Capitolo 33 - Il Perdono

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James

Stavo fissando il nulla da una buona mezz'ora senza riuscire a pensare ad altro, avevo un unico chiodo fisso ed era sempre lo stesso. Agatha era distesa al mio fianco e il suo respiro mi stava facendo compagnia. L'avevo stretta a me senza provare nulla, solo il vuoto assordante di sempre. La sentii svegliarsi e stringersi a me. «Mi sei mancato, James.» Non dissi niente e si voltò verso di me. «Mi dispiace di averlo fatto entrare, ho fatto un casino.»

«Non è colpa tua.» Fissai un punto indistinto davanti a me, pensando a tutt'altro.

«Non ho detto niente in centrale, così come anche Clere.»

«Lo so, so che posso fidarmi di te, anzi sei l'unica di cui mi fido» sussurrai.

Si allungò per lasciarmi un leggero bacio sulla guancia riconoscente. «Sarò sempre dalla tua parte, sempre.» Sapevo che le sue parole volevano intendere ben altro e che non aveva mai smesso di sperare in qualcosa di più da parte mia, ma aveva sempre avuto paura di sbilanciarsi troppo per timore di una mia reazione negativa.

«Lo so.»

Restammo in silenzio, nessuno dei due aggiunse più nulla, persi ognuno nei propri pensieri fino a quando non sentii piangere mio figlio. Non mi mossi, sapendo che fosse con Clere ma quando passò diverso tempo senza che avesse smesso neanche un secondo, mi alzai. «Non andare.»

«È mio figlio, Agatha.» 

Non osò contraddirmi e, dopo una lunga ed eloquente occhiata, me ne andai dalla stanza. Trovai Clere in cucina intenta a cercare di fare calmare Marcus inutilmente. Alzò gli occhi su di me. «Scusami, non era mia intenzione svegliarti.» Le dissi che ero già sveglio da un po' e mi porse il bambino. Non era più stata la stessa dopo la sua fuga e il terrore provato nello sgabuzzino in cui l'avevo rinchiusa le era servito da lezione: voleva andarsene con mio figlio e sapeva che non glielo avrei mai permesso e poi l'intrusione di Walker nella mia casa non aveva fatto che alterarmi ancora di più. Ma se volevo ottenere che non tentasse più di fare qualche sciocchezza, l'unico modo era la violenza e lo avevo provato sulla mia stessa pelle.

Avvolsi Marcus nelle mie braccia e portai la mia bocca vicino alla sua testa, sussurrandogli delle parole che subito lo fecero calmare. Sbadigliò e alzò i suoi occhi verdi su di me, mi ci specchiai, trovandoli così simili ai miei e a quelli di Lara da stregarmi. Lo baciai dolcemente e lui si appoggiò alla mia spalla tranquillo e pronto per un'intensa ora di sonno. Abbassai lo sguardo su Clere che mi osservava con attenzione. «Come riesci a calmarlo tu non ci riesce nessuno.» 

Sorrisi orgoglioso di me stesso e del mio bambino.

Volevo essere a tutti i costi un buon padre e loro non facevano che darmi la conferma che stavo facendo un buon lavoro. Volevo essere il padre che non avevo mai avuto, volevo essere migliore e speravo di riuscirci. 

«Dovresti lasciarla in pace», disse dopo un po'. Abbassai gli occhi su Clere e quando capii a che cosa si stesse riferendo o meglio a chi, mi irrigidii. Distesi mio figlio nel seggiolone e una volta libero, mi voltai verso di lei. «Ci hanno fatto domande su una certa Cataldi e non so come ma ho capito. Ho capito, James. Non farai che metterti nei guai.» Non so perché la lasciai parlare. «Ti stai esponendo troppo e per cosa? L'hai detto tu stesso che non ti perdonerà mai.»

Mi avvicinai a lei che mi fissò timorosa. «Lo pensavo, ma forse è possibile: ho trascorso questi giorni con lei e mi è quasi sembrato che il tempo non fosse mai passato.» Mi guardò compassionevolmente e non lo sopportai. «Non sei stata tu a dirmi che tutti meritiamo una seconda opportunità?»

Si prese un attimo, prima di pormi una domanda: «E lei te la vuole dare, James? Te lo ha detto lei?»

Distolsi lo sguardo preso in contropiede da una verità che non volevo accettare. «Me la darà, sono suo fratello.» Sorrise e la fissai sorpreso dal suo coraggio. «Cos'è che ti fa tanto ridere?»

«Che sembri tutto tranne che suo fratello: la vuoi con talmente tanta disperazione da agire come un cieco. Rubi, togli la vita per quella che chiami tua sorella ma nei fatti non lo è, e scommetto che questa Lara la pensa nello stesso identico modo.» 

Sentii la rabbia attraversarmi e l'afferrai per la camicia da notte che indossava. La sua espressione mutò, pentendosi di aver aperto bocca. «Che fine vuoi fare, eh? Non ti è bastato quello che ti ho già fatto. Ne vuoi ancora?»

Portò le sue mani sulle mie che stringevano il suo sottile vestito. «Ascoltami, sto cercando solo di farti capire che non ti puoi fidare. Non ti perdonerà per quello che le hai fatto allora, figurati se riuscirà a farlo per quello che sei stato capace di fare adesso.» La strinsi nella mia presa ferito dalle sue parole, non volendo credere che fosse la verità. Non avevo fatto altro che sperare che mi stesse dando un'altra possibilità ma se aveva ragione questa stupida ragazzina che stavo arpionando tra le mie stesse mani, allora era probabile che Lara mi stesse prendendo in giro. Una scossa elettrica mi attraversò e decisi che in giornata sarei passato a fare un controllo di persona. «Te lo sto dicendo solo perché tengo al padre di mio figlio.» La scrutai indeciso se sfogarmi su di lei o meno ma, per quanto fosse stata stupida, non riuscii a non pensare che forse avesse ragione. «Credi che non sapessi nulla, so la vita che fai e non mi è mai importato perché non sei una cattiva persona. Non lo sei. Puoi essere diverso se solo lo volessi. Conosco i tuoi incubi, così come le tue paure, perché sei stato tu stesso a raccontarmeli ogni notte da quando sono qui e...»

«Falla finita!» le sibilai in faccia. «Non voglio più sentirti fiatare.» La liberai dalla mia presa, spingendola a distanza da me. Mi fissò scossa ma anche adirata. Sbuffai scocciato, per poi avviarmi fuori dalla stanza.

«So che sei stato tu a uccidere quel professore.» Mi bloccai sui miei stessi passi e mi voltai verso di lei: l'avevo sempre creduta quella più innocua, quella più stupida rispetto ad Agatha ma dovetti ricredermi. «La sera della sua scomparsa sei entrato da quella porta ricoperto di sangue.» L'osservai e cercai di capire quali fossero le sue intenzioni, sentendo venir meno il controllo. Sentendomi minacciato. «Che ti aveva fatto, James? Che ti aveva fatto?»

Sorrisi gelidamente, per poi annullare la distanza che ci separava e l'afferrai per il suo esile collo. «Voleva ciò che era mio, solo questo.»

Sgranò gli occhi, fissandomi in modo disarmante. Strinsi e mi guardò. Senza timore. «Che vuoi fare, eh? Uccidi anche me adesso? Davanti a tuo figlio?» La fissai apaticamente e stavo per spezzarle il collo, quando squillò il telefono. Ci fissammo qualche secondo, poi la lasciai andare controvoglia. «Per adesso no. È solo rimandato.» 

Sbiancò. Afferrai il cellulare e risposi tenendola d'occhio. «Ho un lavoro per te, Crawford...» ascoltai quanto il mio capo aveva da dirmi e confermai l'orario e il luogo pochi minuti dopo, poi aggiunse qualcosa che mi lasciò interdetto per qualche secondo. «Ah senti, liberati di Walker e fai in modo che sia un lavoro pulito, non voglio problemi.» 

Guardai Clere per controllare che non stesse ascoltando ma sembrava persa nei suoi pensieri.

«Sarà un piacere.» Terminai la chiamata, sentendo la sua risata in sottofondo, poi mi soffermai sulla donna che ora mi guardava allarmata. «Salva per un soffio. Tieni d'occhio l'orologio, Clere.» Mi avviai verso la porta con la sua espressione confusa impressa nella mente, così decisi di divertirmi ancora un po'. «Perché hai i minuti contati.» 

Più bianca di così non poteva diventare, eppure ci riuscì. Le sorrisi, per poi uscire dalla stanza e avviarmi verso la porta, afferrando le chiavi.

«James, torna vivo, per favore.» Agatha comparve dalla stanza mentre si copriva con una vestaglia. «Qui abbiamo bisogno di te.» La guardai e me ne andai senza dire nulla perché in fondo non vi era mai certezza che i colpi andassero bene, ma ci si sperava per la propria incolumità.

Mi appostai con la macchina davanti al magazzino in cui mi era stato detto di presentarmi e attesi che uscissero gli uomini con il bottino che mi era stato indicato. Fu un lavoro veloce e non appena li vidi uscire dall'edificio, accesi il motore pronto a fuggire lontano. Sentimmo le sirene in lontananza ma ormai era troppo tardi anche solo per raggiungerci. Li aiutai a scaricare la merce nel deposito scelto, poi ognuno andò per la sua strada come da manuale. Io non conoscevo loro e loro non conoscevano me. L'anonimato era il miglior modo per non finire nei guai, questo insieme agli altri mille trucchi che mi erano stati insegnati.

Tornai verso casa con l'adrenalina a mille e, salendo le scale, trovai uno dei miei figli, il maggiore a sedere sulle scale. «Che fai qui fuori, eh?»

Mi guardò con l'espressione che era tipica di Agatha quando non sapeva se essere nel torto o meno. «Ti aspettavo.» 

Gli sorrisi, poi lo afferrai per prenderlo in braccio e avviarci insieme all'interno dell'appartamento. Mi si aggrappò e lo strinsi a me, beandomi del calore del corpo di mio figlio. Entrai a fatica, lo tenevo ancora tra le braccia, ma non volevo metterlo giù visto che si era addormentato. Mi avviai verso la sua camera, gettando una rapida occhiata verso la cucina dove trovai Clere che non osò nemmeno alzare lo sguardo su di me e poi mi scontrai con Agatha che addolcì lo sguardo non appena ci vide.

«Com'è andata?» mi domandò curiosa, mentre entravo nella camera dei bambini per depositare mio figlio nel suo letto.

«Bene, come sempre.» 

Provò a tirarmi verso la camera da letto, ma rifiutai perché avevo ancora in testa le parole che mi aveva detto Clere a tormentarmi e non sarei riuscito a liberarmene fino a quando non andavo ad appurarmene di persona. Mi buttai sul divano e cercai di non agire in maniera affrettata perché volevo fidarmi di Lara, non ne potevo fare a meno: mi fidavo di lei.

Sì, mi aveva pugnalato alle spalle ma aveva avuto le sue ragioni. Se pensavo alla trappola che mi aveva teso con la sua pazza idea di accusarmi di aggressione, quando in realtà sapeva benissimo che non l'avrei mai picchiata, figurarsi accoltellarla. Non le avrei mai fatto del male semplicemente: le volevo bene più che a me stesso, era parte di me e per mia sfortuna era anche sangue del mio sangue ma era sempre la mia piccola Lara e niente e nessuno lo avrebbe cambiato. Qualcuno sì, ci aveva provato, ma non era più qui per poterlo raccontare.

Sorrisi al pensiero di quell'idiota di un professore: aveva osato sfidarmi e guarda com'era finito. Per i suoi genitori mi era costata fatica farlo ma sapevo che con loro in circolazione non avrebbe mai avuto il coraggio di andarsene con il sottoscritto e poi sarebbero stati un ostacolo, soprattutto suo padre: l'amava troppo ma d'altra parte lo capivo, Lara aveva da sempre avuto un fascino e una bellezza fuori dal comune. Era una pietra rara. Era la mia pietra e non l'avrei ceduta a nessuno perché senza di lei non ero niente. A malapena respiravo mentre da quando l'avevo ritrovata, mi sembrava quasi di poter volare, mi sentivo vivo come mai mi era successo. Non la volevo perdere e non potevo credere che in questi giorni mi avesse illuso su un possibile futuro insieme, non l'avrei mai accettato, così mi alzai pronto ad andare da lei.

«Stalle lontano, James.» 

Ignorai il vano tentativo di Clere e mi avviai verso la porta con il mio obbiettivo ben chiaro nella testa. Cercai l'auto e una volta trovata, vi salii e ingranai la marcia.

Arrivato davanti a casa sua, parcheggiai e attesi in auto indeciso sul da farsi: volevo fidarmi, volevo credere che lo volesse tanto quanto me e continuai a ripetermelo per convincermene ma fu tutto inutile, perché quando dopo una buona mezz'ora l'avvistai uscire di casa, mi tesi inevitabilmente. Non era la prima volta che la seguivo o la pedinavo e non sarebbe stato difficile neanche questa volta perché nei momenti meno opportuni faceva l'errore di sottovalutarmi: era così ingenua da farmi tenerezza.

Quando compresi la sua meta però sentii la rabbia scorrermi nelle vene, perché sapevo perfettamente da chi stesse andando. Fermai l'auto vicino al molo e incredulo la guardai camminare lungo il pontile, per poi correre tra le braccia di quel bastardo di agente che non faceva altro che rovinare la vita e gli affari a tutti quanti. Mi diedero la nausea ma invece che soffermarmi su di lui, altrimenti lo avrei ucciso seduta stante, osservai Lara e qualcosa mi si spezzò dentro perché con me non era mai stata così. Con me fingeva e me ne resi conto solo ora. Aveva passato le ultime giornate tra me e lui e mi ero lasciato fottere come un idiota. 

Li osservai salire sulla barca del poliziotto sempre più scioccato perché non capivo il comportamento di quella che lui credeva essere Vivienne: sembrava quasi innamorata di quel tipo e al solo pensiero sentii la furia scatenarsi dentro di me per il terrore di perderla, poi cercai di concentrarmi sulla prima giustificazione possibile per non condannarla istantaneamente dall'avermi mentito.

Guardai la barca lasciare il porto e sentii il mio controllo andarsene con loro nell'immaginare le sue mani su di lei e chissà cos'altro. Loro due soli sulla barca, lui e la mia Lara, e allora non ci vidi più tanto che decisi di rischiare tutto e di portare a termine adesso il mio incarico. Forse era una follia ma non mi fermai a pensarci, perché l'unica cosa che volevo era piantargli una pallottola in fronte prima che riuscisse a rubarmi la donna che per crudeltà del destino era anche la mia sorellastra.

Rimasi seduto all'interno della mia auto, poi afferrai la pistola che ero solito portarmi dietro e aspettai. Attesi che calasse il sole per non essere visto e per agire con più scaltrezza. E lì immobile sentii la rabbia crescere dentro di me a ogni minuto che passava. 

Quando finalmente fece buio, uscii dall'auto prima di dirigermi verso il porto.

Trovai la barca che faceva al caso mio, lontano da occhi indiscreti, e a bordo vi era solo un anziano signore. Con una scusa attirai la sua attenzione e lui stupidamente mi si avvicinò, per poi rendersi conto troppo tardi che fosse l'errore più grande della sua vita perché gli sparai con il silenziatore alla nuca e, dopo averlo buttato nel fiume, presi il comando della barca.

Solcai le acque del fiume alla loro ricerca, dirigendomi nella direzione da dove gli avevo visti scomparire e una volta trovati, gioii e silenziosamente mi affiancai alla loro barca legandola ad essa. Vi salii con scaltrezza e non potei fare a meno di notare che era immersa nel silenzio più totale e le mani mi tremarono per la furia che mi attraversò nel trarre le mie conclusioni.

Entrai nella cabina e mi trovai davanti l'immagine che più temevo: loro due insieme, l'uno di fianco all'altro nel letto di lui e persi il controllo. Impugnai in una morsa ferrea la pistola e senza più riuscire a trattenermi affiancai Walker e gli puntai la canna della pistola contro. Non avevo valutato la situazione, non avevo tenuto in conto i pro e i contro della mia mossa avventata, ma ormai era troppo tardi. Lo guardai aprire gli occhi e allarmarsi, non tanto per la pistola ma di vedere il sottoscritto nello loro piccolo paradiso. «Tieni chiusa quella bocca che ti ritrovi e non emettere un fiato.» 

Mi scrutò in silenzio, per poi fare l'errore più grande: si voltò verso Lara come a volerla proteggere da me e non ci vidi più. Accecato dalla rabbia, abbassai la guardia e commisi il suo stesso errore: mi persi a rimirarla dormire, sentendomi tradito, e quando capii che lo aveva fatto davvero e sotto ogni punto di vista, persi qualche colpo e infatti in un secondo l'agente mi fu addosso. Mi colpii alla nuca con forza da farmi barcollare e mi ritrovai fuori dalla cabina. Mi rialzai a fatica, guardandolo mentre si chiudeva la porta alle spalle. Mi fu addosso nuovamente ma questa volta risposi con la stessa moneta e quando riuscii ad afferrare una spranga di metallo sul ponte, lo colpii con forza alla tempia. Cadde così facilmente a terra da stupirmi. Rovistai nelle sue tasche per prendere la chiave e mi avviai a prendere quella doppiogiochista.

Non avrei mai pensato che si sarebbe risvegliato così in fretta, non con il colpo che gli avevo inferto ma avevo commesso l'errore di sottovalutarlo e così da lì in poi furono un susseguirsi di altri errori fino a quando non arrivò la polizia.

Volevo portarla via con me e non ci ero riuscito, dovevo ucciderlo e non avevo fatto nemmeno quello, avevo fallito totalmente e il mio capo mi avrebbe sgozzato in due per il casino che avevo combinato.

Una volta catturato, li osservai ricongiungersi alla ricerca del filo conduttore o di un qualsiasi particolare che mi facesse capire Lara senza riuscirci. Mi bastò però guardarla negli occhi per terrorizzarla e allora compresi che forse non era tutto perduto: avrei trovato il modo di portarla dalla mia parte in un modo o nell'altro. Fulminai con un'occhiata Walker che osò frapporsi tra me e lei, facendogli intendere che non fosse ancora finita e che non aveva avuto per nulla l'ultima parola: perché la sua Vivienne era la mia Lara, solo che ancora non lo sapeva. Lo guardai portarmela via da sotto il naso in un tacito segno di sfida e la colsi, come sempre. Perché lui, insieme a tutti gli altri che la volevano, sarebbe finito sulla lista. La lista dei perdenti.

Mi portarono in centrale dove mi misero sotto torchio e stavo andando bene, riuscendo a seguire quanto mi era stato imposto di fare e di dire, finché non comparve Walker che fu così furbo da farmi parlare di Vivienne. Sapeva che non sarei riuscito a starmene zitto e infatti così fu: spiattellai tutto e se lo sarebbe venuta a sapere Lara mi avrebbe ammazzato seduta stante. Odiava che le persone sapessero del suo passato e glielo si leggeva negli occhi. E quindi di conseguenza odiava me, ma non avevo voluto ancora accettarlo; preferivo pensare che in qualche modo mi avrebbe perdonato. Solo questo. Mi serviva questo per poter andare avanti.

Quando se ne andò, lasciandomi solo, diedi di matto in quella stanza per gli interrogatori perché avevo la sensazione che tutto mi stesse sfuggendo dalle mani.

Walker però mantenne la sua parola: ricevetti una visita da Agatha e ne approfittai per chiederle di sistemarmi alcuni affari in mia assenza e subito si prodigò per esaudirmi. Dovetti attendere solo qualche giorno prima di scoprire che mi rilasciavano su cauzione e l'espressione di Walker mi ripagò dell'ingiustizia subita. Sorrisi vittorioso, per poi tornarmene a casa mia sapendo che non avrebbero mai avuto niente in mano, se non solo vane teorie.

A casa mi accolsero felici e passai qualche giorno con loro per sopperire ai giorni di assenza. Agatha non esitò a farmi capire che le fossi mancato e così aveva subito voluto recuperare il tempo perso. Glielo avevo concesso perché sapevo che quello che le avrei dovuto dire non le sarebbe piaciuto: il mio tempo con loro era finito, non faceva piacere neanche a me doverli lasciare ma sapevo che era necessario.

Eravamo sdraiati sul letto intenti a fumarci una sigaretta dopo una lunga e movimentata sessione tra le lenzuola. Stavo fissando il vuoto come sempre ma questa volta per trovare le parole giuste da dire anche se non c'erano. Sentivo solo che era la cosa giusta da fare. «Me ne vado.» 

Si sollevò su un gomito e mi fissò tranquilla prima di farsi un altro tiro. «E quando torni?» fissai il soffitto prima di abbassare gli occhi su di lei che mi guardò con una certa curiosità, poi sembrò capire dal mio silenzio e la sua espressione cambiò. «No, James...» 

Serrai la mascella seccato da tutta questa situazione. Percorse con le dita i lividi che quel fottuto poliziotto mi aveva provocato nello scontro sulla barca e mi trovai ad ammettere, nella penombra della stanza, che mi aveva dato davvero filo da torcere: quando mi aveva fatto intendere che avrebbe sparato a Lara, mi ero bloccato perché non avevo preso in considerazione neanche l'idea che avrebbe potuto farlo, ma il suo sguardo aveva fatto intendere tutt'altro. Aveva capito subito che era il mio punto debole e lo sarebbe sempre stato. Non riuscivo a ragionare con lucidità quando pensavo a lei e ne avevo avuto la prova pochi giorni prima, perché se non mi fossi lasciato distrarre dai miei sentimenti per lei a quest'ora l'agente sarebbe stato morto.

Feci un tiro deluso da me stesso. «Ti manderò i soldi ogni mese, non vi farò mancare nulla e mi puoi credere. Lo sai quanto adoro i miei figli.»

«Non puoi lasciarci. Non puoi lasciarmi. Che ne sarà di me?» 

L'osservai indeciso sul da farsi. In fondo erano la mia famiglia ma sentivo che non era la mia vita. La mia vita era a fianco di un'altra persona che era anche lei la mia famiglia e che andava protetta da sé stessa e dal mondo. «Sei una donna forte. Te la caverai come sempre.» 

Mi guardò e notai delle lacrime solcarle il suo volto. Non l'avevo mai vista piangere e la sua reazione mi lasciò basito: loro tenevano a me e mi erano sempre state fedeli, le ammiravo molto per questo. Mi facevano sentire amato ed entrambe mi avevano donato quello che più desideravo: una famiglia. «Lo ero per te, James.»

Le sorrisi riconoscente, per poi parlare con chiarezza. «Andrò via e questo non lo può cambiare nessuno. Quello che c'era tra noi deve finire ora. Prenditi cura di Clere e suo figlio, lo sai che ti conviene tenerla dalla tua parte e poi ti potrà tornare utile.» 

Si asciugò le guance e annuì senza aggiungere nient'altro. Non capiva che cosa stesse succedendo, né glielo avrei spiegato. 

Lara era solo affar mio.

Mi alzai per poi vestirmi e, prendendo solo il necessario, uscii dalla stanza lasciandomela alle spalle. Lungo il corridoio m'imbattei in Clere che era stata a origliare tutto il tempo, tanto che mi fissò incredula ma dentro di lei sapeva che questo giorno sarebbe arrivato: era l'unica che conosceva il mio passato. Fingemmo entrambi che la nostra ultima conversazione non fosse mai avvenuta. Provai a sorpassarla ma prima di farlo mi trattenne per un braccio. «Spero che tu possa trovare un po' di pace, James», disse. «Fatti sentire ogni tanto, eh? Marcus un giorno vorrà conoscere suo padre.» 

Me ne andai senza salutare i bambini perché altrimenti non so se ce l'avrei fatta ad andarmene. Li amavo troppo, erano parte di me e la mia eredità. M'incamminai lungo la via e una volta salito in auto, mi diressi verso la solita abitazione che ormai conoscevo come le mie tasche. Sapevo esserci un'auto di pattuglia e me ne occupai come mio solito, non volevo problemi e di sicuro me ne avrebbero dati. 

Entrai in casa come se nulla fosse e la trovai vuota, ma l'avrei aspettata, tanto Lara tornava sempre e questa volta non avrebbe fatto eccezioni. Scesi nello scantinato, sentendo nascere la pelle d'oca sulla mia pelle, il terrore provato in quei giorni di oscurità e di lotta alla sopravvivenza erano ancora impressi nella mia mente quasi da stordirmi. Mi accesi una sigaretta e rimasi lì a guardarmi attorno pensieroso fino a quando non udii il gatto soffiare. Mi aveva raggiunto in fondo alle scale e aveva rizzato tutto il pelo, sorrisi perché mi odiava ma direi che il sentimento era reciproco. Stranamente quel gatto mi ricordava Lara, soffiava ma non attaccava mai, sembrava quasi studiarmi o forse aspettava solo il momento giusto. Ci fissammo e quel gatto pazzo decise proprio oggi di giocarsi la sua ultima carta perché mi caricò e mi trovai costretto a fare qualcosa di cui poi non sarei andato molto fiero.

Mi appoggiai al muro nell'oscurità del seminterrato e aspettai che venisse da me. Stavo rischiando, presentandomi qui, ma volevo lasciare la città e volevo farlo con lei. Volevo poter ricominciare e potevo farlo solo al suo fianco. La sentii entrare e sbattere con forza la porta di casa, per poi sparire in una delle stanze di sopra e così il silenzio tornò a fare da padrone.

Quando poi la udii scendere le scale, un sorriso comparve sulle mie labbra e un unico pensiero mi sorse nella testa: volevo essere migliore per lei e ce l'avrei messa tutta. Volevo essere un'altra persona, la sua persona. Sarei stato tutto quello di cui aveva bisogno e speravo solo che me ne avrebbe dato la possibilità.

L'osservai mentre si addentrava nell'oscurità in cui ero avvolto e la seguii con lo sguardo anche quando si accorse di quello stupido gatto. Non era mia intenzione farla piangere, non avrei mai pensato che ci fosse così legata. Come non avrei mai pensato che lo fosse stata di Spencer o di chiunque altro. Credevo, ed ero più che convinto, che non avrebbe mai amato nessuno e invece mi ero dovuto ricredere. Così mi trovai a sperare che, forse, fossi compreso anche io nella lista delle persone a cui teneva.

I suoi singhiozzi diventarono insopportabili tanto che decisi d'intervenire e quando s'accorse della mia presenza e si voltò verso di me, lessi qualcosa nel suo sguardo che non mi piacque. Era terrorizzata, persa, sconvolta e arresa. Avanzai verso di lei per consolarla ma indietreggiò. La guardai dritto in faccia, mentre si sfogava su di me gridando cose senza senso e cose di cui si era convinta nel corso degli anni.

Possibile che non capisse che fosse stato fatto tutto per lei? Per noi e per darci una nuova possibilità? Avevamo dovuto passare le pene dell'inferno ma questo non voleva dire che in futuro dovesse essere ancora così. Non volevo assolutamente che fosse più così e l'unico modo per poterlo evitare, era quello di fuggire via insieme, in un posto tranquillo dove le nostre paure sarebbero svanite. Era così semplice, ma sembrava non capirlo.

La presi tra le braccia e, afferrandole delicatamente la testa, le baciai la tempia inspirando il suo odore che m'infuse una calma come poche. Mi aveva sempre fatto questo effetto e non avrebbe mai smesso di farmi sentire così: al sicuro. La sentii calmarsi tra le mie braccia e me ne rallegrai, perché era solita venire fin da piccola a cercare conforto dal sottoscritto. 

La strinsi a me e per cercare di tranquillizzarla le parlai a cuore aperto. «Meriti un uomo migliore di me, Lara. Ma sono disposto a diventare l'uomo che meriti se me ne darai la possibilità.» Ci immaginai in una bella vita, io e lei insieme come due persone normali e al solo pensiero sorrisi. «Saremo felici, vedrai.» Alzò lo sguardo su di me e immersi gli occhi nei suoi che erano così identici ai miei da stordirmi ma mentre i miei brillavano per lei, i suoi erano spenti e freddi come il ghiaccio. Ero cieco e sordo ma non me ne importava. «Si nasce col male dentro e ti capisco perché anche io ho lo stesso male che provi, ma non devi fartene una colpa. Non è sbagliato. Con me potrai essere te stessa...» 

Il suo sguardo su di me fu così disarmante da annebbiarmi il cervello, era così limpido e innocente da non farmi capire più nemmeno quello che stava avvenendo. Mi chiese di andarmene e di fingere che fosse morta ma negai immediatamente perché non potevo farlo: l'avevo già persa una volta. Non ne avrei sopportata una seconda e così calamitato da una forza maggiore mi calai sulle sue labbra per suggellare un bacio fraterno, solo questo, ma quando invece mosse la sua bocca contro la mia, persi la ragione perché la desideravo.

Lara sarebbe stata la mia condanna e lo capii poco dopo, così come compresi che non aveva nulla d'innocente perché nel portarmi le mani al volto mi punse con una siringa senza che potessi far nulla per impedirglielo. 

La fissai sconvolto perché era l'ultima cosa che mi sarei mai aspettato da lei e continuai a guardarla anche quando le forze vennero meno e mi trovai in ginocchio sul terreno ancora da ricoprire. Mi osservò dall'alto, glaciale, attendendo che il siero facesse effetto e quando, piegandosi sulle sue gambe, mi sussurrò la stessa frase che avevo usato nel vicolo, capii di aver sbagliato a sottovalutarla. Avrei dovuto ascoltare Clere ma ormai era troppo tardi, perché aveva fatto la sua mossa. Non sapevo le sue intenzioni e le temevo perché non riuscivo più nemmeno a muovermi, le forze stavano venendo meno e la sonnolenza si stava abbattendo su di me ma non volevo chiudere gli occhi. Non volevo chiuderli ma lei continuava a parlare e la sua voce mi faceva paura, così come le sue parole. «Ti avevo avvertito, James, ma non hai mai voluto capire.» Sentii il mio respiro farsi più lento e la guardai sforzandomi di restare sveglio. Si alzò e pensai che stesse andando a chiamare la polizia ma quando ritornò con una pistola, mi terrorizzai. Scossi la testa e provai a supplicarla ma sembrava più fuori di testa di me. Che ti avevo fatto, Lara? Perdonami, ti prego. Ti supplico. Ma purtroppo non riuscii a dire neanche una parola, così mi trovai solo a sperare che potesse leggere la preghiera nei miei occhi. Alzò la pistola nella mia direzione e avrei voluto urlarle di farlo, così almeno finiva tutto questo dolore per una buona volta.

Se mi avesse odiato davvero così tanto e non avrebbe più voluto avere nulla a che fare con me, allora non avrebbe avuto più senso niente perché avevo cercato di sopravvivere in tutti questi anni solo per poterla ritrovare. Ma forse era stato un errore come un altro, perché era evidente che tutti i miei sforzi erano stati vani.

Notai delle lacrime uscire dai suoi occhi e trovai la forza di pronunciare un'ultima frase, sperando che riuscisse a farla desistere dal suo intento. «Sono tuo fratello» mi costò fatica ma notai qualcosa cambiare nella sua espressione. Voleva uccidermi e non gliene davo torto, lo sapeva lei e lo sapevo io che non mi sarei mai arreso, che non l'avrei mai lasciata libera, perché eravamo legati da un destino comune. Non solo era sangue del mio sangue ma era la mia vita, il mio scopo e lo era stata fin dai suoi primi anni di vita. Me ne ero preso cura finché avevo potuto e poi avevo fallito, come sempre. 

Chiusi gli occhi e sentii il sonno avvolgermi. Mi abbandonai all'oscurità con cui non avevo ancora imparato a convivere e pensai ai miei figli. Il mio bellissimo e dolce Marcus e ad Agatha, la mia compagna fedele. Avrei voluto tornare indietro e cambiare molte cose, così forse ora non mi sarei trovato a lottare tra la vita e la morte per mano della mia sorellastra. L'avevo portata al limite e alla pazzia e me ne pentii. Non sapevo se mi avrebbe dato una seconda possibilità ma non ci speravo perché, francamente, non me la sarei data nemmeno io. Non dopo il sangue di cui mi ero macchiato e non dopo quello che le avevo fatto.

Mi lasciai andare in quel limbo oscuro che precedeva la morte per quelli come me e attesi la fine. Non credevo che si potesse piangere nel sonno, ma lo feci. Piansi per un perdono che difficilmente avrei avuto. Piansi perché ero arrivato al capolinea e il giudizio per quanto avevo fatto era vicino. Piansi perché avrei voluto essere migliore ma ora... Beh, ora non avrei più potuto esserlo.

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