Capitolo 27 - Follia Pura

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Mi sollevai a sedere e, sentendo il mondo girare, portai una mano alla tempia ad arginare la forte emicrania che mi aveva colpita. La spossatezza che mi avvolse mi tramortì. Il vuoto si propagò dentro di me nel ricordare la notte appena passata e il casino che avevo combinato. Mi portai una mano sulla bocca nel realizzare quello che mi ero lasciata scappare e la consapevolezza di essere finita in un grosso guaio mi avvolse; perché non doveva succedere, non con Jonathan.

Era un agente, porca miseria! Potevo scommettere che se fosse venuto il momento di scegliere tra me e il suo lavoro, quest'ultimo avrebbe vinto su tutta la linea. Era stato un errore.

Sospirai e provai a riflettere in fretta per trovare una soluzione prima che finissi per fregarmi con le mie stesse mani. I ricordi però dei momenti passati insieme, non volevano saperne di non riaffiorare e così, inevitabilmente, mi sentii ancora più confusa sul da farsi.

Dovevo davvero rinunciare a lui? La risposta fu talmente ovvia che l'accettai, arrendendomi all'evidenza.

Mi alzai e andai a chiudermi in bagno. Quando ebbi finito, mi recai in cucina trovandolo seduto a fumarsi una sigaretta. Mi sembrò quasi che mi stesse aspettando e inevitabilmente il mio battito accelerò.

Mi augurò il buongiorno e ricambiai fredda, dedicandomi alla mia colazione, anche se era l'ultima cosa che volevo fare ma avevo bisogno di distrarmi dal suo sguardo insistente. Preparai il caffè e nell'attesa evitai d'incontrare i suoi occhi, approfittandone per ritrovare la ragionevolezza e per fare chiarezza su quanto era avvenuto, anche se con qualche difficoltà. I ricordi frammentati di quanto avvenuto al locale erano confusi ma, di sicuro, non mi sarei scusata perché era lui quello che se n'era andato la sera prima, lasciandomi da sola nel suo letto.

L'orgoglio era una brutta bestia ma non ci avrei rinunciato per nulla al mondo, soprattutto se farlo avrebbe significato dargliela vinta.

«Come ti senti?» mi chiese con indifferenza e con la stessa gli risposi.

«Sottosopra.» Mi appoggiai alla cucina, sorseggiando il caffè che mi ero preparata. Rimirai la tazza che avevo tra le mani, per poi alzare lo sguardo su di lui. «Non ricordo molto, ma quel poco che rammento basta per dirti di non dar credito a quanto ho detto. Quando bevo, parlo a sproposito.»

Mi fissò in silenzio, fece un tiro. Prendendo tempo. «Non è l'impressione che ho avuto.» 

Il mio cuore perse un battito e lo studiai guardinga, non credendo alle mie orecchie: ovviamente non se l'era bevuta. Sorrisi amaramente, distogliendo lo sguardo e, dopo un attimo di esitazione, me la filai andandomi a vestire.

Lo sapevo che non avrebbe mollato e che non si sarebbe lasciato prendere in giro ma almeno speravo che il tatto non gli mancasse dato che non era qualcosa di cui mi era facile parlare.

Dopo essermi vestita, ritornai da lui con tutta l'intenzione di andarmene dal suo appartamento il più in fretta possibile per evitare che mi ponesse altre domande ma quando me lo trovai davanti, se ne uscii con qualcosa d'inaspettato. «Dobbiamo andare in centrale, ti vogliono parlare.»

«Riguardo a che cosa?» 

«Non ne ho la più pallida idea ma scommetto che lo scopriremo presto.» Mi guardò, mentre io sentii l'ansia crescere dentro di me nell'immaginare i possibili scenari che avrebbero avuto luogo quando avrei messo piede in uno dei loro uffici. Jonathan mi guardò vedendomi distratta. «Vivienne, ci andremo insieme» provò a rassicurarmi. «Lascia parlare me e ti prometto che non ti costringeranno a fare nulla.» 

Ce ne andammo e una volta in strada, ci avviammo verso la sua auto. Nel tragitto la sua mano inaspettatamente sfiorò la mia schiena, scatenandomi emozioni contrastanti e la maggior parte poco caste nel ricordare il tocco con cui si era dedicato alla sottoscritta prima che rovinassi tutto con la mia trovata.

Quanto avrei voluto tornare indietro ed essere di nuovo tra quelle lenzuola, tra le sue braccia, ma ormai era tardi.

Notai solo dopo che Jonathan aveva abbassato lo sguardo su di me curioso di dove fossero diretti i miei pensieri visto che mi ero fermata in mezzo alla strada e, dopo una lunga e intensa occhiata, salimmo in auto e ci dirigemmo verso la centrale. Speravo con tutta me stessa che il viaggio si sarebbe svolto in silenzio ma Jonathan non fu della mia stessa idea e infatti, poco dopo, lo interruppe. «So che non ne vuoi parlare ma credo che dovremmo farlo.» 

«Se lo sai, allora non vedo perché dovremmo», dissi. 

«Perché ti posso aiutare, a dispetto di quanto tu credi» mi rimproverò, contrariato.

«Non ne voglio parlare e non riuscirai a farmi cambiare idea.»

«Non vuoi parlare del tuo passato? Ok. Allora parliamo di noi.» Mi voltai verso di lui scossa dalla sua affermazione. Noi? Una sorta di panico mi colse ma resistetti dal rispondergli, restando in silenzio. «Non so come comportarmi con te: abbiamo condiviso qualcosa, sono stato sincero ieri sera... mi piacerebbe che tu facessi lo stesso.» 

«Lo sono stata, ma non riesco a capire che cosa pretendi da me. Che cosa ti aspetti che faccia?» domandai.

«Non posso dire lo stesso visto che ieri sera sei stata piuttosto chiara su che cosa ti aspetti dal sottoscritto» ribatté.

Lo fissai innervosita dal suo riferirsi alla mia richiesta e mi seccò il fatto che dovesse tirare fuori di nuovo il coinvolgimento di Arthur. «Che problema hai con lui?» 

Gli scappò una risata amara. «E me lo chiedi anche?»

«Possiamo parlare d'altro o meglio non parlarne affatto? Direi che abbiamo altri problemi adesso, no?» 

Serrò le mascelle, per poi annuire seccato, fingendo di darmela vinta. Mi sistemai meglio sul sedile e attesi di arrivare a destinazione.

Una volta entrati nell'edificio, lo seguii per i lunghi corridoi e quello che successe dopo fu talmente rapido che ancora non mi capacitavo di quello che avvenne: la Rupert era nell'ufficio insieme a un altro uomo che gettò subito un'occhiata di adorazione verso Jonathan, vedendolo entrare, e quando esposero la loro richiesta non me ne meravigliai perché era quello che immaginavo mi avrebbero chiesto, così come non mi sorprese la reazione di Jonathan che si era irrigidito notevolmente nel sentirla. Non mi stupii il suo no secco che risuonò nella stanza e purtroppo non mi stupì nemmeno la risposta che diedi io stessa poco dopo. Sapevo di non avere scelta, sapevo di non poter negare la mia collaborazione e sapevo che Jonathan mi avrebbe odiata perché me lo aveva detto espressamente a casa sua di lasciar parlare lui ma, come al solito, avevo seguito il mio istinto: in fondo volevamo tutti la stessa cosa, ovvero liberarci di Crawford.

Non mi sfuggì il sorriso vittorioso della Rupert, così come non mi sfuggì l'occhiata che mi rivolse Jonathan nel sentire che accettavo: mi fissò per lunghi attimi e le parole che pronunciò poco dopo mi ferirono ma d'altra parte me l'ero cercata, come sempre. Mi stava abbandonando nelle mani di questi due estranei, se ne stava lavando le mani, e quando mi passò a fianco per andarsene, non riuscii a non incontrare i suoi occhi e la tempesta che vi lessi mi fece tremare. Lo sapeva anche lui che non c'era scelta e lo sapeva che non poteva esporsi, come invece sembrava voler fare in continuazione da quando mi aveva conosciuta e non era sfuggito nemmeno all'uomo nella stanza il piccolo teatro che la Rupert aveva voluto inscenare.

Peccato che Jonathan glielo avesse permesso e se lo avessi lasciato parlare, forse sarebbe finito nei guai e, a dispetto del casino in cui mi ero cacciata, non era quello che volevo. Non per lui almeno.

Dopo poco, mi congedarono e me ne andai. 

In fondo non c'era più nulla da chiedere, visto che la trappola era stata creata apposta per Jonathan e lui ci era caduto dentro senza neanche rendersene conto.

Nel farlo, passai davanti al suo ufficio e lo avvistai seduto dietro la sua scrivania intento a guardare il computer. Mossi qualche passo in quella direzione, poi m'impedii anche solo di proseguire. Strinsi le mani a pugno e mi avviai verso l'uscita con tutta l'intenzione di tornarmene a casa mia: il luogo in cui sarei dovuta restare fin dall'inizio.

Una volta arrivata, entrai e, guardandomi attorno, trovai lo stesso identico casino che era rimasto da quando mi avevano trovata inerme e, pensando agli ultimi avvenimenti, ricordai che era da allora che non avevo visto Arthur. All'ospedale era venuto, o almeno era quello che mi avevano detto, ma non avevo fatto in tempo a vederlo e dovevo trovare il coraggio di parlarci prima che fosse troppo tardi.

Sistemai la casa con mille pensieri che mi frullavano in testa e attesi che James si rifacesse vivo. Aspettai, cercando di occuparmi il tempo in qualche modo, anche perché ero rimasta senza lavoro e così lo scorrere delle giornate si fece più lento. L'unica compagnia fu quella del gatto che sembrò godere e parecchio di riavermi a casa. James non si fece vivo, così come Jonathan, e per ovvi motivi non riuscii a pensare ad altro che a quest'ultimo; ebbi così il tempo di comprendere che in centrale fosse stato davvero serio: non voleva avere più niente a che fare con la sottoscritta. Cercai di farmene una ragione come per tutte le cose che erano solite succedermi e andai avanti da sola, cancellandolo dalla mia mente. Almeno fino a quando due settimane dopo non feci gli esami del sangue per una delle solite routine mensili e la vita mi tirò uno scherzo che mi sconvolse senza precedenti. Erano bastate due parole per cambiarmi totalmente prospettiva e la vita stessa: lei è incinta, signorina Cataldi. Dire che il mondo mi crollò addosso fu poco, il panico mi colse per il terrore che potesse essere di James o anche solo di Patrick ma, in realtà, la scoperta fu ancora più sconvolgente quando scoprii essere di Jonathan perché era di due settimane esatte.

Non ricordai praticamente nulla del tragitto verso casa dopo la visita medica, l'unica cosa che rammentai fu la paura per qualcosa che non ero in grado di fare o di essere: non potevo essere madre. Non potevo e non ne sarei mai stata in grado perché a malapena riuscivo a prendermi cura di me stessa, figurarsi di un bambino.

Aspettavo il figlio di Jonathan Walker: non sapevo se essere più scioccata dalla scoperta di avere un figlio o di avere un figlio proprio da lui a tramortirmi totalmente. Non avevo la più pallida idea di cosa fare in questo momento ma l'unica cosa certa era che non glielo avrei detto perché, conoscendolo, avrebbe preteso da me qualcosa che non ero in grado di dargli. 

Quando arrivai a casa, mi accorsi di una figura sulla porta intenta ad aspettarmi. Capii subito di chi si trattasse e sentii il battito accelerare, così come sentii l'ansia pura e semplice avvolgermi. Lasciai che mi guidassero le mie gambe perché altrimenti sarei scappata il più lontano possibile se avessi seguito la mia mente e quando mi ci trovai a pochi metri di distanza, mi scrutò in silenzio. Feci lo stesso, trattenendomi dallo sputargli in faccia, e infilai una mano in borsa alla ricerca delle chiavi mentre lui mi fissava attento per vedere quale sarebbe stata la mia mossa ma quando capii che non avrei né dato di matto né chiamato la polizia, si rilassò. Peccato che io invece fossi un fascio di nervi e infatti quando mi afferrò per un braccio, resistetti dal sottrarmi fulminea.

Entrammo in casa e mi mollò poco dopo per addentrarsi verso il soggiorno mentre io, senza sapere che cosa fare, lo seguii. Mantenni sempre lo sguardo su James e lo studiai diffidente, soprattutto quando notai un sorriso impertinente comparire sulle sue labbra. «Mi hai incastrato fottutamente bene, Vivienne.» La calma che voleva mostrare m'inquietò più della rabbia che cercava di nascondere con tutto sé stesso. «Hai ricordato e questa è stata la tua risposta. Devo ammettere che sono sorpreso dalla tua... intraprendenza. Vogliamo chiamarla così?» Deglutii senza rispondergli, non capendo che cosa ci trovasse di così divertente. «Ho i poliziotti alle calcagna ma confido che ritirerai la tua deposizione, dico bene?»

Presi coraggio e con voce ferma, risposi: «Possiamo sempre accordarci.» Rise. «Hai detto di voler stare al mio fianco come ai vecchi tempi o mi sbaglio? Te lo concedo, ma non azzardarti mai più a toccarmi o giuro su Dio che la mia faccia sarà l'ultima che vedrai» affermai con tutta la rabbia repressa che avevo in corpo. 

Si alzò e mi raggiunse, facendomi irrigidire perché non sapevo che cosa aspettarmi. Mi prese per le spalle e lo guardai innervosita dalla sua invadenza mentre si calava a darmi un bacio innocuo sulla fronte. «Hai la mia parola e la manterrò quando avrai ritirato le accuse.» 

«Sei un maledetto bastardo.» Lo spintonai furiosa per togliermelo di dosso, affrettandomi a fuggire e a chiudermi in camera. Mi appoggiai alla porta e sbuffai delusa. Sentii la sua presenza al di là della porta e automaticamente m'irrigidii.

«Lo sai che amo giocare con te, Vivienne.» La nausea mia avvolse. «Stavo scherzando... se è quello che vuoi, non ti toccherò, non in quel senso almeno.» Scossi la testa alla sua macabra ironia, anche se non poteva vedermi. «Apri la porta, dai.» Non risposi, cercando di ragionare con calma su quale sarebbe stata la mia prossima mossa ma quando qualcuno suonò alla porta, persi qualche battito, temendo il precipitare inevitabile della situazione. Siccome non risposi, quel qualcuno bussò per poi chiamarmi a gran voce e mi ghiacciai sul posto nel sentire la voce di Arthur, così istintivamente aprii la porta trovandomi davanti James. «Mandalo via, non vorrei dovergli cambiare i connotati.» La paura mi avvolse. «Fagli capire che non deve più tornare, non hai più bisogno di lui adesso.» 

Lo guardai come se avesse parlato un pazzo prima di avviarmi verso la porta e, dopo averla aperta, mi trovai davanti un Arthur evidentemente nervoso. Mi guardò, scandagliandomi dalla testa ai piedi con dovizia, mentre cercavo di capire come fare per mandarlo via senza che si accorgesse di James. Non mi chiese di entrare e non glielo proposi. «Come ti senti?» chiese. Gli dissi che stavo bene. «Mi dispiace non essere passato in ospedale» mi sorprese e lo guardai confusa dalla scoperta appena fatta. Lo tranquillizzai subito per evitare di dilungarci in un discorso scomodo per entrambi, anche se lui sembrò di tutt'altro avviso. «Ero ancora abbastanza sconvolto...» 

Alzai una mano per fermarlo, affrettando così il motivo della sua visita. «Perché sei qui, Arthur?» domandai. Mi sfiorò il livido che era ancora evidente sulla guancia, m'irrigidii prima di spostarmi. Indietreggiò ferito, per poi spiegarmi il motivo della sua visita. «Mi lasciano andare, sembra che non gli serva più per le indagini.» Una sola parola: Jonathan, sentii il mio cuore fermarsi e colmarsi di gratitudine. Compresi così che Arthur fosse venuto per salutarmi perché, ahimè, se ne stava andando ma era la cosa migliore. «Partiamo domani, mi permettono di riiniziare con una nuova identità in un paese vicino alla costa. Credo sia perfetto per il bambino.» Gli occhi mi diventarono lucidi. «Riuscirai a cavartela da sola?» chiese. Un nodo mi strinse la gola e annuii con debole determinazione, mentre Arthur mi si avvicinava per far apparire le sue parole più convincenti. «Lo prenderanno, vorrei poterti dare una mano ma ho delle altre priorità adesso.»

Il vuoto si propagò dentro di me e cercai di mascherare la ferita che mi aveva appena provocato. «Fammi avere il tuo recapito quando ti sei sistemato.» Acconsentì. Si allontanò pronto ad andarsene ma non aveva fatto nemmeno pochi passi che si voltò verso di me. «Se ti servirà qualcosa, fammelo sapere.» Mi serve ora ma non glielo dissi, permettendogli così di andarsene. «Sei una delle persone più importanti per me... e mi dispiace che le cose siano dovute andare in questo modo. Meritavi di meglio.» 

Ci guardammo a lungo. Non dissi niente, non ricambiai, lo guardai solo andarsene così com'era venuto. Richiusi la porta e mi ci appoggiai contro, dimenticandomi dell'ospite non gradito che mi aveva imposto la sua presenza con la forza all'interno della mia casa e che non avrei sopportato ancora a lungo. «Molto toccante.» Fissai James con odio ma sembrò non curarsene, anzi la mia espressione sembrò divertirlo e parecchio. Mi si avvicinò e, trovandomi senza via d'uscita, finii per essere intrappolata dalla sua mole e, alzando gli occhi sul suo viso, cercai di non farmi intimorire dal suo sguardo. «Lo odio e tu non immagini neanche quanto, perché è stato al tuo fianco come avrei dovuto fare io.» Il tono della sua voce mi spaventò e quello che pronunciò in seguito ancora di più. «Tradisci la mia fiducia un'altra volta e farò in modo che lui e la sua dolce compagna muoiano nel peggior modo possibile.» Tremai nel sentirglielo dire e insieme alla paura che mi prese alla bocca dello stomaco, si diffuse dentro di me una rabbia cieca che probabilmente non sarei più riuscita a controllare se avrei continuato a stare al suo fianco.

«E tu tradisci la mia, toccami o osa solo fare loro del male, e ti prometto che la prima volta che riuscirai a rivedere i tuoi figli sarà dentro una bara.» 

Le mie parole lo scossero tanto che sbarrò gli occhi, fissandomi incredulo. Notai la sua espressione cambiare e in un secondo mi fu addosso e, afferrandomi per il collo, mi sbatté contro la porta. Avvicinò il suo volto a pochi centimetri dal mio con gli occhi fuori dalle orbite e furioso oltre ogni limite. «Fai un grosso errore a minacciarmi.» Strinse maggiormente, facendomi mancare l'aria, poi mollò la presa, ritrovando la lucidità. «Ma siccome sei tu posso fare un'eccezione.» Lo guardai senza abbassare lo sguardo. «Nessuno che l'abbia fatto è sopravvissuto fino al giorno dopo per poterlo raccontare.» Lo spintonai per togliermelo di dosso ma non si spostò di una virgola e quando notai un sorriso sinistro comparire sul suo volto, sentii l'ansia salire dentro di me e quello che aggiunse poco dopo mi uccise nell'animo. «E il tuo caro professore ne è un esempio.» 

Sentii mancarmi l'aria e il panico mi colse nell'avere la conferma di quanto temevo.

Aveva ucciso Patrick.

Le mani mi tremarono in risposta, così come faticai a reggermi sulle mie stesse gambe. Non feci in tempo a chiedergli nulla o anche solo ammazzarlo con le mie stesse mani per quello che era stato capace di fare che la porta si aprì e James si trovò addosso quello che identificai, dopo diversi attimi di stordimento, essere Arthur. Quest'ultimo lo colpì così forte da tramortirlo, per poi caricarlo subito dopo ma quando James rialzò lo sguardo, notai del sangue denso colargli giù dal mento e un sorriso sarcastico sulle sue labbra come se non aspettasse altro, ovvero l'occasione per massacrarlo e il terrore mi attraversò. Mi spostai per non farmi travolgere mentre i due si azzuffavano e, anche se inizialmente la situazione sembrò a favore di Arthur, in pochi secondi si ribaltò e James finì per prevalere. Lo stese con un colpo alla nuca e Arthur perse la sua pistola che volò a metri di distanza. Gli urlai di smetterla ma James sembrava non volermi dare ascolto. Non mi sfuggì il coltello che tirò fuori e che non aveva esitato un secondo a puntare contro mio fratello. Una fitta allo stomaco mi risvegliò dallo stato di trance in cui ero caduta. Istintivamente mi portai una mano all'addome, ricordandomi della lieta notizia che avevo avuto in giornata e la mia condizione mi fece esitare dal prendere l'iniziativa, poi corsi a raccogliere la pistola e gliela puntai contro.

Quando James sentì scattare la sicura, si voltò verso di me senza mollare la presa su Arthur che mi guardò preoccupato per quanto la sua condizione lo permettesse. James mi scrutò divertito, sapendo che non avrei di certo sparato visto che teneva sotto tiro mio fratello ma, ancora una volta, lo sorpresi. «Lascialo andare e allontanati da lui.» Il suo respiro si era fatto accelerato per lo scontro e mi sorrise come per dimostrarmi che non avrebbe mai obbedito alle mie parole, così per apparire più convincente mi puntai la pistola contro e lui si perse a scrutarmi con attenzione mentre Arthur mi guardava allarmato. James distolse a fatica lo sguardo da me per ritornare concentrato su Arthur e finire quanto iniziato, così mi ritrovai a improvvisare e nel peggior modo possibile perché persi la poca dignità che mi era rimasta, usando l'unica cosa pura che mi era stata donata e che era frutto del rapporto con l'unico uomo per cui sentivo di provare qualcosa dopo tantissimo tempo. «Sono incinta! Se non vuoi che spari a tuo figlio, lascialo andare via!» si voltò verso di me sorpreso da quanto avevo detto e guardò la pistola che tenevo ancora puntata verso di me. «Non ci darà fastidio, te lo garantisco. Se ne stava andando e non tornerà mai più.» Diressi i miei occhi in quelli di Arthur severa per l'iniziativa che aveva avuto ma lui sembrava sconvolto dalle parole che avevo appena pronunciato per accorgersene. 

James lo lasciò, per poi spintonarlo con forza verso l'uscita. Mio fratello incespicò nei suoi stessi piedi e si raddrizzò, alzando lo sguardo su di me. Vi lessi qualcosa che non mi piacque per niente, così distogliendolo dal suo, gli dissi di andarsene. Mi costò fatica e me ne costò ancora di più non corrergli dietro quando sentii la porta chiudersi dietro di me e i suoi passi allontanarsi: non era un addio ma aveva finito per assomigliarci molto.

Ero talmente in trance da tutta la situazione che mi accorsi troppo tardi che James mi aveva già raggiunta e, dopo avermi sottratto la pistola, se la infilò nella cintura dei pantaloni. Si calò a darmi un bacio sullo fronte e mi strinse tra le sue braccia che mi trasmisero tutto il gelo e la paura che mi assillavano da quando era ricomparso nella mia vita. Mi tesi e lui in risposta mi strinse maggiormente a sé, mentre gli avrei voluto solo urlare di andarsene e di levarmi le sue mani di dosso. «Avremmo davvero un figlio tutto nostro? Un nuovo inizio...» era malato e ne ebbi la conferma tanto che non ascoltai più le assurdità che stavano uscendo dalla sua bocca. Appoggiò la sua testa alla mia, il suo odore m'invase e tutti i ricordi riaffiorarono prepotentemente. «Saremo una famiglia, quella che non siamo mai riusciti a essere. Te lo prometto.» 

Chiusi gli occhi terrorizzata dalle sue parole e paralizzata dal pazzo che non aveva nessuna intenzione di lasciarmi andare. Chiusi gli occhi e mi lasciai trascinare in un mondo lontano, un mondo dove riuscivo a sentirmi al sicuro, lontano dalla pazzia e dalla follia di coloro che mi circondavano.

Mi risvegliai nel mio letto con James al mio fianco che mi scrutava riflessivo. Mi voltai, dandogli le spalle e tornai con il pensiero a quanto era avvenuto poco prima: avevo commesso un azzardo ma sapevo che non mi avrebbe toccata se credeva che aspettassi un figlio da lui. Il solo pensiero mi disgustò fino al midollo e la nausea mi colse ma cercai d'ignorarla perché per poter liberarmi di lui avevo bisogno di temporeggiare. Lo sentii avvicinarsi e cingermi da dietro. «Mi prenderò cura di voi» sussurrò, la pelle d'oca mi colpì. «Non hai bisogno di nessuno, ti basto io e ti prometto che ti proteggerò. Non voglio più deluderti e credo che insieme saremo invincibili proprio come allora.» Gli occhi mi diventarono lucidi e avrei voluto urlargli tutti gli epiteti possibili e immaginabili ma invece rimasi inerme a subire e James, vedendo che non rispondevo, si inalberò. «Sei in debito con me, me lo devi.» Il suo tono cambiò e da fintamente premuroso qual era, assunse tutt'altra sfumatura, quella della follia pura.

«Io sarei in debito? Io?» mi voltai per guardarlo, sconvolta. «Fatti un maledetto esame di coscienza e vattene da casa mia.» Mi fissò adirato e si sollevò anche lui, fronteggiandomi dall'altra parte del letto. «Non ti devo proprio un bel niente, semmai è il contrario.» 

Si massaggiò la mascella stressato dalle mie accuse, per poi avvicinarsi a me e ancora una volta istintivamente, senza neanche pensarci, mi portai una mano a proteggere quella piccola nuova vita che purtroppo per lei mi stava crescendo dentro. James portò le mani avanti perché lo lasciassi parlare. «L'ultima cosa che voglio è farti del male, perciò, non costringermi a fartelo.» Gli gettai un'occhiataccia. «Ora devo andare perché non vorrei che tuo fratello avesse fatto qualche sciocchezza ma tornerò appena possibile.» Stavo per rispondergli per le rime, quando mi bloccò. «Fai quello che devi e concedimi un'altra chance», disse. «Voglio provare a fidarmi: ti lascio da sola, non farmene pentire.» Mi prese il volto e me lo strinse in una mano per calarsi a lasciarmi un bacio a stampo sulle labbra. Si staccò e quello che lesse nei miei occhi lo fece sorridere. «Ti passerà, non temere.» La sua affermazione la presi come una minaccia e lo fissai senza lasciar trasparire il disgusto che sentivo crescere in me. Tirò fuori dal portafoglio delle banconote e me le lasciò sul comodino. «Compra quello di cui hai o avrai bisogno.» 

Seguii i suoi gesti apaticamente, per poi guardarlo mentre si rivestiva. Mi strizzò l'occhio e se ne andò fuori dalla stanza, poi dall'appartamento. Attesi di sentire la porta chiudersi, poi mi lasciai andare e liberai tutta la tensione accumulata. Piansi e lo feci così forte che i miei singhiozzi rimbombarono per le pareti di casa. Mi distesi sul letto e mi raggomitolai su me stessa. 

Ore dopo trovai inaspettatamente la forza di alzarmi perché per uno strano scherzo del destino non ero più sola: un esserino innocente si stava formando dentro di me, una piccola creatura che ignorava completamente con che madre avrebbe avuto a che fare. E, pensandoci bene, non potevo fargli un torto simile; non volevo e non avrei mai trovato il coraggio di farlo venire al mondo sapendo che non sarei mai stata in grado di dargli ciò di cui necessitava. Non ero pronta e forse, ripetendomelo, mi sarei sentita meno in colpa per il mio egoismo.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro