhiata in giro. «Dove crede di andare? Non può farlo.» Non mi sorprese che fosse ben informata ma me ne sbattei altamente. «Sono sola con i bambini, non c'è nessun altro.»

«Se è così, allora non ha nulla di cui preoccuparsi.»

Mi seguì nervosa, mentre mi aggiravo per le stanze e quando mi accorsi della soffitta, vi entrai trovandoci un altro letto, avendo così la conferma che dovesse abitarci anche qualcun altro. Tornai verso l'ingresso e per un attimo pensai di aver perso il senno, poi un rumore giunse alle mie orecchie e corrugai la fronte per cercare di capire da dove provenisse. Feci vagare il mio sguardo attorno a me alla ricerca di uno spazio qualsiasi di cui ancora non mi ero accorto e non mi sfuggii il panico che era comparso sul volto della donna di James. Vedendo che non reagiva, mi avvicinai a una porta a cui non avevo fatto caso da quando ero entrato e provai ad aprirla ma la trovai chiusa. Alzai lo sguardo verso la donna. «Mi dia la chiave, non lo ripeterò una seconda volta.» 

Sembrò spaventata e la sua risposta mi parve sincera. «Non ce l'ho, se l'è portata dietro James.» Si portò una mano alla pancia e se le passò sopra come per rassicurarsi, purtroppo non compresi bene il suo gesto e mi distrassi solo qualche secondo per meditare sul modo di aprirla che me la ritrovai addosso con un coltello da cucina. 

Mi mossi velocemente tanto che riuscii solo a lasciarmi un taglio superficiale e in pochi secondi la disarmai. «Non mi costringa a fare del male a lei e al bambino. Resti ferma e non si azzardi a muovere un muscolo!» le ordinai con severità e provai a forzare la serratura. Tenni il coltello per non darle alcuna possibilità di rimpossessarsene e tirai fuori la mia pistola, tenendola a portata di mano. Tirai un calcio alla porta e quello che vi trovai all'interno dello sgabuzzino, mi pietrificò per qualche secondo, poi fu rapido da tirarla fuori: una donna con un sacchetto di plastica in testa e della stoffa a tapparle la bocca mi supplicava di aiutarla con le poche forze che le erano rimaste. Gli tolsi tutto dal volto e le sue lacrime furono la prima cosa che vidi. Era legata mani e piedi e con il coltello la liberai. Era terrorizzata ma soprattutto traumatizzata e mi si aggrappò con forza, piangendo disperata. I suoi singhiozzi riempirono la stanza e alzai lo sguardo verso quella donna che invece guardava la scena impassibile, scocciata per il fatto che l'avevo scoperta. La strinsi e per calmarla le sussurrai che fosse tutto finito. Quando si calmò, la prima cosa che mi chiese fu se poteva avere suo figlio e, dopo averla sollevata, la portai da lui tenendo sempre sott'occhio quell'essere inumano che continuava a fissarla come se la volesse ammazzare da un momento all'altro.

Chiamai due o tre agenti della mia squadra per aiutarmi con questo tremendo casino. Gli diedi l'ordine di portarle in centrale insieme ai figli e così fu fatto: era necessario sottoporle a domande, come se fosse un vero e proprio interrogatorio a cominciare dalla svitata che mi era saltata addosso mentre l'altra necessitava di una visita medica per verificarne il suo stato di salute. Di sicuro avrei potuto ricavarne informazioni utili per il caso che riguardava James ma, non solo, anche informazioni sull'intero giro di affari in cui era coinvolto.

Lasciai a chi di dovere di occuparsene e, dopo essermi assicurato che la donna chiusa e quasi mezza soffocata nello sgabuzzino avesse tutte le cure necessarie, mi diressi verso il mio ufficio. Prima però che potessi farlo, fui fermato dal superiore in persona che voleva spiegazioni. Gliele diedi e mi fissò in disaccordo e, anche se non lo ammise, riuscii a capire che soddisfatto di avere finalmente qualcosa in mano. «Si assicuri che non facciano telefonate, quella incinta venderebbe anche i suoi stessi figli per soddisfare Crawford.» 

Annuì e stavo per andarmene per la mia strada, quando l'agente Rupert ci raggiunse. M'irrigidii ma non lo diedi a vedere, ricordandomi che il mio superiore fosse al mio fianco. Quest'ultimo la salutò caloroso e le pose alcune domande su alcuni casi che stava seguendo e ne approfittai per congedarmi con tutta l'intenzione di lasciarli da soli ma la voce della donna che mi stava dando filo da torcere da stamattina, mi fermò. «Resti pure, agente Walker, è qualcosa che la riguarda direttamente.» Mi lanciò un'occhiata indecifrabile prima di portare la sua attenzione sull'altro uomo al mio fianco. «Il caso irrisolto e ormai seppellito dell'agente qui presente ha appena avuto un riscontro interessante.» Mi concentrai su di lei, cercando di capire dove volesse andare a parare. «Abbiamo ricevuto una telefonata da un anonimo che ci ha informato che al civico 77 del nuovo quartiere residenziale c'è una donna priva di conoscenza» aggiunse. «Ho già mandato una pattuglia a controllare e un'ambulanza ma sembra proprio che una certa signorina non si sappia proprio scegliere gli uomini. Pare che questo abbia cercato di mandarla al creatore, o almeno è quello che ha detto la voce al telefono.» 

Credetti di essere in un incubo e il mio cuore smise di battere, sentii il mio superiore chiedere se si trattasse della signorina Cataldi e quando udii la conferma, non capii più nulla. La mente mi si oscurò e credetti di avere un mancamento, notai solo dopo il sorriso beffardo che l'agente Rupert mi rivolse vendicativa e, senza ascoltare più quello che stavano dicendo, me ne andai. Corsi verso l'auto e un forte senso di colpa mi piombò addosso, annientandomi. Sgommai e m'immisi nel traffico, superando ogni limite di velocità. Presi a pugni il volante e mi pentii di averla lasciata uscire. 

Fermai l'auto al lato della strada senza preoccuparmi di parcheggiarla e corsi verso la casa dove si era già radunata parecchia gente, mostrai il distintivo e senza storie mi lasciarono passare. Chiesi dell'ambulanza e mi dissero che sarebbe arrivata a momenti. Gl'imposi di aspettare fuori e mi fiondai in casa senza sapere minimamente che cosa aspettarmi e infatti non ero assolutamente preparato a quello che mi si presentò davanti.

La casa era sottosopra e vi era un sentiero di sangue che conduceva dritto verso il bagno. Sentii lo stomaco chiudersi e smisi di respirare quando arrivai sulla porta e dovetti reggermi da qualche parte per non crollare. Era distesa sul pavimento, priva di conoscenza, immersa nel suo stesso sangue e notai che nessuno si fosse degnato di fermare l'emorragia. Mi destai dallo stato di shock in cui ero caduto e mi avvicinai inginocchiandomi per prenderla tra le braccia. Premetti sulla ferita da taglio che aveva sul fianco. Ne aveva perso troppo e ancora non c'era traccia dell'ambulanza. «Vivienne.» La voce mi si spezzò e le accarezzai il volto, finendo per sporcarla ancora di più. «Sta tranquilla, si sistemerà tutto. Starai bene.» Le baciai la fronte e un nodo mi si formò alla bocca dello stomaco. Sentii la rabbia montarmi dentro e un odio puro affiorò dentro di me per Crawford e per quello che era stato capace di farle.

Non mi rispose e mi persi a seguire con disperazione le linee del suo volto, alla ricerca del più piccolo segnale senza trovarlo. Udii la sirena dell'ambulanza avvicinarsi e ringraziai il cielo. Attesi che entrassero e non appena lo fecero, mi separarono da lei e la montarono su una barella, per poi correre fuori come dei forsennati. Li seguii con la terribile paura di perderla e un forte senso di colpa per non essere riuscito ad aiutarla. La guardai mentre la caricavano e non mi sfuggirono i lividi e gli ematomi che rovinavano la sua candida pelle e la rabbia non fece altro che aumentare e diffondersi nel mio sangue come un veleno. Mossi qualche passo con il forte desiderio di andare con lei sull'ambulanza, poi desistetti, ricordandomi quale fosse il mio lavoro.

I paramedici fecero gli ultimi controlli prima di chiudere i portelloni e correre verso l'ospedale. Mi affrettai a impartire ordini su come andava svolta ogni singola procedura per evitare di tralasciare qualsiasi cosa che potesse essere utile per incastrarlo: impronte, tracce di sangue, e confronti di DNA utili non appena lo avrei avuto tra le mani. Mandai alcuni agenti a scovarlo e a tenere d'occhio casa sua ma sapevo che ormai si doveva essere andato a rintanare da qualche parte.

Confidavo però sul fatto che la sua donna si sarebbe tradita, cercandolo, e allora non avrebbe più avuto scampo.

Salii in auto e mi diressi verso l'ospedale. Entrai come una furia e chiesi subito dove avrei potuto trovarla ma dovetti mostrare il distintivo perché non mi facessero storie. Salii le scale a passo svelto e quando raggiunsi il reparto indicatomi, sentii le forze venire meno. Diedi di matto perché non volevano dirmi niente e l'unica soluzione che alla fine mi concedettero fu quella di aspettare su una lurida sedia in un lungo e tetro corridoio. Mi sedetti e attesi il verdetto. Non mi mossi e tenni gli occhi fissi sulla sala operatoria con sguardo determinato e teso. Non potevo neanche concepire un esito negativo. Ce l'avrebbe fatta ne ero certo, era una donna forte come poche.

Ce l'avrebbe fatta!

Continuai a ripetermelo per convincermene, poi mi soffermai sulle mie mani ancora sporche del suo sangue e le fissai in catalessi. Mi tremarono e le strinsi in due pugni per sottrarmi a quella vista. Mi alzai e mi sentii come un leone in gabbia, il non sapere mi stava uccidendo.

Dovevo mantenere la calma, dovevo restare calmo, poi rividi il suo sorriso, i suoi capelli sparsi per il cuscino, la sua espressione imbronciata quando si trovava in disaccordo con qualsiasi cosa dicessi. La sua risata che concedeva così raramente da ritenerti un vincitore quando riuscivi a strappargliene una. I suoi occhi, le sue labbra, il suo profumo di vaniglia... Dio, stavo impazzendo sul serio.

Corsi fuori dall'edificio sentendo il bisogno di uscire da lì prima di entrare con la forza dentro quella stanza. Corsi sotto la pioggia. Corsi per allontanarmi da lì il prima possibile. Corsi per cercare di svuotare i miei pensieri e di ritrovare la lucidità che avevo smarrito. Corsi fino a quando non mi ritrovai la città alle spalle e mi fermai al fiume che m'impedì di continuare la mia avanzata. Fissai lo scorrere del fiume e capii di aver commesso un errore, uno dei tanti.

Non potevo perdere anche lei, non avrei retto, non dopo la morte di mia figlia.

Mi presi la testa tra le mani e urlai fuori il soffocante dolore che ero diventato così bravo a nascondere agli occhi degli altri da riuscire a ignorarlo io stesso, almeno fino a che non tornava tutto a galla, togliendomi il respiro. Piansi ed era raro perché neanche dopo la morte della mia piccola avevo avuto un crollo di questo genere, ma probabilmente era venuto il momento anche per me. Il dolore mi piegò in due e lasciai che la pioggia mi scivolasse addosso, lavando via ogni mia colpa.

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