Capitolo 32 - Il Bacio Di Giuda

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Fissai Jonathan in attesa di una sua reazione, il coraggio era svanito non appena mi si era avvicinato. Mi vergognavo di come mi ero comportata e non ero abituata a scusarmi o ammettere le mie colpe. Non sapevo nemmeno da dove iniziare ma non dovetti pormi il problema perché non mi diede il tempo di farlo. Avanzò verso di me e così mi trovai a trattenere il respiro ma non era a me che stava mirando, bensì alla sua auto: ci si appoggiò contro con entrambe le mani, per poi chinare la testa leggermente tra esse. «Vuoi spiegarmi che ci fai qui? Perché capirti diventa sempre più difficile.» Un nodo mi strinse la gola, impedendomi di parlare. «Anzi, sai cosa? Non farlo. Risparmia a tutti e due un altro supplizio, e ora levati.»

Non mi mossi dalla portiera del guidatore che avevo preso in ostaggio, non facendo altro che innervosirlo. «Ho bisogno di parlarti, poi sarai libero di andartene.» Inarcò un sopracciglio, lasciandosi andare a un sorriso amaro. «Per favore, Jonathan.» Sospirò. Guardandolo, lessi la guerra che era iniziata nelle sue iridi, tra ragione e cuore, ed esitai dal dargli le mie motivazioni. Riusciva a incutermi timore come nessuno. «Non sono stata onesta con te e ti chiedo scusa. Ho giocato con i sentimenti che mi hai detto di provare e me ne vergogno.» Il petto mi dolette. «Hai sempre voluto solo aiutarmi e ho fatto di tutto per impedirtelo, perché sapevo che ci saresti riuscito.» Approfittai del suo silenzio per spiegarmi meglio. «Ho il terrore che tu riesca a tirarmi fuori dal fango in cui sono caduta, da arrivare a commettere delle pazzie. Non ho mai creduto nell'amore, in qualsiasi sua forma esso si presenti, perché avevo paura che mi consumasse. Ho sempre voluto fuggire da ogni legame, da ogni cosa che mi stringeva. Volevo una vita a qualunque costo, non volevo una sistemazione. Volevo salire sempre più in alto e sentirmi finalmente libera.»

«Non credo che dovresti continuare, non più» sbottò, interrompendomi. Mi ferirono le sue parole e gli occhi mi diventarono lucidi sentendo il suo rifiuto. «Sei una bambina se credi che basti chiedere scusa per cancellare tutto quello che...» 

«Lasciami finire, ne ho bisogno.» Colse la mia supplica e non si oppose. «Amo il dolore perché da sempre mi ha fatto sentire viva. A volte mi ammiro per quanto sono ipocrita e mi ha fatto sempre strano pensare a che cosa ci si riesca ad abituare per poter andare avanti.» Presi un respiro e continuai per fargli finalmente capire con chi avesse avuto a che fare nei giorni passati. «Ho paura di me stessa. Dell'odio che è in me, per chi sono e per un passato che non riesco a cancellare. Mi spaventa quello che potrei fare per essere libera da questo fardello che mi porto dietro.» La sua sicurezza vacillò. «Temevo di rimanerne annientata io stessa ma poi sei arrivato tu e mi hai teso la mano, tirandomi fuori da tutto questo. Mi hai permesso di rialzarmi e fino adesso non me n'ero neanche resa conto.» 

«Sai qual è la verità?», iniziò. Mi morsi le labbra a disagio. «Non pensi ad altro che a te stessa. È sempre stato così e non vedo perché dovrebbe cambiare ora.» 

Avevo rovinato tutto e ci arrivai solo ora: lo avevo portato all'esasperazione. «Non è vero...»

«Non negarlo! Non mi fare questo. Gira tutto intorno a te, giusto?»

«Non si tratta di questo. Non si tratta di fare la cosa giusta, si tratta solo...» 

«Si tratta proprio di questo e del fatto che tu non abbia mai fatto la cosa giusta in tutta la tua vita», disse. 

Sentii qualcosa spezzarsi dentro e non ce la feci a contraddirlo, avevo fatto una sola cosa giusta in tutta la mia via ed era l'aver tenuto questo bambino. Ci fissammo negli occhi e decisi di continuare il mio discorso, ignorando le sue accuse per provare ad arrivare a dirgli quello per cui ero qui, davanti a lui, a prenderle. «Credevo di essere in grado di cavarmela da sola ma non lo sono.» Inspirai a fondo. «Ho solo bisogno di qualcuno che si prenda cura di me perché non sono in grado di farlo da sola. Non lo sono, Jon.» Abbassò lo sguardo, impedendomi così di capire cosa stesse pensando. «Ho respinto quello che potevamo avere perché sapevo che avrebbe fatto meno male: sarebbe stato più facile da accettare se fossi stata io a mandare tutto io all'aria e non tu.» Mi fissò arrabbiato. «Lo so è una pazzia, ma è l'unico modo che conosco per tutelarmi: c'è qualcosa nel mio cuore che vuole sempre fare una pausa, andare via prima di venire ferita o lasciata.» Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «La verità è che non mi fai sentire al sicuro o a mio agio. Mi fai sentire come se stessi in bilico sulla cima di una montagna: sto cercando di abituarmi a questa sensazione perché... è travolgente.» Mi guardò intensamente. Trattenni il respiro. «Riesci a farmi sentire viva come nessuno. Non ho bisogno di aggrapparmi a sensazioni illusorie o qualsiasi altro trucco con cui mi sono abituata a convivere. Mi sento viva solo quando ci sei tu al mio fianco.» La voce mi si spezzò. «Il mondo torna a perdere di senso se non ci sei tu a guardarlo con me e questi giorni di allontanamento mi sono serviti per capirlo.» Si avvicinò di qualche passo. «Ho giocato con la fiamma della vita ogni singolo giorno senza però mai possederla. Non so cosa voglia dire vivere davvero. Vivere con qualcuno al proprio fianco perché sono sempre stata da sola...» mi zittii, ormai priva di forze. Mi limitai a guardarlo. Lui fece lo stesso. Lasciammo che il silenzio regnasse per qualche attimo.

«Ti sei davvero presa gioco di me, Vivienne, e di quello che provavo. Sapevi che avrei dato di matto nel trovarti in quello stato e te ne sei approfittata» mi disse dopo un po'. «Cosa ti aspetti...»

«Ma di cosa stai parlando?»

Sorrise sarcasticamente, riprendendo le distanze, frustrato dall'intera situazione. «Della tua messa in scena.» 

Tornai indietro nel tempo, al giorno in cui avevo deciso di mettere in atto la mia folle idea. L'amarezza e i sensi di colpa emersero. «Non credevo che fossi stato tu a trovarmi» dissi solo.

«È solo questo che ti preoccupa? Sì, sono stato io a farlo e non è stato per niente piacevole, anzi ti auguro di non dover mai trovare qualcuno a cui vuoi bene ridotto in quello stato, perché ho perso vent'anni di vita!»

«Dovevo farlo, avevo bisogno che considerassero il caso e l'hanno fatto. La Rupert l'ha fatto» parlai decisa e sicura di me senza esitare di fronte alla furia dei suoi occhi.

«No, non dovevi farlo! Potevamo trovare un'altra soluzione. Potevo trovarla senza bisogno che ti autolesionassi o chissà cos'altro. Devi essere completamente fuori di testa.» Mi morsi l'interno della guancia. «Hai rischiato di andare al creatore, lo sai vero? Eri totalmente priva di coscienza e immersa in una pozza di sangue. Il tuo sangue...» si bloccò. «Era questo che volevi? Farla finita?»

Lo guardai sconvolta. «Sei tu il pazzo se credi questo.»

«Non so più che cosa credere. Non so più quando sei sincera. Non so quando menti per ottenere o farmi fare quello che vuoi. Non so più niente: ecco come mi hai ridotto e mi ritrovo ancora adesso a combattere una battaglia contro di te che non mi sento più di voler intraprendere. Non a queste condizioni: non so se posso più fidarmi, lo capisci?» non seppi controbattere. Ferita. «Ho compromesso la mia carriera per te e l'unica cosa che mi hai saputo dire era che non volevi noi. Beh, ora sono arrivato al punto in cui voglio lo stesso» concluse.

Sentii la rabbia crescere dentro di me per la cocciutaggine e il vittimismo di cui si stava macchiando. «Nessuno te lo ha chiesto e poi sei un pessimo bugiardo, Jonathan Walker. La verità ho imparato a leggertela negli occhi già da un pezzo.» Serrò le mascelle. «Hai ascoltato una sola parola di quanto ti ho detto?» gli chiesi.

«Ho ascoltato, ma non c'è più modo di tornare indietro. Ogni possibilità l'abbiamo persa quando hai deciso di sbarazzarti di nostro figlio.» Fu come ricevere uno schiaffo in viso e mi ritrassi, lasciandogli spazio e libero accesso alla portiera che non esitò ad aprire. «E per la mia carriera, invece, dovrebbe interessarti perché ora ho le mani legate dopo tutto il casino che ho combinato per cercare di aiutarti. Siccome sei stata tu a supplicarmi di farlo e come un'idiota non ho esitato a farlo neanche un secondo. Ero a un soffio dalla promozione a cui stavo lavorando da anni e ho buttato tutto nel cesso in un secondo per te» mi accusò. «E come mi hai ripagato?» ci fissammo negli occhi. «Come mi hai ripagato, Vivienne?» alzò la voce in mezzo al parcheggio. Rise sarcasticamente, quando capì che non avrei risposto. 

«Non credo che tu abbia ben chiaro quello che sta succedendo in questo momento: non mi sto scusando, non ti sto chiedendo di tornare indietro o di essere la coppia migliore dell'anno. Sto solo cercando di farti capire quello che inevitabilmente sono arrivata a provare ma sembra quasi che tu sia terrorizzato dal sentirlo tanto quanto lo sono io a dirlo» lo presi in contropiede.

Sbatté la portiera e sobbalzai spaventata e inconsciamente mi portai una mano sulla pancia come per potermi proteggere. «Non ti azzardare a dirlo. Non adesso. Non lo voglio sentire e non voglio sentirlo uscire dalla tua bocca.» Mi trucidò con lo sguardo fuori di sé: era stato tutto un errore e la situazione mi stava sfuggendo di mano ma finì per esplodere quando abbassando lo sguardo, si accorse del mio gesto. Alzò gli occhi su di me, irrigidendosi, così potei leggere tutta la confusione che attraversò i suoi occhi blu come il mare. Tolsi la mano ma ormai era troppo tardi perché aveva già tratto le sue conclusioni. «L'hai tenuto?» chiese con voce spezzata. Nei suoi occhi lessi speranza che sostituì in fretta con la solita freddezza. «Hai ancora intenzione di farlo?»

Scossi la testa. «No, voglio tenerlo.»

Non reagì per qualche attimo tanto che iniziai a preoccuparmi, poi notai una leggera commozione nei suoi occhi nel sentirmelo dire. Accennò un sorriso e distolse lo sguardo. Si appoggiò con tutto il peso del suo corpo all'auto e si lasciò andare a un pesante sospiro, portò una mano al volto a strofinarsi gli occhi per riacquistare il contegno. «E ora che vuoi fare?» domandò.

«Mi trasferisco. Ho perso il lavoro e ormai non ho più nessuno che mi trattenga qui» risposi. 

La sua espressione non mutò ma la sua postura cambiò, facendomi intuire che la mia iniziativa lo innervosiva. «E dove andrai?» 

«In una cittadina sulla costa, ho voglia del mare.»

Non riuscì a trattenere un sorriso e lo imitai, poco dopo. Ritornò serio e mi fissò intensamente. Annullò la distanza tra noi. «È un'ottima idea, Vivienne. Spero che tu possa essere felice laggiù.» Il suo volto si chinò sul mio e la sua risposta mi commosse: finiva sempre per mettere i miei desideri al primo posto e capii solo ora che eravamo arrivati al capolinea. Non mi aveva chiesto se potesse seguirmi e non trovai la forza per chiederglielo perché sapevo che non sarebbe stato giusto, non dopo quanto lo avevo fatto penare e sapendo che avrebbe dovuto rinunciare alla sua carriera per lanciarsi nel vuoto con la sottoscritta. Chiusi gli occhi, sentendo i nostri nasi sfiorarsi e dovetti resistere dall'impulso di lanciarmi sulle sue labbra con bramosia. Arrivò a sfiorarle lui stesso e non mi mossi perché volevo che fosse lui a decidere. Volevo che fosse vero questa volta e quando si ritrasse, trattenendo il respiro, lo rispettai e indietreggiai di qualche passo. Non lo guardai in viso per evitare di lasciarmi incatenare dal suo sguardo e alla fine la sua voce risuonò nel parcheggio. «Ti porto a casa.» Si voltò, dandomi le spalle e lo seguii in macchina. 

Si fermò davanti a casa mia e stavo per scendere, quando la sua voce mi fermò. «Non sono riuscito a mantenere la promessa, Vivienne.» Mi voltai perplessa dalla sua ammissione e temetti di sentirne la spiegazione. «È fuori su cauzione, ho ritenuto che dovessi saperlo.» Una morsa mi stritolò lo stomaco nel sentire che James fosse ancora in circolazione. Non trovai nulla da dire e l'ansia mi colse perché ora avevo anche questo piccolo esserino da proteggere e non fu difficile immaginare l'ira che doveva essersi impossessata di James dopo quanto era successo sulla barca. Mi tremarono le mani per la seconda volta nella giornata ed ebbi paura, paura di qualcosa che non sarei riuscita a controllare o che avrei potuto fare per salvare me e coloro che amavo. «Non si avvicinerà a te. Ho fatto appostare un'autovettura con due agenti lungo la via, se dovessi avere bisogno non esitare a chiamarli.»

Ci rimasi male perché intuii che lui se ne sarebbe andato. «Non... non potresti restare?» osai chiederglielo. Notando la sua espressione, volli precisare perché non ci fossero fraintendimenti. «Non ti sto chiedendo di restare per sempre, Jon. Ti sto chiedendo di restare ora.» Portò lo sguardo davanti a sé indeciso, oppure codardamente non trovava un modo gentile per liquidarmi. «Ti prego, resta con me.» Non avevo mai supplicato nessuno ma fui sincera: volevo davvero che restasse. Volevo che restasse con me per sempre ma non volevo illudermi, sognando l'impossibile. Lo avevo pregato e capii di aver fatto un errore subito dopo perché spezzò quel poco che mi era rimasto.

«No, non è il caso...»

Annuii impercettibilmente e uscii dall'auto, sbattendomi dietro la portiera. Mi avviai verso casa ed entrai, chiudendo subito la porta e appoggiandomi contro di essa. Le emozioni per colpa della gravidanza erano ampliate a livelli cosmici e mi sentii in errore per il casino che avevo combinato, finendo per perdere l'unica persona che aveva mostrato... Mi ero giocata tutto un'altra volta e avevo perso come sempre.

Appoggiai la borsa e la giacca, per poi avviarmi verso il bagno con l'intento di sciacquarmi il volto e darmi una sistemata dopo la visita all'ospedale. Alzai il volto e mi rispecchiai di fronte a me stentando a riconoscermi, perché mi era bastato sentire il nome del mio fratellastro per ricadere nel baratro. Non ero forte, ma mi piaceva illudermi che lo fossi.

Mi resi conto solamente dopo del silenzio in cui ero avvolta e mi colse una strana e inquietante sensazione. Aprii l'armadietto davanti a me e afferrai l'oggetto che mi ero procurata, infilandomelo nella tasca della tuta che indossavo, per poi uscire dal bagno.

Dov'era il gatto?

Era solito venirmi sempre incontro non appena varcavo la porta di casa e invece non lo avevo ancora visto. Mi aggirai per la casa, chiamandolo, ma non lo trovai da nessuna parte fino a quando non arrivai davanti alle scale che conducevano allo scantinato e dei brividi mi percorsero nel ricordare la mia infanzia e quello che avevo passato. Presi coraggio e scesi. La luce non funzionava e imprecai perché le stesse paure tornarono a galla senza che potessi far nulla per impedirlo ma se fosse andato lì sotto, lo avrei trovato. Ridussi gli occhi in due fessure e quando vidi quel tremendo ammasso di pelo immerso nel buio, sorrisi, ma la mia gioia durò solo un secondo perché poi mi resi conto che in realtà non si muoveva. Era disteso sul terriccio del seminterrato. Avanzai come un automa verso di lui, mi inginocchiai al suo fianco e mi portai una mano al volto sconvolta: gli aveva tagliato la gola. La vista mi si appannò e diverse lacrime scesero copiose sul mio volto mentre non riuscivo a distogliere gli occhi da quel gatto che alla fine mi era stato amico senza chiedere nulla in cambio. Il mio bellissimo gatto rosso che era arrivato dal nulla in una giornata d'autunno. Lo accarezzai anche se ormai non c'era più battito e i miei singhiozzi rimbombarono nel seminterrato.

«L'ho sempre odiato quel gatto», disse.  

Il terrore mi avvolse e mi voltai per guardarlo con tutto l'odio possibile. Indietreggiai, vedendo che James stava avanzando verso di me, fuoriuscendo dall'oscurità in cui si trovava. «Ma odio ancora di più vederti piangere, Lara. Non l'ho mai sopportato.» Piansi perché non vedevo più la luce infondo al tunnel; piansi perché mi sentii in trappola e persa come mai lo ero stata. Scossi la testa perché non si avvicinasse ma ovviamente non mi diede ascolto. «Il tuo pianto mi tormentava allora e continua a farlo ancora nei miei incubi. Io non ce la faccio più, ho bisogno di te. Ho bisogno di sentirmi ancora parte di qualcosa e solo tu lo rendi possibile.»

La voce mi uscì flebile. «Non è lo stesso per me, il solo vederti mi disgusta e il fatto che tu sia andato avanti lo stesso anche sapendo chi fossi, mi nauseabonda. Sei malato...» la sua espressione si fece di marmo e annullò la distanza che ci separava. Notai delle lacrime nei suoi occhi e mi fecero ribrezzo tanto che non riuscii a fermare le mie. «Lo so che hai sofferto. Lo so che quell'uomo te ne ha fatte di tutti i colori ma non è diventando come lui che riuscirai a sentirti meglio.»

Mi fissò scioccato dal fatto che lo stavo paragonando all'uomo che ci aveva rovinato l'infanzia. «Io ti ho protetta quando nessun altro lo faceva.» 

«Lo so e ti ringrazio ma ero solo una bambina, James, e non è stato sufficiente.» Mi guardò confuso. «Io mi fidavo di te. Mi fidavo e per colpa tua non riesco più a farlo.»

Mi prese per le spalle. «Non puoi farmene una colpa, ho perso il controllo solo...»

«Non è stata solo una volta. È di questo che ti sei convinto? Hai sempre perso il controllo e continui a farlo anche ora. Non si è trattato solo di un caso a sé, sei sempre stato violento: ti rifacevi su di me. Ti divertiva vedermi soffrire allora e ti diverti anche ora.»

«Ma che stai dicendo?» domandò, scioccato.

«La verità! Hai ucciso, James. Hai ucciso delle persone innocenti, te ne rendi conto? Delle persone a cui tenevo e che mi stavano aiutando a guarire da tutto questo schifo e poi sei tornato» sbottai. «Perché l'hai fatto? Mi hai rovinato la vita, lo capisci?» 

Mi disse di fare silenzio e mi avvolse tra le sue braccia. M'irrigidii e cercai di sottrarmi dalla sua presa inutilmente, perché mi strinse a lui. Toccarlo, ora come ora, mi portò alla pazzia e piansi istericamente. Appoggiò il volto al mio e mi sussurrò qualcosa che non riuscii a capire ma che identificai con le stesse parole che era solito dirmi per farmi calmare da bambini. Sentii il mio cuore diventare di pietra a ogni minuto che passavo in sua compagnia e infatti man mano i singhiozzi si placarono, così come l'attacco isterico. Se ne attribuì il merito ma, in realtà, era che avevo annullato qualsiasi cosa per vedere con più chiarezza cosa avrei dovuto fare per poter essere finalmente libera.

Perché come al solito ero sola ma non sarei stata più inerme a subire, non questa volta.

«Non è così, sei diventata più forte grazie a me. Non sei più quella bambina terrorizzata nello scantinato» mi fece notare.

Sbattei le palpebre tra incredulità e la follia. «Ti sbagli, non lo sono mai stata. Eri tu, non io. Io avevo paura di te e basta, che è molto diverso.»

Mi scrutò in silenzio prima di distanziarsi deluso. «Hai ragione.» Rimasi perplessa dalla sua concessione. «Chiunque non sarebbe sopravvissuto a quello che hai dovuto passare, compreso me, ma non tu. Tu no, non avevi paura allora e non ce l'hai nemmeno adesso. Tu avresti dovuto essere morta e invece sei ritornata più forte di prima.» Aveva una certa considerazione di me che non immaginavo nemmeno. «Mi dispiace solo di non esserci stato per poter crescere insieme, per vederti crescere e diventare quella che sei ora.»

L'odiavo e odiavo il modo in cui mi faceva sentire. Mi spogliava delle mie poche sicurezze e mi faceva sentire sporca.

«James, il nostro tempo è finito e se mi vuoi bene come dici, allora dovresti voltarmi le spalle e andartene. Vivi la tua vita lontano da qui e da me. Fai come se quella bambina fosse morta davvero tanti anni fa, perché nei fatti è così: Lara è morta in quel seminterrato al tuo fianco. Per mano tua.»

Mi fissò sotto shock, cercando di metabolizzare quanto veramente gli stavo chiedendo, ma James non era mai stato furbo. Mai. E infatti non comprese cosa davvero fosse meglio per lui. «Non posso. Voglio potermi prendere cura di quella stessa bambina che non smetteva un attimo di chiamarmi sorridente a ogni minuto. Voglio al mio fianco la donna che sei ora, perché la tua presenza mi permette di soffocare gli incubi di quegli anni. Voglio condividere tutto e lo voglio ora. Non m'interessa di chi è il bambino che porti in grembo, perché lo crescerò come se fosse mio.»

«E Walker?»

Sorrise sinistramente. «Non ci darà più fastidio, non ti preoccupare.» Sentii la nausea crescere dentro di me, la paura di quello che avrebbe potuto fargli e come lui anche la sua gente, mi soffocò. Si chinò su di me, posizionando una mano sul mio addome. Lo guardai tesa mentre mi tirava verso di lui. «Solo io e te contro il mondo, che ne dici, eh?»

Sentendogli ripetere la frase che ero solita scambiarmi con Arthur non ci vidi più. Lo fissai mentre si calava verso di me per lasciarmi un bacio dolceamaro sulle labbra. Non mi opposi e gli permisi di muoversi su di esse soddisfatto per aver ottenuto quello che finalmente voleva: me. Non c'era niente che lo avrebbe fermato: il sangue che ci scorreva nelle vene, né l'odio che provavo ma che si ostinava a voler ignorare. Non era nessuno per me: non era stato un fratello, non era stato un amico, non era stato un alleato, era stato solo il ragazzino che aveva cercato di mandarmi al creatore fin troppe volte e che c'era quasi riuscito. Ed era stato anche l'uomo che aveva abusato di me, assassinato e minacciato le poche persone a cui tenevo, finendo per non lasciarmi altra scelta perché sentivo dentro di me che non sarebbe mai finita. Non era stato nessuno e glielo avrei dimostrato perché il bacio che gli avevo concesso e che si era preso senza troppe domande, era in realtà il bacio di giuda.

Sgranò gli occhi e mi fissò incredulo. Ritrassi la siringa dal suo collo e la guardò in trance, stretta tra le mie dita, per poi crollare in ginocchio ai miei piedi. Lo fissai dall'alto in basso mentre lentamente venivano meno le sue forze e quando si distese al suolo, mi piegai sulle ginocchia perché vedesse bene il mio volto e sentisse le mie parole. «Va a dormire, James.» Provò a dire qualcosa ma non ci riuscii, anche se di sicuro non gli era sfuggita la risonanza con quanto aveva osato dirmi in quell'orrendo vicolo dietro casa sua. Lo fissai in attesa che crollasse definitivamente ma ciò non avvenne e scoprii essere più resistente del previsto: cercava di rimanere sveglio a tutti i costi, così ne approfittai per dirgli le mie ultime parole. «Non vedrai più la luce del giorno. Non vedrai più i tuoi figli, non vedrai più me. Rimarrai per l'eternità chiuso in una bara, immerso nell'oscurità che tanto odi.» Un fremito lo colse e capii di averlo terrorizzato. Mi avvicinai al suo volto e glielo sussurrai sicura e crudele. «La prossima volta che vuoi giocare col fuoco ricordati di controllare le fiamme perché se non lo farai a dovere, divamperà l'incendio e nessuno potrà salvarti.» Mi alzai e provò a muovere un braccio per trattenermi ma ogni suo sforzo fu inutile. Lo sentii grugnire ma la paralisi ormai era in atto. Mi avviai verso il mobile che tenevo nello scantinato e presi la pistola che vi custodivo da quando era ricomparso nella mia vita e ritornai verso di lui che ora mi guardava allarmato, con gli occhi sbarrati per lo sforzo.

«Ricordi cosa ti ho detto sulla barca?» domandai, con una voce che a stento riconobbi. Mi fissò con gli occhi fuori dalle orbite. «Che il sangue che ti scorre nelle vene non ti avrebbe salvato e così sarà, perché niente potrà farmi cambiare idea dallo spedirti all'inferno. Per Spencer, per i miei genitori e per quello che mi hai fatto da quando ne ho memoria.» Impugnai l'arma con più fermezza, sentendo i suoi occhi fissi nei miei in una sorta di supplica. Di preghiera che ero più che sicura non avrei ascoltato né ora né mai.

Lo avevo detto e ridetto che temevo di più quello che avrei potuto fare per essere finalmente libera da tutto questo dolore e ormai non avevo più nulla che mi trattenesse dal farlo.

«Lara... sono tuo fratello. Sangue del tuo sangue» sibilò a bassa voce, tra la vita e la morte e l'osservai, sentendo scivolarmi addosso il peso che le sue parole comportavano. Mi trovai a dover lottare tra ragione e sentimento. Impugnai l'arma e gliela puntai contro. Aspettai. Una piccola concessione da parte mia. E quando vidi che le sue palpebre si chiusero e il suo respiro si fece regolare, portai le dita sul grilletto.

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