Capitolo 29 - Il Sangue Non Ti Salverà

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Jonathan

Era da una buona mezz'ora che si era addormentata e ne avevo approfittato per bearmi del calore del suo corpo, stringendola a me. Inspirai a fondo. Il suo profumo m'inebriò. Le paure emersero: avevo ceduto rivelandole quello che sentivo davvero ed era stato come se mi fossi liberato di un peso. L'amavo e stentavo ancora a crederci, perché amarla sarebbe stata la mia rovina. Vivienne era imprevedibile e ormai lo sapevo piuttosto bene, ma soprattutto non avevo ancora avuto modo di risolvere l'intero casino in cui ci trovavamo né di tenerla al sicuro. E dubitavo fortemente di riuscirci se andavamo avanti di questo passo. Mi trovavo diviso tra la mente e il cuore, tra il lavoro e la donna che mi stava mettendo a soqquadro l'intera vita.

Volevo fidarmi, lo volevo davvero, ma c'erano ancora troppe cose irrisolte tra di noi, da ambe le parti, e temevo che alla più piccola incomprensione sarebbe crollato l'intero castello di carta che avevamo costruito. 

Volevo fidarmi ma era sempre più difficile farlo perché ogni volta che ci provavo qualcosa tornava a galla e con essa anche i ripensamenti. 

Mi distesi supino e ripensai all'incontro avuto con Arthur Cataldi alcuni giorni addietro.

Appena entrai in centrale, lo avvistai seduto davanti a uno degli uffici dell'ingresso e mi avvicinai consapevole del fatto che sarebbe stato meglio non risvegliare un passato burrascoso. Aveva la testa tra le mani e non sembrava per niente in buono stato ma lo stesso non riuscii a desistere dal farmi avanti. Lo chiamai e alzò lo sguardo su di me, fissandomi con occhi vacui. Gli chiesi perché si trovasse lì e, dopo diversi attimi di silenzio, mi degnò di una risposta. «Non credo siano affari tuoi ma se vogliamo fingere di essere due persone normali che intrattengono una conversazione, allora ti direi che finalmente non vedrai più il mio brutto muso: a quanto pare non hanno più bisogno del sottoscritto e sto ancora cercando di realizzare il perché.»

Io lo sapevo bene, eppure non sapevo se fosse giusto dirglielo. Non a questo punto e soprattutto ero più che convinto che non se lo meritasse. «Se fossi in te, non ci penserei troppo: fai i bagagli e lasciati la città alle spalle prima che ci ripensino.»

«C'entri qualcosa? In fondo non sarebbe la prima volta che mi dai una mano.» 

«No» mentii.

«Riformulo meglio la domanda, Walker, c'entra Vivienne?» domandò. Assottigliai lo sguardo e mi tesi nel sentirla nominare. «Te lo chiedo perché sapere che è lei a volere che me ne vada, mi fa sentire meno in colpa dal volerle voltare le spalle.»

«E non sarebbe la prima volta, dico bene Arthur?» 

Mi fulminò con lo sguardo e in pochi secondi era già in piedi pronto a fronteggiarmi. Me lo ritrovai a un passo da me. «Non provocarmi, Walker, perché è tanto tempo che aspetto di poter avere solo uno scusa per metterti le mani addosso.» Ci scrutammo, non perdendoci neanche una mossa l'uno dell'altro. Notai alcuni agenti tenere sotto controllo Cataldi e allora decisi di prendere in mano la situazione, indicandogli il mio ufficio. Esitò, poi mi seguì al suo interno, al sicuro dagli sguardi indiscreti. «Non puoi accusarmi di niente, l'unica che può farlo è Vivienne.»

«E se lo avesse già fatto?» 

Puntò i suoi occhi nei miei incredulo. «Non ti credo, ancora la conosco molto meglio di te.» 

Si sedette sull'unica sedia presente nella stanza e, osservandolo, mi parve tormentato. Mi avvicinai a lui perché le mie parole suonassero più decise. «L'ho trovata distesa e priva di coscienza sul pavimento del bagno, immersa nel suo stesso sangue, quindi te lo chiederò una sola volta: sei stato tu?» Non mi rispose per gli attimi successivi e inevitabilmente la rabbia crebbe dentro di me senza che potessi controllarla. «L'hai trascinata in bagno, l'hai lasciata lì esamine e una volta che ti sei reso conto di quello che avevi fatto, hai chiamato i soccorsi, dico bene?» 

Il suo sguardo perso mi disorientò. «Non hai capito niente» mi accusò. «Credi di sapere tutto, eh? Beh, non hai idea di quanto tu ti stia sbagliando.» Mi preparai a contrattaccare ma quello che aggiunse mi destabilizzò. «Ti credevo più intelligente: ti sta usando e neanche te ne rendi conto. Ti ha usato fin dall'inizio, apri gli occhi. Anche se, da come mi stai guardando ora, deduco che ormai abbia conficcato in te le unghie troppo a fondo.» Strinsi le mani in due pugni per cercare di trattenermi. «Senti, il mio è solo un consiglio ma allontanati da Vivienne prima che sia troppo tardi. È una bomba a orologeria, credevo di poterla gestire ma ho fallito. Credevo in mucchio di cose, tra cui quella di poterla aiutare ma...»

«E' di tua sorella che stai parlando. Come puoi voltarle le spalle così dopo quello che le hai fatto passare?»

«Te lo ha detto?» domandò. «E tu naturalmente credi a ogni parola che esce dalla sua bocca.»

Non ce la feci più e lo afferrai per la maglia adirato. «Dammi una sola ragione per non sbatterti dentro di nuovo.» 

Mi sfidò con lo sguardo e feci lo stesso. «Te ne do diverse: una tra queste riguarda Spencer.» Sorrise divertito dalla mia espressione. «Sai, mi scoccia andarmene; avrei voluto vedere la sua reazione quando avrai le palle di dirglielo.» M'irrigidii ma me ne rimasi in silenzio a incassare. «Non sei l'unico agente bravo nel tuo mestiere qua dentro.» 

Lo spintonai, liberandolo dalla mia presa. «Sparisci dalla mia vista e anche da quella di Vivienne, altrimenti ti farò rimpiangere di essere nato.» 

Rise amaramente, per poi dirigersi verso la porta. «Sei accecato da lei e non riesci a vedere la verità, oppure non vuoi, ma ti farà più male del previsto quando verrà a galla e non dire che non ti avevo avvertito» minacciò. «Non è in grado di amare, Jonathan. La tua è tutta fatica sprecata.» 

Una stilettata mi colpì il cuore e lo guardai andarsene dal mio ufficio. 

Non volevo credere a una sola parola di quello che aveva detto ma i miei timori avevano preso piede senza che potessi far nulla per impedirlo. Era pazzo, non c'era altra spiegazione: non aveva la più pallida idea di chi fosse sua sorella e, dopo la conversazione avuta, ne avevo la certezza. Arthur si sbagliava su Vivienne e glielo avrei dimostrato.

Mi voltai verso di lei, seguendo le linee del suo corpo coperte solamente da un lenzuolo e con convinzione m'imposi di crederci: avevo letto nei suoi occhi lo stesso sentimento che mi attanagliava il cuore e la mente ed ero fiducioso che prima o poi lo avrebbe riconosciuto lei stessa.

Chiusi gli occhi e provai a riposare qualche minuto, cercando di fare ordine tra i miei pensieri ma non erano passati neanche pochi minuti che un rumore mi mise in allarme e, aprendo gli occhi, mi trovai davanti quanto temevo. Spostai lo sguardo dalla canna della pistola puntata contro il sottoscritto al suo volto. «Muovi un muscolo e ti sparo un buco in testa seduta stante.» Non risposi perché l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che Vivienne fosse distesa al mio fianco e così feci l'errore di provare a voltarmi verso di lei. «Non azzardarti nemmeno a guardarla. Riguarda solo me e te, nessun altro, tutto chiaro?» impugnò con maggior decisione l'arma. Dopo attimi di pura tensione, mi trovai ad annuire mentre cercavo di meditare su quale sarebbe stata la mia prossima mossa. «Bene, ora avrei bisogno di farti qualche domanda e mi auguro per il tuo bene che tu voglia essere collaborativo.» Fissai James e capii di essere in grossi guai, perché ormai era chiaro che la follia era diventata il suo marchio di fabbrica. «Hai appena commesso l'errore più grande della tua vita.» Spostò lo sguardo su Vivienne e il terrore che potesse farle di nuovo qualcosa si impossessò di me tanto che non ebbi la minima intenzione di stare disteso a subire e, approfittando del suo momento di distrazione, attaccai il bastardo che non vedevo l'ora di avere tra le mani dal giorno in cui l'avevo trovata distesa in quel vicolo e dopo che era stato capace di farle Dio chissà che cosa.

Vivienne

Sgranai gli occhi e mi sollevai di scatto spaventata dal frastuono che mi svegliò. Il mio battito accelerò oltre ogni limite e mi guardai attorno per capire ciò che stava succedendo: era partito un colpo di pistola e quando vidi James azzuffarsi con Jonathan il respiro mi si mozzò e la paura s'impossessò di me. Jonathan per impedirgli di usare la pistola lo aveva afferrato e con forza bruta lo aveva colpito al volto per provare a stenderlo. Lo lanciò fuori dalla cabina e, dopo essersi voltato verso di me, mi lanciò un'occhiata che non seppi decifrare. Mi allarmai, però, quando capii le sue intenzioni: uscì tirandosi dietro la porta e chiudendomi all'interno. Lo chiamai, urlai il suo nome e, alzandomi, mi diressi di corsa verso la porta della cabina con estrema ansia. Presi a calci la porta e picchiai forte con le mani perché aprisse ma compresi che non lo avrebbe mai fatto.

I rumori di lotta provenienti dall'esterno poi non furono per niente tranquillizzanti e sentii il panico salire. Come aveva fatto a salire sulla barca e a trovarci? E la risposta venne da sola, traumatizzandomi: mi aveva seguita ed ero stata così stupida da averlo sottovalutato che me ne vergognai.

Indossai la prima cosa che trovai, per poi mettere a soqquadro la cabina alla ricerca di un'altra chiave nella speranza che ce l'avesse ma fu tutto inutile. Mi disperai senza sapere più che cosa fare e quando mi giunse dall'esterno un silenzio assordante, il terrore mi avvolse. Sentii scattare la serratura e la porta aprirsi. Sperai di vedere Jonathan ma il mio cuore smise di battere alla vista di James e del sangue di cui si era macchiato. Mi trattenni dallo scoppiare a piangere. Il suo respiro era accelerato, avanzò verso di me e puntò l'arma contro la mia testa. Non mi mossi e non fiatai, lo fissai solamente negli occhi in attesa che decidesse che cosa farne di me. L'unica cosa a cui pensai era che avrei voluto dire a Jonathan che ricambiavo il suo stesso sentimento con tutta me stessa. Lo vidi tentennare e la mano gli tremò, sembrava in guerra con sé stesso e non mi sorprese. Abbassò l'arma sconfitto non avendo il coraggio di farlo, poi me lo ritrovai addosso furibondo con sé stesso e con me. «Ti odio, lo sai vero?» mi premette contro la parete della cabina, impedendomi qualsiasi via di fuga. «Non hai fatto altro che pugnalarmi alle spalle fin dall'inizio.» Non risposi. «Ti ho dato fiducia ed è così che mi hai ripagato.» Mi stritolò talmente tanto che mi mancò il respiro. «È mio?» la sua espressione delusa e ferita mi colpii. «È mio?» mi urlò in faccia. Sorrisi, deridendolo, e a lui non piacque: non avevo paura di lui, poteva benissimo spararmi e non mi sarebbe importato, volevo solo sapere di Jonathan. Mi colpì al volto, stordendomi tanto che i suoni mi arrivarono ovattati. Mi sollevò di nuovo alla sua altezza visto che mi ero piegata su me stessa. «Ti farò pentire di avermi mentito e in modi che neanche t'immagini» mi minacciò. «Colpirò coloro a cui tieni e non andranno di certo incontro a morti indolori, quello è stato un privilegio che ho concesso solo ai tuoi genitori.» Sbiancai. Sentii il cuore andare in mille pezzi. Ora fu il suo turno di sorridere nello scorgere il terrore sul mio volto, anche se ben presto si trasformò in rabbia pura nel sapere che fossero morti per mano sua e non riuscii a fare a meno di incolparmi per le morti che inevitabilmente ci eravamo trascinati dietro. Che mi ero trascinata appresso. «Non hai più nessuno, devi fare affidamento solo su di me. Doveva essere così fin dall'inizio e lo sarà anche adesso. Non sarebbe successo niente di tutto questo se non avessi cercato di sostituirmi. Nessuno di loro poteva capirti ma io sì, entrambi marci dentro: non ci importa di niente e di nessuno ma solo l'uno dell'altro.» 

La nausea mi avvolse per tutto questo schifo tanto che non riuscii più a trattenermi. Lo colpii sul naso con un pugno ben mirato, probabilmente non ero riuscita a romperglielo ma il sangue che scese a fiotti dal suo setto mi fece gioire. Mi fulminò con gli occhi ma un sorriso sinistro comparve sulle sue labbra, quasi divertito dalla mia reazione. Lo fronteggiai decisa e gli parlai a pochi centimetri dal suo volto, sputando fuori tutto l'odio che sentivo. «Il sangue di cui ti sei macchiato e quello che mi hai fatto ricadranno sulla tua testa. La vita torna sempre a chiedere il conto, James: arriverà anche la tua ora e il sangue che ti scorre nelle vene non ti salverà.» 

Mi studiò con attenzione, cancellando il sorriso divertito che aveva sulle labbra. Meditò sulle mie parole a fondo, cercando di capire il senso che nascondevano. Il messaggio era chiaro e se fosse stato furbo sarebbe scappato a chilometri di distanza, eppure sapevo che non lo avrebbe fatto, condannandosi da solo perché non lo avrei lasciato impunito per quello che aveva fatto: Spencer, mio padre, mia madre, e la lista si allungava, distruggendomi.

«Vorrei dirti che ho dei rimorsi ma non è così. Vorrei poterti dire che una voce nella mia testa mi sussurrava che stavo sbagliando ma non è così: stai meglio senza di loro», disse. «Voglio che tu venga con me, è per questo che sono qui.» Sbattei le palpebre incredula delle follie che stavano uscendo dalle sue labbra. «Ricominciamo altrove. Ho bisogno di te: gli incubi mi tormentano ancora e tu sei l'unica che può salvarmi. Ogni volta che ti vedo l'oscurità svanisce. L'oscurità che io e te conosciamo bene. Ricominciamo insieme, per favore.»

Trattenni il respiro e mi soffermai sulla sua espressione docile e sulla sua falsa dolcezza. Ero stanca dei suoi sbalzi d'umore e delle pazzie di cui era convinto e, ignorando quanto mi aveva appena chiesto e i suoi stessi sentimenti, se ne aveva, gli posi l'unica domanda che volevo fargli fin dall'inizio. «Cosa gli hai fatto?» 

Si tese nel sentirmi chiedere dell'uomo con cui mi aveva sorpresa a letto. Mi afferrò per la testa, prendendomi per i capelli e mi condusse all'esterno della cabina. Una smorfia comparve sul mio volto e quando finalmente potei vedere Jonathan, il respiro mi si mozzò e potei sentire solo il battito del mio cuore sovrastare tutto il resto: credetti di impazzire.

Non poteva essere...

Era lì disteso e inerme sul ponte. Non dava alcun segno di vita e gli occhi mi diventarono lucidi, la vista mi si appannò. «Ecco cosa gli ho fatto e la colpa è solo tua» sibilò e il terrore di averlo perso mi avvolse. Provai ad avanzare verso di lui ma mi trattenne con la forza, così alzai lo sguardo su di lui furibonda e stavo per dare di matto quando un lamento giunse alle mie orecchie. Mi voltai verso Jonathan interdetta e quando lo vidi sollevarsi a fatica, il mio cuore si riempì di gioia ma la felicità durò pochi secondi perché sentii James imprecare al mio fianco e mollare la presa su di me, dirigendosi a gran passo verso di lui. Rimasi immobile presa in contropiede dalla violenza inaudita con cui gli si buttò addosso tanto che Jonathan non ebbe nemmeno il tempo di reagire. James lo riempì di calci all'addome e lo vidi contorcersi dolorante sotto i fendenti colpi che gli venivano inferti e stanca di sentire i suoi versi di sofferenza mi lanciai su di lui per farlo smettere. 

Finalmente smise di picchiarlo a sangue ma non avevo fatto i conti con la furia che si era riversata su di lui. Lo tirai lontano da Jonathan, usando tutta la forza che avevo ma fu poco in confronto alla sua. Grugnì mentre doveva lottare contro la sottoscritta, volevo la pistola che teneva nella cintura e non mi sarei arresa tanto facilmente. Ci azzuffammo e nella lotta la perse, entrambi la guardammo scivolare a metri di distanza e non esitai un secondo di più per scattare a prenderla ma non fui abbastanza veloce. Mi colpii in pieno, facendomi cadere a terra e un lamento mi uscii dalla gola per il dolore. Mi afferrò un'altra volta per i capelli per impedirmi di alzarmi e si chinò alla mia altezza. «Non puoi farne a meno...» disse. «Lotti sempre fino alla fine, eh?» 

La paura s'impossessò di me per i ricordi che riaffiorarono prepotentemente. Il sorriso di scherno sulle sue labbra poi fu il culmine della sopportazione. Provai a colpirlo ma mi trattenne con forza a terra e si sollevò per trascinarmi verso l'estremità della barca. Gemetti dolorante e provai a liberarmi dalla sua presa senza riuscirci.

Voltai la testa e notai un'altra barca più piccola affiancare la nostra, capii così quali fossero le sue intenzioni. Cercai di ragionare in fretta su una possibile soluzione ma fui distratta dal trovarne una quando una voce risuonò con prepotenza nel vuoto che ci circondava. Non ebbi nemmeno il tempo di capire che cosa stesse succedendo che James mi sollevò, usandomi come scudo. Jonathan era in piedi davanti a noi e impugnava la pistola contro di James. Mi persi a guardarlo e lui immerse i suoi occhi nei miei. La vista mi si appannò nel pensare che avrei potuto non rivedere più quell'azzurro che tanto amavo e la colpa era solo mia perché, per il mio tornaconto personale, lo avevo coinvolto in un casino assurdo.

Avevano avuto ragione tutti: non dovevo tenerlo al mio fianco, rischiavo davvero di rovinargli la vita e purtroppo era proprio quello che inevitabilmente stava succedendo, solo che ero stata troppo egoista per convincerlo ad andarsene o per mantenermi salda nelle mie convinzioni.

Non volevo che gli succedesse niente e, guardando il suo volto e il sangue che lo imbrattava, mi sentii morire. Non sapevo che cosa volesse dire amare né tanto meno cosa fosse l'amore, ma temevo di avercelo proprio davanti per il turbinio di emozioni che il suo minimo sguardo sapeva scatenarmi. Il desiderio di proteggerlo era così forte da annebbiarmi la ragione e forse lo temette anche lui perché lesse qualcosa nel mio volto che lo mise in allarme. «Lasciala andare, non costringermi ad ammazzarti come un cane.» 

James mi strinse a lui, ridendo follemente. «Fallo. Spara. Il proiettile l'attraversa e io muoio, ma non credo che tu sia così uomo da farlo.» 

Jonathan ci fissò silente e il suo sguardo m'intimorii. Alzò la pistola verso di me e sbarrai gli occhi. Sentii James irrigidirsi dietro di me ma non me ne curai, ero tutta presa dal capire le intenzioni dell'uomo che per la seconda volta in questa giornata mi puntava una pistola contro senza remore. «Lasciala o sparo e faresti bene a credermi sulla parola.»

La mano di James raggiunse il mio collo e inclinò la mia testa verso di lui. Strinsi i denti infastidita dal suo tocco e non mi sfuggì la rabbia che avvolse Jonathan in volto nel vederlo avvicinarsi al mio per sussurrarmi parole a cui lui non aveva accesso. «Non sembra tenerci poi tanto.» Provai a strattonarmi dalla sua presa ma mi artigliò con più forza. «Con me lo sapevi che non lo avrei fatto, ma di lui puoi dire lo stesso?» 

Sentii le forze scemare. Guardai Jonathan fermo e deciso nella sua posizione e sinceramente non seppi che risposta dare. Il suo sguardo era indecifrabile e non lessi niente nei suoi occhi, nessuna emozione che invece era solito caratterizzarlo ogni volta che posava gli occhi su di me. Non sapevo se avrebbe sparato, ma forse lo avrei voluto.

Urlò a James di sbrigarsi e che i soccorsi stavano arrivando, lasciandomi basita, ma non ebbi il tempo di constatarlo che quest'ultimo lo accontentò. «Va bene, va bene. La lascio, così ce la vediamo io e te.» 

Dapprima Jonathan parve soddisfatto, poi un lampo di paura attraversò i suoi occhi. James mi lanciò fuori dalla barca e volai da qualche metro di altezza. L'impatto con l'acqua ghiacciata del fiume e la caduta mi stordirono. L'acqua mi sommerse e me la ritrovai ovunque in gola, nei polmoni e nell'oscurità che mi avvolse desiderai che fosse finita. Mi arresi all'evidenza dei fatti: non sarebbe mai finita, lui non lo avrebbe consentito e allora mi lasciai andare. Il freddo mi colpì sulla pelle come piccole lame taglienti e chiusi gli occhi senza più forze per combattere. Avevo toccato il fondo come sempre nella mia vita e non avevo nulla a cui aggrapparmi e per cui lottare, anche se... un pensiero mi colse e mi ricordai della vita che portavo in grembo. E senza neanche volerlo, mi trovai ad avere il coraggio di reagire. Cercai di risalire in superficie e quando ci riuscii, respirai a pieni polmoni tossendo e sputando acqua. Restai a galla. Le forze stavano iniziando a venir meno quando mi accorsi di una piccola barca in avvicinamento e di una donna con la divisa da paramedico, capii che per stanotte fosse finita. Almeno per me, perché non avevo idea di che cosa fosse successo sulla barca.

Dopo avermi portata in salvo sul mezzo dei soccorsi che pullulava di poliziotti, mi avvolsero in una coperta nel vano tentativo di riscaldare il mio corpo infreddolito e zuppo dopo la mia caduta. Me la strinsi addosso alla ricerca di un po' di conforto che non trovai.

Ero persa nei miei pensieri e a chiedere in giro notizie che nessuno sembrava intenzionato a darmi quando qualcosa attirò la mia attenzione e, spostando lo sguardo sulla barca che mi aveva fatto sognare nei giorni passati, incrociai lo sguardo di Jonathan che con affanno e preoccupazione mi fissava. Stava bene. Distolsi gli occhi dai suoi per concentrarmi sull'uomo che era inginocchiato e ammanettato tra altri due poliziotti: James ridotto a un ammasso sanguinolento mi fissava con uno sguardo che mi scosse e m'inquietò in contemporanea. Jonathan ce l'aveva fatta, lo aveva preso, mantenendo così la sua promessa e il nostro stesso accordo che ora poteva dirsi concluso.

Sollevarono James, per poi portarlo sulla stessa barca su cui ero io. Non mi allarmai perché più al sicuro di così potevo anche morire ma intuii che, per entrambi, si sarebbe prospettata una lunga notte in centrale sottoposti a domande snervanti su quanto avvenuto nelle ore precedenti. Cercai di non preoccuparmi più del dovuto, in fondo sapevo che non avrebbe mai parlato ma ad agitarmi fu lo sguardo dell'agente Walker su di me. Lo vidi parlare con degli agenti, per poi cercare di liberarsi al solo scopo di potermi raggiungere.

Ormai la notizia che eravamo stati trovati insieme si sarebbe diffusa come un fulmine a ciel sereno e non avevo idea di come questo avrebbe potuto influire sulle indagini: chiamandoli aveva messo tutto a rischio, ma capivo che non si sarebbe potuto fare diversamente.

Lo guardai e tornai all'attimo in cui aveva puntato la pistola su di me e compresi così che mi aveva traumatizzata più di quanto potessi pensare. Non mi era sembrato più lui e avevo letto qualcosa nel suo sguardo che mi aveva segnata: amava così tanto il suo lavoro che per un attimo avevo creduto che ne sarebbe stato capace e ora, per il numero da fuori di testa di James, non lo avrei mai scoperto. Una cosa però la sapevo: non ero una priorità e non aveva scelto me. Mi fece male ammetterlo.

James mi passò a fianco con un sorriso sarcastico e inquietante sulle labbra a causa del sangue che gli colava dal naso e sul mento. Guardai Jonathan farsi largo tra la gente con una certa frettolosità. Rimasi inerme a fissarlo fino a quando, dopo avermi raggiunta, mi strinse tra le sue forti braccia. Dopo il primo attimo di esitazione, mi ci aggrappai con le ultime forze che mi erano rimaste. Piansi lacrime silenziose, mentre lui si preoccupò di rassicurarmi. «Mi dispiace, Vivienne. Mi dispiace.» Mi morsi le labbra e chiusi gli occhi, beandomi del suo profumo che sapeva tranquillizzarmi come nessun altro. «È finita.» Parole letali e che seppero arrivarmi in profondità. Mi accarezzò la schiena e la testa per assicurarsi che fosse tutto reale e rimasi immobile a crogiolarmi nella sua vicinanza contenta che fosse ancora qui con me e incolume. Sospirai dolorante ma, in un certo senso, felice e il motivo era uno solo: non avevo perso l'uomo che amavo.

Sì, lo amavo ma non credevo che avrei mai trovato il coraggio di dirlo ad alta voce. Non dopo quanto era avvenuto.

Spostai lo sguardo alle sue spalle e incrociai quello di James che ci osservava da un angolo in lontananza. Ci fissammo per diversi attimi come se ci fossimo solo noi due sulla barca e sentii il mio cuore fermarsi nel realizzare che non fosse affatto finita e la sua espressione ne fu la prova. Era stata solo un'illusione di pochi minuti che mi lasciò con un forte amarezza alla bocca dello stomaco. Non era finita e forse non lo sarebbe stata mai, finché non avessi preso in mano la situazione io stessa.

Mi distaccai da Jonathan senza smettere di fissarlo e lui seguì la direzione del mio sguardo, per poi soffermarsi su James con un'espressione indecifrabile. Ci sorrise sadicamente, incutendo timore come solo lui sapeva fare. Jonathan mi strinse a lui prima di portarmi via, sottraendomi così alla vista del diavolo che sembrava trarre piacere dal dolore che riusciva a infliggere: questo era l'incubo della mia vita; un incubo dal quale non sapevo se mi sarei mai riuscita a svegliare ma a cui ero del tutto intenzionata a porvi la parola fine, in un modo o in un altro.

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