Capitolo 30 - La Verità Nuda E Cruda (Parte 1)

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Ero seduta in un ambulatorio dove mi erano stati imposti alcuni controlli senza lasciarmi alcun tipo di scelta. Personalmente avrei preferito essere altrove, in fondo non ero ridotta così male. Gli ematomi sarebbero scomparsi e il freddo patito aveva già iniziato a scemare, solo una cosa alla fine mi aveva convinta a cedere ed era stata proprio quella della gravidanza: miracolosamente il feto non aveva risentito di nulla e sembrava essere in forma più della sottoscritta e quando me lo dissero, non reagì, non avendo la più pallida idea di cosa fosse giusto provare.

Una volta congedata, mi aggirai per i lunghi corridoi alla ricerca di Jonathan che a differenza mia non se l'era cavata così bene. Quando lo trovai, mi fermai a rimirarlo da lontano e mi soffermai sulle fasciature che gli stavano montando, sentendo una morsa stritolarmi il petto per i segni, i lividi e i tagli che aveva sul corpo. Era perso nei suoi pensieri e aveva il volto rivolto verso il pavimento, avvolto in un'aura tetra.

Ero del tutto intenzionata a raggiungerlo quando notai una mano posarsi sulla sua spalla e riconobbi subito la persona in questione. L'agente Rupert. Non distolsi lo sguardo dall'immagine che mi si stava presentando davanti e decisi di togliere il disturbo prima che si accorgessero di me. Mi strinsi tra le mie stesse braccia e vagai senza meta con il solo desiderio di allontanarmi da lì.

Inconsapevolmente, mi ritrovai davanti alla cappella dell'ospedale e vi entrai. Il silenzio mi avvolse. Mi sedetti nella prima panca disponibile. Ero sola e per il momento era proprio quello di cui avevo bisogno. Pensai ai miei genitori e delle lacrime sfuggirono dai miei occhi nel ricordare le parole di James. Adesso sarebbero ancora qui con noi se non fosse stato per lui e Arthur non avrebbe dovuto soffrire così tanto per la loro perdita. Non volevo neanche immaginare che cosa avrebbe fatto se lo avesse scoperto e forse avrei fatto bene a non dirglielo: a farmi più paura era che, questa volta, inevitabilmente, lo avrei perso perché la colpa era mia e Arthur era uno che non perdonava tanto facilmente, e per me non avrebbe fatto eccezioni.

Sospirai, per poi asciugarmi le guance togliendo così le lacrime che vi erano scese. L'unica sicurezza che avevo e che mi aveva concesso un po' di serenità era il fatto che finalmente lo avessero preso e che per il momento non avrei dovuto più guardarmi le spalle a ogni angolo per il terrore di trovarmelo in agguato.

Mi raccolsi e semplicemente ringraziai per Jonathan; ringraziai per tanti ragioni ma non trovai la forza di ringraziare per essere ancora viva, proprio non ce la feci. Non sapevo perché mi fosse stata data un'altra possibilità e non parlavo solo di questa volta, intendevo proprio quando mi era stata concessa tanti anni addietro e i motivi mi erano ancora sconosciuti, così come lo erano i motivi del perché fossi qui adesso. La mia vita era vuota, non avevo praticamente nessuno e me l'ero rovinata con le mie stesse mani, avevo intrapreso uno stile di vita che mi aveva distrutta tanto che a stento riuscivo a riconoscermi ogni volta che mi guardavo allo specchio. Vedevo crescere i segni e le cicatrici sul mio corpo ma non ero mai riuscita a far nulla per impedirlo, anzi nel tentativo di farlo, avevo finito per procurarmene di maggiori e temevo che sarebbe sempre stato così, in un vortice senza fine.

Sentii qualcuno chiamarmi e, dopo qualche secondo di esitazione, mi voltai avendo riconosciuto la voce. I suoi occhi erano così penetranti da disorientarmi. Si sedette al mio fianco. La sua mano avvolse la mia e un forte calore si propagò dentro di me al suo contatto ma lo stesso, dopo poco, la sottrassi dalla sua presa. «È finita, Vivienne.» 

Alzai lo sguardo su di lui e gli sorrisi per rassicurarlo ma con scarsi risultati e lo capii dal suo sguardo. «Lo so, e ti ringrazio. Sei l'unica persona nella mia vita che abbia mantenuto la parola data», dissi. «Mi dispiace solo di averti coinvolto.»

«L'ho voluto io, non devi sentirti in colpa. Non tornerei indietro, non rimpiango nulla e non dovresti farlo nemmeno tu» non esitò a dirmi. «Che c'è, Vivienne?»

Scossi la testa e decisi di rivelare solo una piccola verità. «Troppe emozioni in un sol colpo, credo.» Gli attimi meravigliosi passati insieme si mescolavano a quelli terrificanti venuti dopo, alla paura di perderlo e che fosse morto. Al sapere dei miei genitori e del bambino era stato troppo e iniziai solo ora ad accusarne pesantemente. Mi avvolse le spalle con un braccio, tirandomi verso di lui. «Che cosa succederà adesso?» gli chiesi.

«Verrà interrogato, poi si procederà con l'accusa. I capi sono parecchi, quindi si tratta solo di dimostrarli.»

Tremai al solo pensiero perché temevo che non avessero nulla per incastrarlo. Mi strinsi alla sua maglia preoccupata. «Devi promettermi che farai tutto quello che è in tuo potere per fare in modo che marcisca in galera per il resto della sua vita.»

«Sarà così.» Notai una leggera tensione nella sua voce ma mi ritenni soddisfatta. Mi staccai da lui per trovare la forza di dirgli quanto avevo scoperto e lui mi finse che non lo avesse ferito il mio gesto. «Sono io che ti devo chiedere scusa, non sono riuscito a proteggerti come avrei voluto» mi prese in contropiede.

«Hai fatto più di molti altri, Jon. Non devi scusarti.»

«E allora perché ti sottrai? Sembra quasi che tu abbia paura di me.» Persi un battito, distogliendo lo sguardo prima che leggesse nei miei occhi quello che più temevo. «Ti ha fatto qualcosa?» domandò.

«No» mi affrettai a negare. «E non mi sto sottraendo, sono solo scossa. Puoi lasciarmi respirare un secondo, per favore?» Serrò la mascella. Il silenzio ci circondò. Poi fui io a romperlo. «James...» non mi guardò ma con quello che aggiunsi successivamente non poté più trattenersi dal farlo. «Ha ucciso i miei genitori, non è stata una semplice fuga di gas.» Mi scrutò incredulo e lo vidi irrigidirsi eccessivamente quando gli diedi la seconda notizia. «E...» cercai invano di trattenere il magone che mi si era formato in gola senza riuscirci. La voce mi tremò ed ero al limite dall'esplodere in un pianto disperato tanto che non potei nasconderglielo. Gli occhi mi diventarono lucidi e lo guardai sperando che lo capisse anche senza bisogno che lo dicessi ad alta voce ma non fu così. «Ha fatto lo stesso con Spencer e probabilmente era già morto prima che se ne sbarazzasse giù dal dirupo.» Lo vidi trattenere il fiato e portarsi una mano al volto sconvolto. Una lacrima sfuggì al mio controllo e mi affrettai a raccoglierla. «Dovresti starmi lontano. Non vorrei dovermi macchiare anche del tuo di sangue.» 

Si girò verso di me e parlò con enfasi. «Ascoltami bene, Vivienne: niente di quello che è successo è colpa tua. Lo è solo di quel pazzo di Crawford e di nessun altro, vedi di fartelo entrare bene in testa.» Presi a giocare nervosamente con le mie mani. «Tu non c'entri e sono più che sicuro che non hai obbligato nessuno a rimanere al tuo fianco. Le persone restano perché trovano un motivo per farlo e questo motivo sei tu. Non importa a nessuno delle conseguenze e tanto meno a me», disse. «Non me ne è mai fregato nulla fin dal primo momento in cui ho posato gli occhi su di te e continuerò a farlo tutt'ora, m'interessi solo tu. Ecco qual è la verità» mi commosse.

«Lo sai che andando avanti di questo passo non riuscirò più ad andare con nessuno altro? Non riusciranno mai a reggere il confronto.»

«Lo spero.» Sorrisi e si illuminò nel guardarmi. «E ti prendo in parola, Vivienne.» 

Cancellai il sorriso in un secondo. Distolsi lo sguardo dal suo e restai in silenzio per i minuti successivi, consapevole ormai dei sentimenti che ero arrivata a provare e a riconoscere. I momenti sulla barca, però, tornarono alla mia mente e mi demoralizzai. «Non si può vivere in questo mondo senza farne parte, Jon. Non affondo solo io se qualcosa va storto, è tutto quello che mi porto dietro, e quindi spetta a me decidere che cosa sia giusto sacrificare e cosa invece no.» 

Ci guardammo, entrambi spaesati. Mi alzai, mentre lui mi lasciava passare sollevandosi a sua volta. Gli dissi che sarei passata a casa e provò a farmi desistere dall'andare visto che doveva solo finire qualche visita e poi mi avrebbe accompagnata ma rifiutai la sua gentilezza. Lo salutai con un lieve bacio sulla guancia in segno di riconoscimento e me ne andai, lasciando il nostro discorso in sospeso, perché volevo che riflettesse bene su cosa ci fosse in gioco prima di decidere se percorrere davvero la mia stessa strada.

Arrivata a casa, salutai il gatto e, dopo averlo preso in braccio, mi diressi in camera da letto e mi distesi esausta da una nottata senza precedenti. Chiusi gli occhi e mi immaginai che Jonathan fosse qui con me e neanche pochi secondi dopo ero già addormentata.

Fu un sonno lungo e ristoratore perché ero consapevole che l'unica persona che mi voleva fare del male era rinchiusa dietro a delle sbarre. Dormii l'intera giornata, la mia reale intenzione era quella di dormire per diversi giorni di fila ma qualcuno non fu della mia stessa idea: fui svegliata dal suono del campanello e ci misi parecchio per alzarmi. Indossai una vestaglia e mi avviai verso la porta scocciata da chiunque avesse osato disturbarmi. Il gatto mi seguì e una volta aperta mi ritrovai sull'ingresso Jonathan. Stavo per sorridergli, quando notai qualcosa nel suo sguardo che m'inquietò o meglio mi turbò, perché sembrava parecchio adirato, solo che ignoravo ancora il perché. «Vuoi entrare?» Non se lo fece ripetere due volte e si addentrò dentro casa mia. Lo guardai interdetta prima di seguirlo, così come d'altra parte fece anche il gatto in assoluto silenzio tanto che mi stupii che non lo stesse aggredendo. «Che ti prende?» chiesi.

Mi lanciò un'occhiata disarmante. Mi strinsi le braccia al corpo per apparire meno vulnerabile e lo guardai in attesa di una risposta che tardava a darmi: sembrava in guerra con sé stesso come mai lo avevo visto. «Cosa aspettavi a dirmelo?»

Lo guardai confusa, temendo che nel corso della giornata fosse venuto a conoscenza di altre parti del mio passato o che in qualche modo avesse parlato con James e mi paralizzai senza sapere che cosa aspettarmi. «Hai visto James?» 

Per un attimo la mia domanda lo spaesò. «No, in realtà non mi ci hanno fatto nemmeno avvicinare.» L'osservai comprendendo che i problemi fossero appena iniziati e la colpa andava al fatto che non fossimo riusciti a restare lontani l'uno dall'altro. Gli errori purtroppo si pagavano e ormai lo sapevo piuttosto bene. «Ma non era a questo che mi stavo riferendo.» Alzai un sopracciglio, aspettando che continuasse e quando lo fece, mi pentii subito di non averglielo impedito. «Cosa aspettavi a dirmi che sei incinta, Vivienne?» Una morsa mi stritolò lo stomaco. Mi fissò in attesa di una risposta che non avevo. «Non credi che meritassi di saperlo?»

Inspirai a fondo. «No, perché non ho ancora deciso che cosa farne.» Indietreggiò scosso, cadendo in una sorta di mutismo. «Come l'hai scoperto?» gli chiesi.

Ci guardammo e quello che lessi nei suoi occhi mi rattristò e inevitabilmente mi fece sentire in colpa. «La visita all'ospedale», disse. «Ed è stato meglio così, altrimenti scommetto che non me lo avresti mai detto, dico bene?» Esitai. «Ho ragione?» 

Annuii e lui mi guardò ferito. Mi resi conto che non aveva neanche per un minuto messo in dubbio che non fosse suo e la cosa mi stupii più di qualsiasi cosa.

Non ti meritavo, Jonathan, per niente. E tu meritavi di meglio. 

«Un figlio è una grande responsabilità e a malapena so badare a me stessa...» non disse nulla, così continuai. «Non te l'ho detto perché, se non lo tengo, non aveva senso darti una preoccupazione in più. Te ne ho già date fin troppe.»

«Beh» rise di me. «Non so in che mondo vivi, ma l'unica cosa che avrei voluto sapere era che aspettavo un figlio da te. Ne avevo e ho il diritto di sapere se sto per avere un figlio dalla donna che amo o almeno con cui credevo di aver condiviso qualcosa di vero.» Un nodo mi si formò alla bocca dello stomaco. Mi fissò, ma non trovai le forze per reagire. «Quindi vuoi abortire?» la domanda cruciale arrivò e mi si scaricò addosso come una doccia gelata. «Non vuoi un figlio da me. Non vuoi nostro figlio.» Abbassò lo sguardo. «Sei una vigliacca, Vivienne. Ecco cosa si capisce a partire dal discorso che mi hai fatto: tutto è sacrificabile, tutti lo sono, a parte te stessa e quello che vuoi. Vuoi decidere solo che cosa è meglio per te, ma questa non è una dannata decisione che devi prendere da sola. Riguarda tutti e due, è una responsabilità che ricade su entrambi ma sembra proprio che tu non sappia neanche che cosa significa.» 

Incassai in silenzio perché in fondo aveva ragione: ero una vigliacca. Non avevo il ben che minimo coraggio di affrontare tutto questo né ce lo avrei mai avuto. «Puoi pensarla come vuoi ma la decisione spetta a me, so che cos'è meglio...»

«Sai cos'è meglio, davvero? Sai cosa è meglio per te, forse.»

Sentii la collera crescere dentro di me. «Cosa vuoi che faccia? Resto con te, mettiamo su famiglia? Non sono il tipo e mi sembra piuttosto ovvio. Non c'è una sola persona in questa città che non mi dia della poco di buono o sparli di me in continuazione, e lo sai qual è il problema? Che un po' mi ci sento. Credi che la persona che sono possa essere una buona madre? Se è così, sei l'unico a pensarlo, oppure sei accecato da...»

«Accecato da che cosa? Il sentimento che provo? Va avanti.»

«Anche ma...» 

«Non azzardarti a tirare in mezzo mia figlia! Non c'entra nulla.» Mi fissò rabbioso, prendendo le distanze. «Non riguarda nemmeno questo figlio che aspetti o il chiedersi se tu sia una buona madre o meno, anche se sono sicuro che lo saresti. Riguarda te e il fatto che credevo avessimo costruito qualcosa e invece siamo tornati al punto di partenza. Dici di non volere me ma, in realtà, non sai nemmeno capire che cosa vuoi o che cosa sarebbe meglio per te e, proseguendo per questa strada, non farai altro che perdere qualsiasi cosa a cui tieni.»

Sentii il vuoto diffondersi dentro di me e gli occhi diventarmi umidi. «Non posso farne a meno.» Avevo troppa paura di provare emozioni da preferire perdere qualsiasi cosa piuttosto che espormi o lasciarmi coinvolgere. «Amo quando è troppo tardi, Jon, e non farò eccezioni nemmeno stavolta.» 

Si irrigidì preso in contropiede dalle mie parole sincere e appesantite da un forte rammarico. «Voglio solo starti vicino, Vivienne. Non ti ho mai chiesto nient'altro e voglio proteggerti, anche se non mi è ancora chiaro se devo farlo dagli altri o da te stessa.»

«Lo so che vuoi farlo, ma se volessi solo che tu credessi in me...»

«Lo faccio» affermò.

«No. Continui a dirmelo, ma pensi che le tue scelte siano migliori delle mie e che solo tu abbia ragione.» Scosse la testa incredulo. «Non voglio...» esitai per trovare le parole giuste ma sapevo che non c'era un modo indolore per dirlo.

Sgranò gli occhi e lessi confusione, così come paura per quanto stavo per dire tanto che mi si avvicinò per provare a impedirmi di continuare. «Non vuoi cosa?»

Trassi un profondo respiro. Sentii il cuore urlarmi di non farlo ma non lo ascoltai. «Non voglio noi.» 

«Non vuoi noi?» 

«Sì, non voglio» mentì.

Si passò una mano tra i capelli nervoso. «Ascolta, possiamo farcela ad affrontare questa cosa insieme. Come abbiamo già fatto con tutto il resto. So che sei spaventata ma questa non è la soluzione e non farà che ripagarti solo di altro dolore, lo capisci? Possiamo essere felici, possiamo ricominciare altrove, cambiare aria... Io lo farei per te, lascerei tutto seduta stante.» Non piansi, anche se i miei occhi stavano contenendo a stento le lacrime che volevano scendere disperate. «Datti una possibilità. Dacci una possibilità.» 

Mi stava supplicando con lo sguardo e mi sentii in trappola e vittima dell'azzurro dei suoi occhi così penetranti e così violenti nell'esprimere ogni singola emozione che stava provando in questo momento. Presi coraggio e abbattei il fendente su quel poco che era rimasto tra di noi. «Non c'è nessun insieme, Jon.» 

Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e volse lo sguardo lontano da me. Prima che lo facesse, però, notai una sola e minuscola lacrima attraversargli la guancia, lasciando un segno indelebile sulla sua pelle. 

Il mio cuore si spezzò insieme al suo e mossi qualche passo verso di lui, pronta a rimangiarmi tutto. Ma quando rialzò lo sguardo su di me, mi trafisse fino nell'animo, lanciandomi addosso tutto il suo disprezzo. La tempesta infuriava nei suoi occhi e ne ebbi quasi paura tanto che m'immobilizzai quando gli sentii pronunciare con ferocia: «Sei solo un'egoista! Vuoi distruggere l'unica cosa che ti avrebbe resa felice, e non parlo di me.» Mi sorpassò e se ne andò verso la porta ma prima di uscire si voltò verso di me. «Credo di aver avuto un abbaglio, Vivienne», disse. «Non sei per niente quella che credevo. Questa è la Vivienne di cui tutti parlano, ma hai fatto l'errore di mostrare al sottoscritto chi sei veramente e sono più che certo che lo rimpiangerai per il resto dei tuoi giorni.» Il mio battito accelerò e seguii ogni sua parola con logorante trepidazione e terrore che se ne andasse da quella porta senza fare mai più ritorno. «Per quanto riguarda me invece, non ti preoccupare, mi passerà presto.» Non mi lasciò il tempo di dire nulla che se n'era già andato, sbattendosi dietro la porta. Fissai il vuoto che aveva lasciato per diversi minuti prima di riconoscere che avevo commesso davvero il più grande errore della mia vita e il silenzio che mi avvolse me ne diede la prova.


Jonathan

«Cosa dovrei farmene?» chiesi. La mia ex-moglie mi aveva messo in mano una cartella senza spiegarmi il motivo.

Avevo appena finito di parlare con Vivienne ed ero parecchio scosso per quanto mi aveva detto su James e su quello che era arrivato a fare per averla; perciò, non avevo proprio voglia dei suoi giochetti. Spencer era morto per mano di Crawford e il mondo si era di nuovo capovolto a questa scoperta e non sapevo ancora come fosse giusto reagire ma speravo di scoprirlo presto.

Mi sistemai meglio sul lettino in cui mi aveva lasciato il medico che mi aveva visitato poco tempo prima e la guardai seccato. «Forse è meglio che tu la apra», disse.

Iniziai a leggere il contenuto seccato dalla sua insistenza. Persi un battito. Alzai gli occhi su di lei. «Spero che tu non creda che ci possa ricascare di nuovo.»

Si offese ma era la verità: era già stata incinta e mi aveva già fatto credere una volta che fosse mio, non avrebbe funzionato la seconda ma mi divertiva giocare con il suo orgoglio. Spostò il dito sul figlio e m'indicò il punto in cui leggere. «Non è mia la cartella, per mia fortuna. Il dolore per la perdita di mia figlia mi basta per tutta la vita, non ne voglio altri.» 

Abbassai lo sguardo sul foglio, soffermandomi sul nome scritto in stampatello sul fondo della pagina a cui non avevo prestato attenzione. Rilessi quelle due parole diverse volte per rendermi conto che fosse reale; che fosse vero, e credetti di avere un mancamento, poi mi ricordai di chi avevo davanti e non mi scomposi. «Come l'hai avuta?» 

Sorrise e dalla sua espressione capii che non mi avrebbe risposto. «Sta lavorando per me adesso, è logico che voglia sapere ogni singolo particolare che la riguardi.» Mi trattenni dal tirare fuori l'irritazione per il suo coinvolgimento in questa faccenda che non faceva presagire nulla di buono. «Non mi fido e non dovresti farlo neanche tu, ma a quanto pare non è così, visto che eravate insieme» mi accusò. «Devi essere impazzito, Jonathan.» Non risposi e mi sbarazzai della cartella, alzandomi. «Non puoi intrattenere una relazione con lei, l'amante di Spencer.» 

Non confermai né negai. «Proprio tu mi vieni a parlare di morale, eh?» 

«Non si tratta solo di morale ma anche della tua carriera. Io so quanto hai dovuto fare per ottenerne una di livello, sei a un tanto così dalla promozione e non posso credere che tu sia disposto a buttare tutto per una donna che non conosci affatto. Non la conosci, Jonathan, questa è la verità.» Iniziai ad irritarmi. «E ora aspetta un figlio da Dio chissà chi, perché non crederai mica che sia tuo?» 

Dovetti ricordarmi che fosse una donna per trattenermi dal sfogarmi su di lei e, dopo un sorriso amaro, m'infilai la mia maglietta emettendo una smorfia per il fastidio che le ferite riportate mi provocarono. Mi studiò seccata dal fatto che non reagivo come avrebbe voluto. «Quello in cui credo o penso non ti deve interessare, perciò finiscila e vai a tormentare qualcun altro.» Mi fissò indispettita. «La mia vita privata non ti riguarda; non ti riguarda più da tanto tempo ormai. Mi dispiace per la tua perdita ma deve finire adesso questa tua ossessione, perché non otterrai niente da me.» Mi sollevai e ritenni di aver fatto abbastanza visite e controlli per oggi tanto che mi avviai verso l'uscita, non vedendo l'ora di andarmene da questo ospedale.

«Era di Cataldi.» Mi voltai verso di lei confuso dalla sua ammissione, non capendo a che cosa si stesse riferendo, poi ci arrivai e la scoperta mi colpii come un fulmine a ciel sereno. «La bambina era di Cataldi.» 

Sentii il vuoto propagarsi dentro di me e compresi solo ora perché non me lo avesse mai detto o il perché con Arthur ci fossero da sempre problemi e rivalità. Sorrisi istericamente per l'ipocrisia di cui continuava a macchiarsi. «Hai sempre creduto di poter ottenere tutto quello che volevi e guarda dove ti ha portato. Hai distrutto due vite per il tuo tornaconto personale e ora sembra quasi che tu voglia farlo con chi non dovresti.» Mi fissò basita senza sapere che cosa rispondere. Le sue bugie l'avevano rovinata e ora Arthur stava con un'altra mentre io... Beh, non l'avrei più voluta vedere neanche in cartolina. «Lo sapeva?» chiesi.

Negò e sempre più incredulo la guardai per cercare che cosa mi avesse fatto credere di volerle bene un tempo senza trovarlo, perché il sentimento che avevo creduto di provare non era minimamente paragonabile a quello che sentivo per Vivienne.

«Io ti amavo, Jonathan.»

Assottigliai gli occhi su di lei e mi trattenni dal riderle in faccia. Era seria e le credetti, ma non avrebbe di certo giustificato le sue azioni. «Hai un bel modo di dimostrarlo», dissi. 

Lei mi guardò colpevole. Poi me ne andai, dopo un'ultima ed eloquente occhiata. Uscii dall'ospedale con la mente e il cuore in subbuglio: erano parecchie cose da metabolizzare ma ovviamente l'unico pensiero che non riuscivo a togliermi dalla testa era che Vivienne aspettasse un figlio. Un figlio da me. Non avevo alcun dubbio che fosse mio, altrimenti me ne avrebbe parlato e con quest'ultimo pensiero sentii la rabbia crescere perché, come al solito, mi aveva escluso. Non ritenendomi degno nemmeno di saperlo o d'informarmi. 

Senza neanche rendermene conto si era fatta mattina, così mi fermai da qualche parte a fare colazione, per poi dirigermi in centrale e dedicarmi così al mio lavoro, nella speranza di riacquistare la lucidità e il coraggio per affrontarla.

Ero terrorizzato da qualsiasi cosa sarebbe potuta uscire dalla sua bocca perché ogni volta che veniva messa alle strette doveva tirare fuori il peggio di lei e infatti fu proprio così che andò.

Quando ebbi la forza di presentarmi a casa sua, dopo il turno di lavoro, non mi sarei mai aspettato quanto ebbe il coraggio di dirmi. Non ero preparato alla sua crudeltà ma soprattutto alla sua indifferenza. Mi ero spezzato nel sentirle rifiutare categoricamente ogni mia singola proposta. Dal suo rifiuto di provarci insieme. Dal suo rifiuto di volere un figlio, mio figlio, e così quando me ne andai, lasciandola da sola nella sua misera casa, non rimpiansi una sola delle parole che le avevo detto. Potevo ammettere le sue paure che ogni volta la paralizzavano ma non potevo accettare il fatto che me lo aveva nascosto: era mio figlio, ne avevo diritto tanto quanto lei di sapere la verità. E purtroppo si era rivelata più nuda e cruda del previsto senza che potessi prevederlo.

Mi trovai così a vagare senza meta per poter smaltire tutta la rabbia che mi si era scaricata addosso nel capire che sarebbe stato tutto fiato sprecato perché quando si metteva in testa qualcosa, nessuno riusciva più a convincerla del contrario. L'avevo persa e ora avrei perso anche il figlio che portava in grembo. Non sapevo che cosa fosse giusto provare ma l'unica cosa che sapevo era che una forte delusione mi esplose nel petto che non riuscii a contenere.

Mi sedetti su una panchina lungo il molo e mi lasciai cullare dal rumore delle barche e dal soffio del vento. Una lacrima sfuggì al mio controllo, la seconda della serata, e abbassai il capo sconfitto da un sentimento che credevo ricambiato e che invece non si era rivelato altro che un'illusione.

Un miraggio dei più belli ma anche dei più letali, quelli che ti uccidevano dentro e ti logoravano fino a quando non ti rimaneva più nulla. Solo un immenso vuoto a testimoniare il tuo stupido errore. Un errore che avrei pagato caro perché quando entrava in gioco il dolore... le normali leggi dello scambio non si applicavano perché il dolore trascendeva il valore. Un uomo avrebbe dato via intere nazioni per togliersi il dolore dal cuore e lo sapevo bene. Non si poteva comprare nulla col dolore o barattarlo perché il dolore, ahimè, non aveva alcun valore.

***

Il giorno dopo andai al lavoro determinato a porre per sempre la parola fine a tutta questa storia. A lasciarmi Vivienne alle spalle una volta per tutte e non avrei più fatto eccezioni perché era lei a volerlo. E per poterlo fare, dovevo chiudere il caso che la riguardava, ma una volta arrivato nell'ufficio del mio superiore, le speranze scemarono.

«Non si può, quello che mi sta chiedendo non è più realizzabile: è tutto un maledetto casino, Walker. La nostra accusa sta a malapena in piedi, non abbiamo abbastanza prove e gli è bastato fare una telefonata per avere uno degli avvocati più bastardi sul mercato. Lo vogliono fuori e in fretta perché temono che possa parlare.» Sentii un ulteriore peso caricarsi sul mio petto. «E le accuse di aggressione, sequestro e violenza domestica, stanno crollando perché nessuna delle due donne vuole collaborare, anzi lo difendono pure. Siamo fottuti, se non l'avesse ancora capito. Rimane solo il casino successo sulla barca ma è la sua parola contro la vostra e quello che lui va a dire in giro è detto al solo scopo di denigrare la sua figura. E la stessa cosa vale anche per l'aggressione che la signorina dice di aver avuto a casa sua.» Trassi un profondo respiro, preparandomi al peggio. «La Rupert stava cercando di ottenere una confessione attraverso la signorina Cataldi ma ora si è compromessa l'intera situazione. La sua idea sarebbe quella di provare a farla venire qui per vedere se Crawford si lascia scappare qualcosa, perché finora non ha detto praticamente nulla. Sa come giostrarsi ed è protetto dal pezzo grosso che tu conosci bene.» Abbassai il capo. «A proposito, mi complimento per le informazioni che ci ha dato. Non dico che lo mandiamo al tappeto, vincendo la guerra, ma abbiamo conquistato qualche battaglia.»

«Ho fatto solo il mio dovere» affermai sbrigativo. Poi mi schiarii la voce, non avendo alcuna voglia di parlare dell'organizzazione su cui avevo lavorato per anni e che mi aveva rubato il sonno per notti intere. «Faccia parlare me con Crawford.»

Corrugò la fronte. «È fuori discussione anche la sola idea che lei possa avvicinarsi a lui. È troppo compromesso. Basterebbe una sola parola e potrebbe reagire male là dentro, non possiamo permetterci altri errori.»

«So come fare il mio lavoro, non mi faccia la predica: sono uno dei migliori qui dentro.»

Mi scrutò serio, per poi sospirare. Si sporse sulla sua grande scrivania e mi parlò buonista. «Senta, Walker, si prenda qualche giorno di riposo, poi ne riparliamo. Non nuota in buone acque al momento: non so quanto ci sia di vero, ma il suo coinvolgimento con la Cataldi non la mette in buona luce ed entrambi sappiamo quanto tiene alla sua promozione. Per il suo bene, si faccia da parte, lasci che si occupi qualcun altro del caso.» 

Sentii la rabbia ribollire nelle mie vene. Mi morsi la lingua per non dire nulla e, dopo aver annuito, uscii dal suo ufficio con una forte determinazione negli occhi. Non avrei obbedito, non questa volta, e così mi diressi verso la stanza che usavamo per gli interrogatori.

Una volta arrivato, dissi ai poliziotti che erano lì che mi mandava l'ispettore e questi ultimi, prendendo per buona la mia parola, mi lasciarono entrare. Salutai con un cenno il mio collega che era all'interno e mi fermai davanti al vetro per vedere Crawford intento a fumarsi una sigaretta. «È un figlio di puttana. È da ieri che è sotto torchio e non ha ancora detto neanche una parola che ci possa tornare utile» mi disse.

Lo guardai, sapendo che non poteva vedermi, e provai solo odio. La rabbia crebbe. L'unica cosa a cui pensai era che gliela avrei fatta pagare cara per tutto quello che aveva fatto. «L'avvocato?» chiesi.

«Torna tra un'ora.» 

Annuii e poi entrai sordo a ogni richiamo. Quando aprii la porta, il suo sguardo fu subito su di me e un sorriso sarcastico comparve sulle sue labbra. «Mi chiedevo quando avresti avuto le palle di venire, agente.» Non abboccai alla sua provocazione. Mi sedetti calmo davanti a lui e ci fissammo in silenzio. «Non dirò niente senza il mio avvocato, quindi è tutta fatica sprecata.» Lo studiai in silenzio, finendo per ammettere con me stesso che tra queste quattro mura non fosse nessuno e lo sapeva bene. «Come sta Vivienne? Mi era parsa turbata la scorsa notte.» 

Non riuscii a trattenermi dal fulminarlo con lo sguardo ma non gliela diedi vinta nemmeno questa volta, voleva solamente provocare una mia reazione. «Siccome è evidente che non risponderai a nessuna domanda che ti riguardi, non te ne farò.» Non riuscì a nascondere la confusione. «Voglio solo sapere il perché. Perché Vivienne?» 

Ridusse gli occhi in due fessure e meditò sulla mia domanda, diffidente. «Per spiegartelo dovrei dirti chi è, ma non credo che tu sia pronto per conoscere la verità, Walker» mi sorprese. «Perché non ti piacerà, ma se è questo che vuoi...» 

Fece un tiro, lasciando che il silenzio facesse da padrone e in quei minuti sentii solo il battito del mio cuore accelerare, così come l'ansia per dover venire a patti con la verità; ma ormai era troppo tardi perché la tentazione di avere accesso al suo passato fu più forte del buon senso. Lo sapevo, ma lo stesso non fuggii da quella stanza e quasi sicuramente poi me ne sarei pentito. Come di tutto il resto.

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