Capitolo 26- Rivelazioni

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Fumai un paio di sigarette e quando ne abbi abbastanza di aspettare, mi alzai e mi vestii sapendo che avrei trovato la casa vuota.

Aveva frainteso tutto e aveva finito per prenderla sul personale. L'unica cosa che gli avevo chiesto era di aiutare Arthur, solo questo, ma ormai poco importava e se voleva restare nelle sue convinzioni, non avrei cercato di fargli cambiare idea.

Uscii dal suo appartamento e mi fermai per respirare a pieni polmoni l'aria della sera, sentii la brezza accarezzarmi la pelle. Mi incamminai in una direzione qualsiasi, con il cielo stellato sopra di me come unico compagno. Non avevo intenzione di scappare ma ero del tutto intenzionata a prendermi le mie libertà; di sicuro non lo avrei aspettato a casa mentre sbolliva la sua rabbia ingiustificata. Dovevo starmene zitta e parlargliene l'indomani, così avrei evitato di rovinare una serata indimenticabile. Poi riflettei che non sarebbe cambiato nulla, probabilmente avrebbe reagito nello stesso identico modo. Era convinto che lo stessi usando e, con quest'ultimo pensiero, decisi di smettere di pensare a lui per stasera e dedicarmi a me stessa.

Mi fermai notando numerose persone davanti a un locale intente a festeggiare allegramente, per poi dirigermi verso l'ingresso riconoscendo io stessa che purtroppo il lupo era solito perdere il pelo ma non il vizio.

Entrai, mi sedetti al bancone e mi lasciai trascinare nel vortice di distruzione in cui finivo quasi sempre per cadere. Affogai tutti i dispiaceri nell'alcol, perdendo la concezione del tempo e quando un tizio mi si avvicinò, accorciando sempre più la distanza che ci separava, glielo lasciai fare senza oppormi. Annullai la mia mente, così come il cuore che mi urlavano di smetterla con una vita che non mi era mai appartenuta veramente, solo che contro ogni logica mi ostinavo a non lasciarla andare. 

Jonathan

Avevo rischiato di perdere la testa ma ora sentivo di essere in grado di affrontare qualsiasi cosa sarebbe uscita dalla sua bocca. Se solo mi ci soffermavo un secondo, sentivo la rabbia scorrermi nelle vene fino ad accecarmi: le mie paure e quello che tutti mi avevano minacciato sarebbe successo avevano trovato conferme nel sentirle chiedermi di aiutare Arthur Cataldi. Nonché suo fratello. Temevo che fosse finita nel mio letto solo per ottenere quello che voleva. Temevo che nulla fosse reale. Temevo che la persona che cominciavo a conoscere non fosse reale. Ma, in realtà, ingannavo me stesso perché avevo reagito in tal maniera per la paura di perderla e dalla gelosia per un rapporto che alla fine non comprendevo.

Possibile che dopo essere venuta a letto con me l'unica cosa a cui era riuscita a pensare era quella di salvare Arthur dalla perdizione?

Mi avviai verso casa senza neanche sapere che cosa avrei detto una volta che l'avrei vista. Stava letteralmente rischiando di mandarmi al manicomio e non riuscivo più nemmeno a ragionare con la lucidità che era solita caratterizzarmi: mi aveva avvelenato il sangue e la mente tanto che non c'era un secondo in cui non pensassi a lei, non importava dove mi trovassi o con chi fossi. Non si lasciava quasi mai avvicinare e poi in alcuni eccezionali momenti se ne veniva fuori con delle affermazioni da farmi perdere la testa e senza esitazioni la seguivo, illudendomi che fosse la volta buona; che fossi riuscito a superare la sua scorza.

Non capivo cosa volesse da me ed ecco perché dubitavo della sua buona fede, non sapevo a cosa credere ma volevo credere con tutto me stesso che fosse restata per me e per nient'altro. Mi aveva marchiato e nemmeno se ne era resa conto. Come poteva una persona essere perfetta per me nel corpo e nell'anima ma anche la peggiore che potessi scegliere? Perché come mi disorientava lei non lo aveva mai fatto nessuna.

Se mi fermavo un attimo a pensare agli attimi passati insieme, mi si fondeva il cervello nel rivederla alla mia mercé, nel vederla sotto e sopra di me. Nel vederla cedermi il controllo e abbandonarsi completamente al sottoscritto: mi aveva mandato in estasi e ancora non me ne capacitavo. Il calore della sua pelle e il suo profumo m'inebriavano e me ne rendevano dipendente. Essere dentro di lei, la sensazione di diventare un tutt'uno con lei, non avrebbe mai smesso di stordirmi. Dominarla e plasmarla con il mio tocco era stata un'esperienza indimenticabile e la cosa a lasciarmi senza fiato era che lei me lo aveva concesso: lo avevo letto nei suoi occhi che stava diventando mia, solo che non dovevo permetterle di fuggire come invece sembrava sempre propensa a voler fare.

Entrai per il portone e salii le scale per arrivare al mio appartamento. Aprii la porta e mi avviai verso la camera da letto con tutta l'intenzione di mettere le carte sul tavolo, costringendola a giocare le sue ma quando mi trovai davanti una camera vuota, le lenzuola per aria così come le avevamo lasciate dopo la nostra serata di folli corse verso il piacere e la sua assenza soffocante, mi bloccai. Fissai il letto sconvolto da ogni possibile scenario che mi apparve nella mente senza che neanche potessi impedirmelo. La chiamai ma sapevo già che non avrebbe risposto, eppure lo feci lo stesso per sincerarmene. Le sue cose erano in casa, quindi non avevo la più pallida idea di dove fosse andata ma appena l'avrei trovata, l'avrei stordita a suon di grida perché se le succedeva qualcosa. Se le capitava qualcosa, sarei stato perduto, ecco qual era la verità.

Mi sedetti e meditai sul da farsi ma più riflettevo su che cosa fosse giusto fare, più mi veniva voglia di correre per tutta la città alla sua ricerca. Lo stavo per fare, quando mi squillò il telefono e lo afferrai come se ne dipendesse la mia stessa vita, sperando che fosse lei ma il numero sconosciuto che comparve sul display mi fece sprofondare nello sconforto. Esitai a rispondere, poi lo feci.

«Ehi, Walker?» riconobbi subito la voce di uno dei miei informatori. «Non sono per niente affari miei, ma c'è una donna nel mio locale che dovresti venire a prendere...» 

Mi alzai di scatto e senza neanche prendere la giacca, uscii di casa mentre ascoltavo il barista di un locale noto della zona parlarmi di una certa donna ubriaca che aveva fatto il mio nome e, dopo avermi avvertito che non fosse in buona compagnia, chiuse la chiamata mentre come un fulmine ero già salito in auto, diretto a riprendermela.

Entrai nel locale e feci vagare lo sguardo ovunque pur di trovarla. Raggiunsi il barista e lui non esitò a indicarmela. Mi voltai verso il centro del locale, puntando i miei occhi verso il punto indicatomi e quando la vidi m'irrigidii e sentii la mia respirazione accelerare per la rabbia che crebbe dentro di me: era circondata da due uomini e rideva come se fosse la donna più felice del mondo. Un tizio la teneva da dietro e sentii la gelosia e la collera montare dentro di me perché neanche poche ore prima era tra le mie braccia e nel mio letto a gemere e urlare il mio nome, perciò nessuno poteva biasimarmi se ora vedevo rosso nell'avvistarla stretta a un altro. Stavo per fregarmene di tutto e andarmene quando la osservai meglio e, accorgendomi che faticava a reggersi in piedi, imprecai e mi diressi verso di lei con tutta l'intenzione di portarla via da lì.

Mi feci largo tra la gente ammassata, spintonando con forza prima di vedermela trascinare via da sotto il naso verso l'uscita. Trassi un profondo respiro e li seguii imponendomi di trattenermi ma quando fu logico che le loro intenzioni fossero tutt'altro che buone, mi bastò sentire le sue lamentele per non capire più nulla. Conoscendo la gente con cui avrei avuto a che fare: l'effetto sorpresa era l'unica soluzione se volevo evitare che qualcuno si facesse male o meglio che Vivienne si facesse male perché non avrebbero esitato un secondo a usarla, così agii, applicando le tecniche per cui ero stato addestrato e in pochi minuti furono fuori gioco senza che si fossero nemmeno resi conto di cosa o meglio di chi li avesse colpiti. Con il respiro pesante, alzai gli occhi su Vivienne che mi scrutava perplessa senza capire se fosse tutto reale o un'allucinazione. Spostò lo sguardo sui due uomini distesi a terra, per poi alzarlo su di me incredula. L'afferrai per un braccio e la trascinai via prima che riprendessero conoscenza. Si lasciò tirare senza storie, camminando malferma sulle sue stesse gambe e dovetti impormi di non prenderla in braccio perché si meritava il peggio per il suo comportamento. La caricai in auto e guidai fino a casa, per poi parcheggiare e farla scendere reggendola per le braccia. La tirai verso il portone, poi mi voltai in fretta e mi piombò addosso senza neanche rendersene conto. Ci fissammo negli occhi e lei mi scrutò con attenzione. «Mi dispiace», disse. Corrugai la fronte e sentii la rabbia scemare ma fu solo per pochi attimi perché poi scoppiò a ridere. Serrai la mascella e la trascinai all'interno dell'edificio. «Avresti dovuto vedere la tua faccia, Walker.» La ignorai ma, da ubriaca qual era, non era consapevole di quando fosse il momento di stare zitta. «Sei proprio cotto.» Lo disse in un modo che mi disarmò: quasi come se le facesse male ammetterlo e il vuoto si propagò dentro di me.

Salii le scale con lei dietro che incespicò in un gradino sì e uno no, facendomi imprecare. Entrammo nell'appartamento e la prima cosa che fece fu sdraiarsi di peso sul divano. Alzai gli occhi al cielo e mi avvicinai, cercando di farle cambiare idea e andare a letto ma sembrava irremovibile sulle sue idee. «Perché dovrei venire a letto con te?» Sospirai seccato dal tempo che avrei dovuto perdere per cercare di gestirla. «Vuoi ancora godere di me?» sorrise maliziosamente e, guardandola, mi chiesi chi me lo facesse fare di stare qui, davanti a lei a prenderle, poi la risposta venne fuori con così tanta naturalezza da stordirmi. «Tanto non sei molto diverso dagli altri: mi vuoi? Beh, mi hai avuta. Ora non ti resta che aspettare un po' di tempo e la voglia passerà, così come è arrivata.» Si distese e cercai di capire che cosa le fosse preso da ridursi così senza trovare la risposta e forse non l'avrei mai neppure trovata. Mi limitai a fissarla, ragionando sul da farsi. «Jon?» Ogni volta che pronunciava il mio nome il mio stomaco si contorceva in risposta. Mi avvicinai già dimentico di quanto aveva sputato fuori dalla sua bocca tentatrice. «Mi credi una persona così crudele? Credi che non abbia cuore?»

Inspirai a fondo, poi dissi: «No, Vivienne. Credo che tu abbia il talento per sopravvivere qualunque cosa ti succeda.» 

Mi studiò e sembrò quasi che fosse ritornata sobria dall'attenzione che mi aveva rivolto. «Grazie. Senza di te non so neanche dove sarei adesso.» Le sue parole mi colpirono e mi avvilirono in contemporanea: era ubriaca a non sapeva quello che stava dicendo. Temevo infatti che si sarebbe lasciata scappare qualcosa che non voleva e l'indomani si sarebbe dissolta come neve al sole, così provai a farla smettere ma non c'era verso perché era persa nei meandri della sua mente. «Dovrei esserci caduta io sul fondo di quel dirupo, non Spencer.» Il sangue mi si gelò nelle vene e non seppi che cosa dire, o meglio non trovai le forze per dire nulla: mi ero trovato davanti a un bivio e scegliere non era affatto facile ma, contro ogni logica, lo avevo fatto ed era questo a scombussolarmi. Avevo scelto lei. «Non è il mio posto questo e non c'è nulla che non me lo ricordi. Non appartengo a questa vita, Jon» sussurrò. 

Mi presi un attimo. La guardai. «Non si appartiene a nessun luogo, Vivienne. Si appartiene solo ad una persona e un giorno forse finirai per ammetterlo con te stessa», le dissi. «E probabilmente mi piace pensare che sarà il sottoscritto.» 

Mi fissò. Diverse emozioni attraversarono i suoi occhi. «Io non posso stare con te» mi prese in contropiede. «Non posso. Non ne sono in grado. So tirare fuori il dolore in un unico modo: restituendolo.» Lo disse con un'amarezza da spiazzarmi. «È questo che vuoi? Perché nessuno lo vorrebbe.» Esitai e lei fraintese, mentre non potevo fare a meno di pensare che lo volevo eccome. Perché per lei lo avrei fatto, qualsiasi cosa comportasse. Stavo per dirglielo, quando mi persi ad ammirarla mentre era sdraiata sul divano e con gli occhi chiusi. Credetti che si fosse addormentata quando parlò nuovamente. «Ero seria per Arthur: te l'ho chiesto solo perché so che di te mi posso fidare. Mi ha detto che l'ultima volta hai solo fatto il tuo dovere e questa è una di quelle. Non c'entriamo noi, riguarda solo Arthur: è un ostacolo come un altro, perché non riesco a pensare ad altro in questo momento.» 

A parlare sembrava quasi che non avesse bevuto un goccio ma in realtà le si era sciolta la lingua e le barriere erano scese. Era quello che avevo sempre voluto ma non così, non quando non era lei a parlare.

Restò in silenzio per i minuti successivi e aspettai un segnale o qualsiasi cosa mi avrebbe fatto capire che cosa si aspettasse che facessi. E stavo per arrendermi, quando notai una lacrima scendere dai suoi occhi e mi allarmai non sapendo dove fossero diretti i suoi pensieri o su che cosa. Cercai di fare finta di nulla ma quando si moltiplicarono, non riuscii più a starmene zitto perché riuscivo a sentirle sulla mia stessa pelle quasi come se fosse la sua. La chiamai, sfiorandole un braccio ma si scostò come scottata. Ferito dal suo rifiuto, le diedi le spalle, appoggiandomi al divano di schiena. Restai ma commisi un errore perché sarei dovuto correre a chiudermi nella mia camera per non sentire quello che uscì dalla sua bocca poco dopo. «Hai detto una cosa giusta prima: io continuo a sopravvivere qualunque cosa accada e tu non hai idea di quanto le tue parole siano veritiere.» Non mi voltai perché se lo avessi fatto, mi sarei rispecchiato nei suoi occhi e vi avrei letto quello che più temevo. «Me la caverò sempre e lo sai perché? Perché non provo emozioni Jonathan, o perlomeno non quelle giuste.» Mi tradii, voltandomi perplesso dalla sua affermazione e credetti che non fosse seria: era impossibile non provare nulla. Le avevo letto negli occhi le mille emozioni che l'attraversavano ogni volta che posavo lo sguardo sul suo volto, solo che forse non era in grado di riconoscerle. «È come se sapessi che c'è un mondo che mi circonda ma non me ne fregasse nulla.» 

«E riesci a vivere così?» chiesi.

«Sì, ci riesco...» la sua esitazione mi fece tremare al solo pensiero di quello che sarebbe venuto dopo, cambiò espressione così come tono di voce. «Ero solita giocare con mio fratello: adoravo farmi imprigionare, era il mio gioco preferito e non m'interessava se poi venivo salvata o meno ma quel giorno.... non ricordo molto in realtà, ma lui era solito esercitarsi a fare nodi su di me e quel maledetto giorno lo avevo convinto a mettermi la corda attorno al collo e credo anche a stringerla stretta. Solo che lui la strinse molto stretta. Era solo un gioco tra bambini... ma lo stesso non se l'è mai perdonato», disse, come se non ci fossi. «Sono svenuta perché non ricordo nulla di quel momento, solo il buio che mi ha avvolto. Ero quasi morta o lo sono stata per pochi minuti ma è stata una cosa surreale perché mi sono trovata in un altro posto, tipo in un'altra città, in un'altra epoca e con un'altra famiglia che mi amava. Sono vissuta con loro per molti anni, sono cresciuta con loro... sembrava che questa vita fosse stata un brutto e terribile sogno.» Una morsa mi stritolò il petto nell'immaginare che cosa avesse passato. «E poi mi sono risvegliata a casa, sul tavolo della cucina. Mio padre mi aveva rianimata, ero tornata indietro. Cinque minuti dopo, ma ero stata via per anni.» Dei brividi mi percorsero la pelle. «È successo veramente e vuoi sapere qual è la parte più strana?» Volevo urlare di no ma non lo feci e me ne pentii amaramente. «Quando sto con qualcuno fisicamente, in un certo senso riesco a rivedere tutto questo.» Sentii il vuoto propagarsi dentro di me e mi girai. Fissai un punto indefinito. L'unico rumore che ci accompagnò fu solo quello dei nostri respiri. «Ma la cosa a mettermi più in difficoltà: è il fatto che con te non sia successo.» Il mio cuore smise di battere per qualche secondo e la sentii muoversi dietro di me, così mi voltai e la trovai girata su un fianco e con gli occhi chiusi, rannicchiata su sé stessa. «Mi piaci davvero, Jonathan» bisbigliò e lasciai che le sue parole mi cullassero nella solitudine in cui mi aveva lasciato visto che, dopo poco, si era addormentata. L'osservai frastornato, le scostai i capelli dal viso e rimasi a guardarla, riflettendo su come affrontare le rivelazioni che mi aveva appena fatto.

Che cosa avevi vissuto, Vivienne?

Non ne avevo idea ma saperne una buona parte mi aiutava a mettere le cose nella giusta prospettiva. Non era qualcosa che si sentiva tutti i giorni e sentirlo da lei mi aveva lasciato addosso un'eccessiva amarezza che difficilmente sarei riuscito a mandare via. Me la immaginai da bambina e sentii il mondo crollarmi addosso perché la paragonai subito a mia figlia e se le fosse capitato quello che aveva vissuto lei, avrei ammazzato chiunque le avesse fatto del male: non m'importava se fosse sangue del suo sangue perché, in un modo o in un altro, gli avrei fatto patire le pene dell'inferno.

***

A metà mattina entrai in centrale con Vivienne al seguito e sentii la schiena dolermi per la posizione in cui mi ero addormentato visto che, senza neanche accorgermene, ero crollato al suo fianco e ora ne portavo il peso.

Quando si era alzata, si era mostrata indifferente e non dimentica della notte appena passata visto che aveva evitato l'argomento agilmente. Non si era sbilanciata e non ci eravamo rivolti la parola solo per lo stretto necessario.

La Rupert poi mi aveva mandato un messaggio assurdo dove mi chiedeva di recuperare la signorina Cataldi e di portarla in centrale e sinceramente non avevo saputo che pensare ma quando entrammo nell'ufficio adibito per l'occasione, lo scoprii e non fu per niente piacevole. «Signorina Cataldi, l'abbiamo convocata qui per chiedere la sua collaborazione.» Protestai contrariato ma non fui calcolato di striscio, così mi concentrai su Vivienne che sembrava star valutando se accettare o meno, lasciando vagare lo sguardo sulla Rupert e sul nostro superiore. «Vogliamo Crawford e crediamo che lei possa essere il lasciapassare per fare in modo che si esponga...» 

Il mio no secco risuonò nella stanza e tutti gli occhi furono su di me: non lo avrei permesso, costi quel che costi. La Rupert mi trucidò con lo sguardo, così come il mio capo che ci studiò confuso. «Non siamo in grado di assicurare la protezione totale a un civile in queste operazioni e lo sapete bene, poi non è di un pivello che stiamo parlando.» 

Rimasero in silenzio indispettiti e aspettai sicuro di me il loro attacco che, però, non arrivò perché l'unica persona che doveva rimanere zitta, non lo fece. «Non c'è problema, in fondo credo che una scelta vera e propria non ce l'abbia...» 

La Rupert sorrise vittoriosa e beffarda. Aspirai tutta l'aria della stanza per cercare di rimanere calmo ma, come al solito, aveva scelto da sola la strada più travagliata: voleva continuare con la sua farsa di nuovo e il solo pensiero mi mandò in bestia perché non potevo accettare che si mettesse in pericolo e che dovesse farsi toccare o soddisfare Crawford in qualsiasi cosa per fargli credere di essere dalla sua parte. La rabbia mi attraversò, così come la gelosia e sapevo, al cento per cento, che sarei impazzito nel ripensare ai bei momenti che avevamo passato insieme e che sembrava propensa a voler rovinare a qualsiasi costo e a infangarli con tutto questo schifo.

La fissai a lungo ma lei evitò di proposito il mio sguardo per tutto il tempo, rimanendo concentrata sulle altre due persone presenti nella stanza e così capii quali fossero le sue intenzioni. Alzai sugli altri due infami a cui non importava minimamente se questa donna sarebbe morta o chissà cos'altro per mano di quello psicopatico ma d'altra parte se avesse voluto sempre remarmi contro, allora questa volta l'avrei lasciata fare. Ne avevo le tasche piene. «Non ho dubbi che la signorina qui presente ci riuscirà, quindi con il vostro permesso mi ritiro.» Mi voltai e, dopo averle gettato un'ultima occhiata, me ne andai: guardandola, i suoi occhi sembravano quasi gridarmi di non farlo, ma le sue azioni non facevano altro che esprimere il contrario e allora le avrei fatto seguire la sua strada.

Voleva sfidare la sorte? Era libera di farlo ma senza di me perché prima me ne distaccavo, meno avrei sofferto se questa storia si sarebbe rivelata una tragedia e, per come si stavano ponendo le cose, temevo che questa fine sarebbe stata inevitabile. Così attraversai il corridoio e mi chiusi nel mio ufficio per impedirmi anche solo di ripensarci o di lasciarmi trascinare nei suoi casini. Mi accesi l'ennesima sigaretta e sospirai deluso.

Perché non si lasciava aiutare? Perché non si lasciava aiutare da me? 

E la risposta non fece altro che demoralizzarmi ancora di più perché ero ritornato al punto di partenza senza neanche rendermene conto. Credevo di essere riuscito a entrarle dentro, così come aveva fatto con me ma mi ero solo illuso e forse era arrivato il momento che me ne facessi una ragione: non sarebbe mai stata pronta, non per me almeno.

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