Capitolo 34 - Tu Rendi Tutto Più Difficile

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Jonathan

«Non potresti restare?» mi chiese. Mi voltai verso Vivienne sorpreso dalla sua richiesta tanto che esitai. «Non ti sto chiedendo di restare per sempre, Jon. Ti sto chiedendo di restare ora.» Guardai la sua abitazione innervosito dal doverla lasciare da sola, soprattutto dopo che Crawford era tornato in libertà. Ero deluso da me stesso. Avevo fallito e me ne rendevo conto solo ora. «Ti prego, resta con me» mi supplicò, ma preferii non ascoltarla. Non potevo restare e non dovevo. Mi aveva già ridotto in frantumi una volta, non avrei retto una seconda ed ero già abbastanza sconvolto per quanto mi aveva detto poco prima nel parcheggio. Ero ancora sotto shock e avevo bisogno di prendermi un momento per riflettere, per capire, e poi mi aspettavano in centrale per una riunione importante che non mi era permesso saltare.

«No, non è il caso...» 

Non mi diede neanche il tempo di finire che se ne era già andata, sbattendo la portiera. L'auto tremò in risposta e la guardai dirigersi a gran passo verso casa sua, per poi chiudersi all'interno. Mi ero espresso male come al solito ma quello che avrei voluto dire, in realtà, era tutt'altro. Imprecai e accesi il motore, per poi partire a tutto gas verso la centrale.

Le sue parole mi tormentarono per tutto il viaggio, assillandomi anche quando entrai in centrale. Mi recai nella sala in cui si sarebbe tenuta la riunione e mi sedetti insieme agli altri colleghi. Ero già in ritardo ma nessuno me lo fece notare, non ne ebbero il coraggio; forse perché la mia aura era già abbastanza nera. Provai ad ascoltare ma mi risultò impossibile perché ogni volta mi tornavano in mente le sue parole e il fatto che mi era sembrata maledettamente sincera. Giocai con la penna nervoso attirando parecchia attenzione, soprattutto dalla donna di cui cominciavo a non sopportare più neanche la vista. Mossi una gamba agitato, sentendomi scomodo sulla sedia e feci vagare lo sguardo da un collega all'altro, cercando di concentrarmi sulle parole che stava pronunciando il mio superiore.

Non saprei dire quanto tempo passò, forse una buona mezz'ora, tanto che non ce la feci più. Sentii che stavo per esplodere e quando l'ispettore richiamò la mia attenzione con una domanda, mi destai dal mio stato catatonico. «Che cos'è importante alla fine, Walker?»

Sentii tutti gli occhi su di me. Mi schiarii la voce e l'unica cosa che mi venne fu una sola. Vivienne. Ecco cos'era importante. Mi alzai sentendo stridere la sedia sotto di me. «Scusatemi», dissi solo, prima di fuggire fuori dalla stanza. Il mio superiore mi richiamò ma non vi badai. Corsi fuori. Salii in auto e ingranai la marcia per ripercorrere la stessa strada che ormai avevo imparato a memoria. Mi diedi dell'idiota: se era lei che volevo fin dall'inizio, non avrei dovuto neanche pensarci troppo.

Avevo ottenuto quello che volevo, avevo ottenuto lei e stentavo ancora a crederci. Potevamo andarcene e ricominciare, potevamo farlo e con un figlio in arrivo ero più che convinto che tutto fosse possibile. Doveva esserlo per forza, era la benedizione che stavamo aspettando per essere finalmente felici tutti e due e ne ero più che convinto. Il nostro futuro coincideva, così come i tempi. Era il nostro destino e avrei colto l'occasione senza lasciarmela scappare.

Non appena arrivai nella sua via, cercai un parcheggio con agitazione ma per trovarlo passai davanti all'auto di pattuglia che avevo fatto posizionare e frenai di colpo. Le gomme stridettero e il mio cuore perse un battito, perché i due uomini che dovevano essere dentro l'auto mancavano all'appello.

Scesi di corsa dall'auto, mettendola in sosta con le quattro frecce e perlustrai la zona. La strada percorreva il perimetro attorno a un parco e a poca distanza dall'auto trovai quello che più temevo. Non li notai subito perché era stato bravo a nasconderli alla vista dei passanti ma non quanto avrebbe dovuto e a quella scena sentii il vuoto propagarsi dentro di me, perché non erano altro che due ragazzi massacrati da un animale. Un animale che conoscevo fin troppo bene. Chiamai i soccorsi. Poi corsi verso la casa di Vivienne terrorizzato da qualsiasi possibile scenario. 

Una volta arrivato alla porta, bussai come un forsennato. Non mi rispose ed entrai nel panico, provai a fare il giro della casa per guardare dalle finestre ma sembrava vuota. Il panico mi colse e tornai verso la porta d'ingresso pronto a sfondarla, quando si aprì. Impugnai la pistola ma quando la vidi, la fissai incredulo, controllando che stesse bene. Indossava una vestaglia e sembrava essersi fatta una doccia. «Che succede, Jonathan?» mi chiese.

Guardai all'interno dell'appartamento per capire se fosse sola. «Stai bene?»

Si strinse nella vestaglia e mi studiò con attenzione, evitando di rispondermi. «Che ci fai qui? Credevo che non potessi restare.»

La osservai ma sembrava essere tranquilla a differenza mia. «Crawford è stato qui?»

«No, ma che sta succedendo?» ridomandò.

«Vorrei tanto saperlo anche io.» 

Mi guardò perplessa e mi persi nel verde che ormai amavo. Mi scandagliò senza dire nulla per diversi attimi e feci lo stesso, cercando di riprendermi dal fatto di averla appena creduta in pericolo.

Per quante potesse farmene non avrei mai smesso di preoccuparmi per lei. Mai.

«Vuoi entrare?»

Mi rilassai. «Solo pochi minuti.» 

Non capivo, però, perché avesse dovuto sbarazzarsene se poi non si era fatto vivo con Vivienne? 

«Ora non fare il prezioso, Walker. Non ti si addice.» 

Guardai la donna che ormai consideravo parte di me e mi lasciai scappare un sorriso che ricambiò. Un sorriso che però non raggiunse gli occhi. Qualcosa stonava e non capivo che cosa fosse, ma ne ebbi un assaggio poco dopo. Perché, mentre stava prendendo qualcosa da bere, vidi il suo corpo tremare e capii che stava piangendo, così mi avvicinai titubante e la sfiorai. «Ehi, che succede?» le chiesi. I singhiozzi aumentarono e mi allarmai perché non capivo a che cosa fosse dovuto il suo attacco improvviso. «Ehi, va tutto bene.» Alzò uno sguardo su di me che mi disarmò in un secondo. Indietreggiò di qualche passo per prendere le distanze ma non glielo permisi, afferrandola. «Ehi, qualsiasi cosa sia va tutto bene. Vieni qui.» L'avvicinai a me perché non l'avrei lasciata da sola, non questa volta, e poi era stata lei stessa a chiedermi di non farlo. «Tranquilla.»

Pianse, inzuppandomi la maglietta. «No, non va tutto bene.»

Le presi il volto tra le mani e le scostai i capelli dal volto per provare a capire che cosa le stesse succedendo. «Che cosa non va bene? Parlami, Vivienne.»

Non riuscì a fermare le lacrime, poi notai qualcosa attraversare i suoi occhi che la fece agitare notevolmente, infatti si distaccò da me. «No... Oh, mio dio.» Si portò le mani al petto e sulla bocca sconvolta tanto che temetti stesse avendo un attacco di panico. La rincorsi e la riafferrai per farla calmare. 

«Calmati. Sei al sicuro. Respira avanti.» Mi sorprese stringendosi a me e l'avvolsi immediatamente tra le mie braccia. La sentii piangere e qualcosa si sgretolò dentro di me nel vederla in queste condizioni. La cullai tra le mie braccia senza sapere che altro fare per consolare la disperazione che l'aveva colta. «Va tutto bene, ci sono io adesso.» Le accarezzai la schiena e piano piano il suo respiro tornò regolare e i suoi singhiozzi si placarono. Le asciugai le lacrime che le erano scese, solcandole la pelle, mentre mi scrutava attenta con i suoi smeraldi.

«Credevo che non volessi avere più niente a che fare con me.» La voce le uscì flebile.

«Lo credevo anche io. Ma poi ho capito che non c'è niente al mondo che vorrei più di te, tutto il resto al confronto è insignificante.» Lessi commozione nei suoi occhi, anche se cercò di nasconderlo. Non sarebbe cambiata mai. Sorrisi e inarcò un sopracciglio in cerca di una spiegazione. «E poi nessuna mi ha mai voluto così disperatamente come mi vuoi tu, perciò...»

Si coprì il volto in imbarazzo per le sue confidenze pronunciate nel parcheggio dell'ospedale. «Ho già il terrore che questa sia una delle tante volte in cui me lo rinfaccerai.»

Risi e lei sorrise, ma quando udì le sirene in lontananza la sua espressione cambiò, trasformandosi in preoccupazione. La tranquillizzai subito, dicendole che erano qui per me e prima di avviarmi verso la porta le lasciai un bacio sulla fronte carico di promesse. «Resta qui e non preoccuparti. Faccio sorvegliare il perimetro attorno alla casa, così puoi stare tranquilla.» 

Mi guardò e sembrava quasi sul punto di voler dire qualcosa ma, preso dell'euforia del momento, non ci badai. Me ne andai, credendo di aver sistemato le cose tra noi.

Uscii dall'appartamento e sentii il peso ripiombarmi sul petto nel pensare a quello che si era rischiato per la mia trascuratezza e quella del dipartimento e per la perdita dei due agenti che di certo non si meritavano quella fine. A questo punto non sapevo se fosse stato Crawford ma era il primo dei sospetti, feci mobilitare le forze dell'ordine per cacciare e trovare James in qualunque buco della città si fosse nascosto e se avessi scoperto che aveva violato la cauzione, non avrei avuto più pietà per nessuno.

Volò così il resto della giornata e non ero riuscito ancora a ottenere nulla che si era già fatta sera. Mi trattenni dal disturbare Vivienne, preferendo lasciarla riposare visto che mi era sembrata parecchio scossa dalla notizia di Crawford e della sua semilibertà. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare da quando avevo memoria era che volevo proteggerla, ma ogni volta mi risultava sempre più difficile: capire cosa fosse giusto per lei e cosa per me.

Stavo rischiando tutto ma ormai non si poteva più tornare indietro: avevo messo in gioco la mente e il cuore. Mi ero esposto, ora toccava a lei fare la sua mossa anche se avevamo già fatto grandi passi avanti e che mai e poi mai mi sarei aspettato. Non da lei e non dopo quanto era stata capace di dirmi pur di riuscire ad allontanarmi ma, contro ogni logica, ero ancora qui a impazzire per lei.

Mi concessi qualche ora di riposo per ricaricarmi per il lavoro del giorno dopo. La feci sorvegliare o meglio feci controllare la casa ma non mi riferirono nessun avvistamento, l'unico particolare di cui m'informarono era che la signorina Cataldi aveva chiamato un'agenzia di ristrutturazione, lì per lì mi lasciò perplesso, poi mi ricordai del motivo per cui aveva chiamato James in casa sua e dei lavori che richiedeva il seminterrato. Sapendo che voleva andarsene, pensai subito che avesse fretta di sistemare la casa prima di venderla e quando, dopo qualche giorno, decisi di andarle a farle visita, mi ritrovai davanti una realtà che mi paralizzò non capendone il senso.

I miei sottotenenti m'informarono che era stata portata in centrale per delle domande e li ascoltai come se stessero parlando ostrogoto. Corsi subito in centrale furioso con chiunque avesse avuto questa strabiliante idea. M'imbattei nella Rupert e non ne fui sorpreso. «Si può sapere che cavolo stai facendo?» le chiesi.

«Devo farle qualche domanda, Jonathan. Non sto commettendo nessun crimine.» Il tono seccato con cui mi si rivolse mi fece inalberare. La seguii dentro la stanza che precedeva quella degli interrogatori e mi bloccai nel vedere Vivienne al di là del vetro. Guardai la Rupert che era intenta a sfogliare dei fogli e glieli strappai di mano perché mi guardasse.

«La voglio fuori di lì subito, con che cosa...?»

«Ti devi calmare e poi non posso» mi interruppe. «Devo farle altre domande, potrebbe essere coinvolta.» La fissai incredulo di fronte alle accuse che mi elencò e basito dalla sua fissazione per Vivienne. «La vicina dice di aver sentito uno sparo di pistola provenire dalla casa.» Corrugai la fronte e cercai di seguire i suoi collegamenti. «Se come dici tu, ad ammazzare i due agenti è stato Crawford, è chiaro che lui non avesse una pistola perché si è divertito a tagliuzzarli con una lama.»

«Questo non prova che non avesse una pistola e spero che tu capisca che la tua teoria è campata per aria. Sono solo allusioni le tue.»

Sorrise sarcasticamente. «Sono curiosa di vedere dove saresti disposto a spingerti per lei. Sei cieco: non è innocente, non lo è mai stata fin dall'inizio e stiamo aspettando tutti il momento in cui anche tu lo capirai.» Me la indicò e portai inevitabilmente lo sguardo su Vivienne, preso in contropiede da tutta questa situazione: dovevo trovare un modo di giostrarmi e di tirarla fuori da questo fottuto casino in cui sembrava essersi cacciata un'altra volta.

Stava fumando la sua solita sigaretta consapevole del fatto che era sotto osservazione e infatti la sua espressione non lasciava trasparire nulla, così come la sua postura. La Rupert mi sbatté sul petto il suo dossier. «Chiediglielo tu stesso, fai il tuo lavoro per una volta e non farti incantare da quel bel faccino.» La trucidai con un'occhiata e mi sorpassò adirata, ma prima di lasciarmi disse: «Falla parlare ma non sarà facile, mi ricorda Crawford. Torno tra dieci minuti.»

Inspirai a fondo inevitabilmente perché non sapeva la verità su di lei e James. Solo io avevo avuto l'onore di sapere il legame che li univa e ancora stavo cercando di abituarmi all'idea.

Fissai Vivienne e il terrore mi avvolse nel pensare che il dubbio della Rupert potesse rivelarsi vero, ma sapevo anche che non sarei potuto rimanere nell'incertezza per sempre.

Era una donna imprevedibile ma sarebbe potuta arrivare a uccidere il fratellastro così a sangue freddo?

Aveva del surreale e speravo con tutto il cuore che non lo avesse fatto, ma se invece era stata capace di farlo allora... Inspirai a fondo e, dopo aver preso coraggio, entrai con il groppo in gola.

Alzò gli occhi su di me, per poi riabbassarlo subito dopo. L'agitazione mi avvolse e prima di avvicinarmi a lei, chiusi la porta di modo che nessuno ci disturbasse. Si udì solo il rumore dei miei passi nella stanza e il suo respiro non appena mi sedetti di fronte a lei. La studiai alla ricerca della verità che speravo sarebbe stata diversa da quella che temevo. «Sei venuto qui nelle vesti di poliziotto o di amico?», chiese. «Perché voglio sapere se devo chiedere un avvocato.»

M'irrigidii sempre più incredulo di fronte al suo comportamento. «Che stai dicendo? Sono qui nelle vesti di entrambi e da poliziotto ti dico che chiedendo un avvocato ammetti la tua colpevolezza, mentre come amico sono qui perché voglio aiutarti e ho bisogno che con tutta sincerità tu mi dica che cos'è successo.»

«Cosa credi che sia successo? Cosa credono che sia successo, eh? Non so perché la vicina ha detto di sentire uno sparo, è anziana magari si è immaginata tutto e poi non ho mai avuto una pistola. In tutta sincerità, non saprei neanche come usarla.»

Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia, provando a fidarmi con ogni sforzo umanamente possibile. «Voglio crederti ma quando sono arrivato hai avuto un attacco di panico e ho bisogno di sapere se...»

«Non penso proprio che tu lo voglia fare, altrimenti non saresti entrato da quella porta. Non mi credi, così come tutti gli altri» mi prese in contropiede il suo attacco. «Non ci parlo con te, Jonathan. Non dove anche i muri hanno orecchie» si zittì e riprese a fumarsi la sua sigaretta. La fissai interdetto dalla sua presa di posizione e davvero non seppi più cosa credere.

Mi alzai facendola sobbalzare e mi diressi dove sapevo avrei trovato il microfono. Lo ruppi davanti ai suoi occhi, così poteva essere certa che ormai non ci stava ascoltando più nessuno. Lei, invece che iniziare a parlare, mi guardò come se fossi pazzo.

Sì, forse lo ero ma era per colpa sua e di nessun altro.

Mi fermai davanti a lei ma questa volta rimasi in piedi e mi appoggiai con entrambe le mani al tavolo che ci divideva. «Vivienne» provai a mantenere un tono calmo. «Ci tengo molto a te e proprio per questo ho bisogno che tu mi dica la verità.»

Alzò gli occhi su di me. «Proprio perché ci tengo a te, non te la dirò mai.»

Dovetti sforzarmi per comprendere se si stesse riferendo a quello che, forse, era successo a casa sua o sul suo passato e quindi alla sua infanzia. Ci fissammo e capii che era decisa nelle sue convinzioni, come forse io non lo sarei mai stato. Provai a non farmi distrarre dai suoi giri di parole e mi concentrai su quello che davvero volevo sapere. «James è venuto a casa tua? Cos'è successo davvero e sii sincera, per favore.»

«Non hai bisogno che te lo dica. C'eri anche tu lì con me o questo non hai avuto il coraggio di dirlo ai tuoi colleghi?»

Sospirai pesantemente, poi insistetti. «Ti ho accompagnato con la macchina e poi sono ritornato solo quaranta-quarantacinque minuti dopo. In quel lasso di tempo è venuto e tu ti sei difesa...?» 

«Mi hai scaricata con la macchina. Sono entrata in casa e mi sono fatta una doccia, questo è quanto», mi disse.

«Maledizione, Vivienne!», sbottai. Sussultò. «Se hai ucciso quell'uomo con le tue mani, abbi almeno il coraggio di ammetterlo.» Mi fissò scossa dalla mia affermazione. «Nessuno te ne farà una colpa, era uno psicopatico ossessionato.» 

I suoi occhi diventarono lucidi e mi pentii dei miei modi bruschi. «Me ne farai tu.» Lessi la guerra che si stava combattendo nei suoi occhi e mi sentii privato di tutte le forze. «Non mi interessa il giudizio degli altri, temo solo il tuo.» Avvolsi le sue mani nelle mie: erano gelide. «Perché lo vuoi sapere? Non voglio perderti, Jon. Non l'hai ancora capito. Non insistere. Non lo fare.»

Gliele strinsi con forza nelle mie. «Mi perderai se non mi dirai la verità. Come possiamo altrimenti parlare di futuro con questo peso tra di noi?»

S'irrigidii e la vecchia Vivienne riemerse, quella che con tanta fatica ero riuscito a soffocare per far emergere la vera lei. «Forse allora non dovremmo. Non vuoi la mia verità, vuoi sentire solo la tua. Sei entrato qui già convinto della mia colpevolezza, mi sbaglio?» ritrasse le mani dalla mie e si chiuse in sé stessa. Non ce la feci a negare perché mi stava confondendo le idee e come lei non ci riusciva nessuno. Un leggero senso di colpa mi avvolse.

E se davvero non c'entrava nulla e stavo solo rischiando di rovinare tutto? Non trovai risposta e mi avvilii per colpa dei miei pensieri. Perché doveva essere così difficile amarla?

Ripresi. «Perché devi rendere tutto più difficile? La mia voleva essere solo una domanda, che oltretutto credo di avere il diritto di fare, e ti prometto che la tua risposta non uscirà da questa stanza.»

«Non è solo una domanda la tua. Cosa vuoi sentirti dire?»

Sbuffai sfinito da questa conversazione senza vie d'uscita. «La verità.»

Rise, amaramente. «No, invece.»

Annuii e mi avviai verso la porta con tutta l'intenzione di andarmene perché non ne potevo più di questa stupida recita. «Vuoi la verità? Va bene.» Mi voltai verso di lei, preparandomi al peggio. «Non l'ho ucciso.» La guardai e così seppi la verità. La sua verità. Fu come ricevere una doccia gelata addosso e decisi di soffocare qualsiasi altro pensiero su questa storia dentro di me. Ero stanco e capii che finalmente fosse finita, dovevo solo trovare il modo di accettare la situazione e poi forse avremmo potuto voltare pagina. Gettai un'ultima occhiata a Vivienne, facendole capire che le credevo e me ne andai chiudendomi dietro la porta.

La Rupert era lì ad osservarci attraverso il vetro e mi guardò in modo diverso, come se non riuscisse a capire che cosa fosse avvenuto davvero tra quelle quattro mura. «Che ti ha detto?» sembrò preoccupata del mio stato ma non esitai a tranquillizzarla.

«Non c'entra nulla, lasciala andare.» Non restai un minuto di più e me ne andai, non prima però di aver fatto la mia parte. «Fai in modo di trovare Crawford, deve essersi nascosto da qualche parte. A casa sua non c'è, ho già controllato.» Sapevo che mi avrebbe dato ascolto e contavo proprio su questo. Scappai via dall'edificio perché avevo bisogno di riflettere visto che dentro di me si stava combattendo una guerra tra dovere e sentimento e ora dovevo prendermi un po' di tempo per vedere chi dei due avrebbe trionfato.

Non credevo che sarei stato in grado di sopportarlo ma solo il tempo mi avrebbe dato le risposte che stavo cercando.

Vivienne fu subito rilasciata e poté tornarsene casa sua come se nulla fosse avvenuto e quando trovai il coraggio di presentarmi alla sua porta, non fu neanche per mia volontà ma per una commissione da parte del mio dipartimento.

Suonai e dopo poco mi venne ad aprire, sembrava provata e come sempre non potei fare a meno di preoccuparmi. Mi fece accomodare nell'ingresso ma non ci addentrammo oltre. «Vivienne... non c'è più traccia di Crawford da nessuna parte, sembra quasi sparito dalla faccia della terra. Ha gli agganci giusti per scomparire se vuole, ma ti prometto che l'intero dipartimento farà qualsiasi cosa in suo potere per stanarlo.» Mi guardò dritto in faccia. «Confidano che provi a lasciare il paese e a quel punto sarà facile prenderlo.» La sua espressione non vacillò di una virgola. Si avvicinò a me e la strinsi tra le braccia senza poterne fare a meno, respirai il suo odore di vaniglia e mi sembrò che nulla fosse mai cambiato. Guardando alle sue spalle, però, notai la fotografia che aveva appoggiato sulla mensola dell'ingresso e mi persi a osservare quei due bambini così simili sia nell'aspetto sia nel loro dolore già da allora da fare quasi impressione, eppure in quella foto la mia Vivienne era sorridente e si stringeva tra le braccia dell'altro bambino proprio come stava facendo con me adesso. Quel bambino non era altro che James e lo considerai un piccolo miracolo che dopo tutto quello che aveva passato la Lara di oggi avesse potuto trovare un po' di fiducia verso qualcun altro. Si meritava un po' di felicità e se non gliela concedevo io, non l'avrebbe fatto nessun altro. L'unico problema che continuava però ad assillarmi era che non sapevo se in questo momento sarebbe stato possibile raggiungerla insieme, non dopo la conversazione avuta in centrale. Ero così confuso da farmi pena da solo.

«Grazie, Jonathan.» 

Non seppi per cosa mi stesse ringraziando ma sentii i miei occhi diventare umidi e mi strinsi a lei in un incastro perfetto per avere un po' di conforto. Me lo diede a modo suo, un modo che avevo imparato ad apprezzare col tempo e che mi aveva fatto innamorare e cadere ai suoi piedi. Non sarà stata perfetta ma insieme lo eravamo, perciò il resto non aveva importanza. L'importante era che ora fosse al sicuro e mi sarebbe piaciuto averne il merito ma, da come era stato chiaro a tutti fin dall'inizio, Vivienne aveva la capacità di sopravvivere a qualsiasi prova la vita le ponesse sul suo cammino, non importava il come. L'unica cosa che contava era che fosse ancora qui con me e con nostro figlio nel suo grembo. Solo questo. Mi diedi dell'ipocrita ma volevo dimenticarmi di tutto al più presto: di essere venuto meno ai miei principi. Di essere venuto meno al mio distintivo e al mio giuramento ma purtroppo, guardandomi attorno, sentii le mie sicurezze vacillare. Ero umano e anche per uno come me tutta questa situazione sarebbe stata troppo.

Mi soffermai sulle scale che portavano al seminterrato e tutto divenne limpido, ogni cosa fu chiara e, guardandola, mi sentii male. Unii tutti i punti: l'omicidio, lo sparo, l'attacco di panico, la menzogna, la fotografia e i lavori nel seminterrato furono troppo da accettare ed esplosi letteralmente, sentendomi precipitare in un buco nero e di cui poi mi sarei vergognato aspramente. «Che cos'hai fatto?» tolsi le braccia da lei e presi le distanze sotto il suo sguardo confuso, provò a riavvicinarsi ma alzai le mani perché mi stesse alla larga. Realizzò e mi guardò spaventata perché non sapeva che cosa fare. Non sapeva cosa dire, beh non c'era niente che potesse dire. Niente. Perché mi ero fatto un'idea di una Vivienne diversa e ogni volta doveva sempre rovinare tutto. Anche se una voce nella mia testa continuava a dirmi che fossi io, che volevo trovare solo un pretesto per rovinare tutto come un vigliacco.

Mi lanciò un'occhiata carica di significato e parlò con voce spezzata. «Sono stata costretta a prendere una decisione che mi tormenterà per il resto dei miei giorni ma era necessario, e lo sai anche tu.» La fissai allibito perché anche se avevo cercato di evitare a tutti i costi questo discorso, poi non ci ero riuscito e la distruzione sarebbe stata inevitabile. «Era necessario, Jonathan.»

«Tu non ti rendi conto... Se riesci a vedere l'intera scacchiera, non vuol dire che tu abbia il diritto di metterti a fare Dio.» Era bianca come un lenzuolo. «Non puoi, Vivienne.» Non reagì, restando in silenzio e capii che aveva preferito indossare la maschera. «Ti preoccupi di avere le mani sporche di sangue ma ci nuoti dentro.» Si portò le braccia al petto scossa dalle mie parole ma lo ero tanto quanto lei. «È un prezzo troppo alto da pagare perché hai perso una parte di te stessa ma...» mi bloccai, non sapendo neanche cosa volessi dire davvero. Ero ferito dal suo silenzio, non tanto da quello che era stata capace di fare ma per il fatto che non me lo avesse detto o che avesse provato a sfruttarmi senza ritegno. Aveva sfruttato i miei sentimenti e temevo che non avrebbe mai smesso di farlo.

«Credevo mi amassi.»

Alzai gli occhi su di lei paralizzato perché non era quello che mi aspettavo uscisse dalla sua bocca in un momento come questo. «Lo pensavo. A volte ti convinci di amare qualcuno. Lo idolatri ma poi fa qualcosa e in un secondo quella persona si sgretola e anche tutto l'amore che provavi svanisce, e finisci per vederla per quello che davvero è.» Non credevo a una sola delle parole che avevo appena detto ma lo avevo fatto lo stesso perché era questo che si finiva per fare quando si era furiosi con sé stessi e con la donna che per quanto ci provassi non sarei mai riuscito ad aiutare. Qualsiasi cosa facessi.

«E che cosa sono?» le fece male chiedermelo e lo capii dalla voce strozzata che le uscii e mi sentii maledettamente in colpa per il controllo che avevo appena perso. Non capivo che cosa stesse succedendo nella mia testa e l'unica soluzione che trovai fu quella di fuggire da lì prima di dire altre idiozie che non avrebbero fatto altro che ferirci ancora di più. Mi avviai verso la porta nel silenzio più totale, poi qualcosa la smosse. «Jon...» non le diedi ascolto e, fingendomi sordo al suo richiamo, aprii la porta. «Jonathan!» Percepii le sue lacrime e la sua agitazione ma non mi voltai perché avevo bisogno di tempo. Solo di un po' di tempo, solo questo. «Jonathan, ti prego!» 

Ormai ero già lontano dal portico di casa sua e, percorrendo il vialetto, m'incamminai verso la mia auto sentendo il mio sentimento sgretolarsi a ogni passo sempre di più e per quanto mi odiassi nel voltarle le spalle, non sapevo se sarei riuscito a ricomporre i pezzi. Non dopo quanto era stata capace di fare.


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