Capitolo 40 - Sarebbe bello andare e al contempo ritornare

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Dieci anni dopo

Jonathan Walker

Alzai lo sguardo lungo l'edificio che mi si ergeva davanti. Non ero sicuro che fosse la scelta giusta ma, dopo la conversazione avuta con Samantha, non ero riuscito a resistere dal venire da lei.

Non ero stato pronto a rivedere mia figlia e certo non lo ero per rivedere Vivienne. Non dopo come ci eravamo lasciati tanti anni fa.

Quel terribile giorno me ne ero andato talmente rancoroso verso di lei che le avevo voltato davvero le spalle per sempre. Non mi voleva al suo fianco e allora una volta per tutte l'avevo accontentata. Ma non c'era stato un giorno, in questi lunghi anni, in cui non mi fossi pentito della mia scelta. Mi era sempre mancato il coraggio di ritornare da loro, fino a oggi. Mi aveva fatto troppo male e l'orgoglio poi aveva fatto il resto, impedendomi di ragionare con lucidità.

E quando avevo saputo della scomparsa di mia figlia, mi ero subito mobilitato per cercarla. La vergogna per come la relazione tra me e sua madre si era conclusa e per la mia scomparsa mi aveva portato a esitare dall'incontrarla.

Mi ero fatto spesso domande sulla mia bambina, mi ero chiesto che aspetto avesse mentre cresceva, che tipo di persona stesse diventando. E una volta che ero arrivato nella città in cui viveva, l'avevo seguita da lontano per trovare la forza di palesare la mia presenza.

Un giorno, in centro, l'avevo osservata per un attimo attraverso le vetrine e subito mi aveva ricordato qualcuno. Non Vivienne, no. Guardandola non avrei mai indovinato che fosse la figlia di Vivienne. E poi vidi a chi assomigliava, quando una nuvola coprì il sole e mi trovai davanti il mio riflesso: era identica al sottoscritto e forse fu proprio in quel momento che trovai il coraggio di farmi avanti. Non ero più tornato per diverse e troppe ragioni ma nessuna di quelle che un tempo avevo avuto riuscì a farmi desistere dall'incontrare Vivienne proprio in quest'esatto momento.

Entrai dal portone e salii le scale con fatica, come se avessi le gambe di piombo e un carico enorme da portare sulle spalle. Non sapevo che cosa avrei detto una volta che me la fossi trovata davanti né cosa avrei fatto. A ogni gradino che facevo mi tornarono in mente stralci della nostra ultima conversazione e il mio animo si oscurò nel rivivere le stesse identiche emozioni.

«Non capisco cos'è cambiato. Io ti ho amato veramente, sì, ho fatto un casino e forse è stato uno sbaglio dall'inizio ma era amore. Quindi non portarmi via tutto, dicendo che non era reale. Forse tu non vorrai ricordarlo ma io voglio ricordare te.» Vivienne indietreggiò scossa, sembrava quasi che avesse dimenticato le promesse che ci eravamo fatti. «Hai deciso di essere infelice?» le chiesi.

«No. Ho deciso di assumermi le responsabilità delle mie azioni», disse. «Ma la cosa non ti riguarda» replicò con freddezza e avrei voluto agguantarla per le spalle e scuoterla.

«Vivienne, finirai per soccombere. Per morire. Morirai per tua scelta, oppure sarà una morte interiore. Allora resterà solo un involucro che respira e con un cuore che batte ma che per il resto è morto. E se proprio vuoi saperlo, secondo me, hai scelto da un pezzo questa seconda opzione.»

Mi guardò con una espressione che non riconobbi, persa e spaventata come mai l'avevo vista, poi fu veloce a riadottare la solita maschera. «Sono comunque fatti miei.»

Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi sfinito da un dialogo a senso unico e senza uscita. «Quindi vuoi andare avanti così? Seppellirti qui, gettando via il tuo futuro e tutto quello che può ancora offrirti?»

«E cosa avrebbe da offrirmi? Forse te? Ho già tutto quello che potessi desiderare.»

Mi arresi. «Non tornerò più, come da te richiesto. Sei una donna adulta e sembra che tu abbia ben chiaro quello che desideri.» Poi me n'ero andato senza più voltarmi, chiudendo per sempre quel capitolo della mia vita, o almeno così credevo.

Raggiunsi gli ultimi gradini e una volta davanti alla porta dell'appartamento che mi aveva indicato mia figlia, bussai. Aspettai sentendo il battito del mio cuore aumentare. Un cuore che era invecchiato nel frattempo ma che mai avrebbe smesso di battere all'impazzata al suo cospetto. Non venne nessuno per i minuti successivi e iniziai a perdere le speranze di poterla rivedere.

Forse davvero non dovevo più avere niente a che fare con lei e questo era uno dei tanti segni che il cielo ci inviava.

Stavo per andarmene, quando istintivamente provai ad aprire la porta e la trovai aperta. L'accompagnai indeciso se entrare o meno ma quando mi giunse un suono di carillon famigliare, esitai preso in contropiede. La casa sembrava deserta, eppure quelle poche note mi fecero intuire che ci fosse qualcuno, così alla fine entrai.

All'interno era buio e l'atmosfera per quanto tranquilla mi trasmise un forte senso d'inquietudine. Avanzai diffidente, seguendo la dolce sinfonia prima di arrivare davanti alla stanza da cui proveniva e l'aprii. 

Impiegai qualche secondo per realizzare quello che mi apparve davanti agli occhi ma quando lo feci, sbiancai nel riconoscerla. Era distesa per terra, sveglia e teneva stretto al petto il carillon di nostra figlia. Feci scorrere gli occhi sulla sua figura, per poi avere un mancamento quando mi accorsi del sangue che sgorgava dall'addome.

Mi fiondai verso di lei per premere sulla ferita ma purtroppo mi resi conto di essere arrivato troppo tardi: ne aveva già perso fin troppo tanto che non aveva fatto altro che imbrattargli i vestiti e lo stesso pavimento. Imprecai e la chiamai in uno stato di agitazione ma lei tutto quello che fece fu voltarsi verso di me e scrutarmi come se mi vedesse per la prima volta. Ci fissammo, dicendoci più di mille parole, poi mi destai, cercai il telefono nella tasca per chiamare i soccorsi sempre tenendo premuto il più possibile sulla ferita e quando lo accesi, la sua mano comparve su di esso per impedirmi di chiamare. «Lascia stare, Jon.» Il vuoto si propagò dentro di me nel sentire la sua esile voce sforzarsi di parlare. «Ormai è finita.» La guerra iniziò dentro di me per che cosa fosse giusto fare ma avere Vivienne davanti in quelle condizioni non mi permise di pensare chiaramente. «Lasciami andare, ti prego.» Gli occhi mi diventarono lucidi e un nodo mi si formò in gola nel sentire la sua richiesta. Non ero pronto per lasciarla andare, non lo ero mai stato. «Vorrei poter tornare indietro, lo vorrei davvero...» la zittii perché non si affaticasse e la sollevai leggermente per appoggiare il suo capo sulle mie gambe, tenendola stretta a me e toglierla così dal pavimento, almeno in parvenza. «Ti ho amato davvero. Dovevi saperlo almeno una volta», disse. «Ti amo più di quanto avessi mai potuto amare qualcuno. L'amore per te è stata la cosa più importante della mia vita, nel bene e nel male.» La pregai di stare zitta ma non lo fece e mi sentii perso nel rimirarla e nell'ascoltare. «Ma quel giorno non potevo farlo, altrimenti avremmo vissuto solo per rimpiangerlo.» Chiuse gli occhi e il respiro mi si mozzò, poi una smorfia deformò la sua bocca e poco dopo li riaprì, immergendoli nei miei. «Non ce la posso fare da sola, resti a farmi compagnia.»

Provai una forte stretta allo stomaco così forte ma, dopo aver deglutito, trovai senza sapere come la forza di parlare. «Sì che puoi, sei così forte, Vivienne. Sei molto più forte di me.» 

Una lacrima sfuggì dai suoi occhi. Era pallida, troppo, ma il suo corpo era ancora caldo. La guardai perché staccare gli occhi da lei era impensabile e così la vidi aprire la bocca per parlare ma lo fece talmente a voce bassa che dovetti chinarmi su di lei per poterla sentire. «Voglio uscire con la tua barca, Jon. Portami fuori con la barca.» I miei occhi si riempirono di lacrime sotto il suo sguardo supplichevole, così m'imposi di non piangere; non era di questo che aveva bisogno ora. «Fin dove ci spingeremo?» mi chiese.

Sorrisi nel ricordare che era solita farmi la stessa domanda tanti anni addietro e così le risposi di conseguenza. «Fin dove ti piacerebbe andare?»

Si perse nei suoi pensieri, già più di là che di qua. «Fin dove riesci a spingerti con lo sguardo.» Mi commossi e dei brividi mi percorsero. «È tutto così bello, tranquillo e solitario. C'è una pace...» non capii se stesse parlando della barca o di qualcos'altro ma di certo non glielo chiesi, la strinsi solo più a me per aggrapparmici come se ne dipendesse la mia vita. Alzò gli occhi su di me e mi fissò scandagliandomi com'era solita fare, m'immersi nelle sue iridi verdi che tanto mi erano mancate e attesi che lanciasse il verdetto che mi avrebbe stroncato in due. «Sto bene, ho solo bisogno di riposare un po'. È tutto a posto, Jon.» Quasi mi venne da sorridere perché era lei che voleva consolarmi. «Nostra figlia ha bisogno di te. Non dirle niente» mi pregò. «Non ha avuto nemmeno la decenza di prendere bene la mira.» La fissai confuso e le chiesi a chi si stesse riferendo ma non mi rispose. Strinse gli occhi colpita da una sofferenza che non potevo neanche cogliere e poi fece un ultimo sforzo per guardarmi riconoscente. «Grazie per tutto quello che hai fatto e... scusami.» Scossi la testa incredulo che me lo stesse dicendo davvero, avevo colpe tanto quanto lei. «Lascia che io vada ora, lasciami andare.» Il mio cuore perse un battito e dentro di me le chiesi di non farlo: avevo bisogno di lei e lo avevo capito dalla prima volta in cui l'avevo vista. La sua esile voce, però, mi riportò alla realtà. «Sono tanto stanca...»

Mi morsi le labbra e delle lacrime sfuggirono dai miei occhi senza che potessi fermarle. Non riuscii nemmeno a dirle niente che pochi attimi dopo la sua anima abbandonò quella stanza, lasciandomi solo con mille rimpianti e sensi di colpa perché se non me ne fossi andato ora non sarebbe finita così. Rimasi immobile a fissarla ancora sotto shock: i suoi occhi vivi, i suoi occhi morti guardavano dritti nei miei. Chiedendomi di aiutarla. Supplicandomi di salvarla. Ma era troppo tardi per Vivienne. Troppo tardi ormai.

Ma in realtà era solo una mia impressione, perché non aveva mai avuto davvero bisogno che la salvassi e ne avevo avuto la prova fin troppe volte. Il leggero sorriso che aveva sulle labbra mi rincuorò, così come mi straziò il cuore vedere che aveva ancora la sua mano appoggiata alla mia ma senza più alcuna presa. Le accarezzai il capo, liberandole il viso dai capelli, e mi persi a seguirne i lineamenti rilassati e che mai e poi mai avrei scordato.

Era ancora calda ma la mia Vivienne non c'era più e rimasto solo, piansi, mi disperai come mai avevo fatto. I singhiozzi rimbombarono nella stanza mentre continuavo a stringere il suo esile corpo tra le braccia. Mi spezzai definitivamente ma quel sorriso che aveva sulle labbra; come se finalmente fosse felice ovunque si trovasse in questo momento, m'impedì di crollare e di perdere la testa.

La musica del carillon non aveva smesso ancora un attimo di suonare e lo fissai in trance, per poi soffermarmi sulla piccola busta a poca distanza da noi ed esitai indeciso se sfiorarla o meno. Riuscii però a leggere nitidamente quello che vi era scritto.

Da parte di tua madre. Volevo che tu avessi questa. Qualcosa che potesse aiutarti a rimetterti in sesto.

Avevi mentito, Vivienne. C'era qualcuno che amavi molto più di me ed era tua figlia e potevo scommettere che avevi passato gli ultimi anni a pensare a lei.

Mi asciugai il volto dalle lacrime, imbrattandomi con il suo sangue, poi chiamai chi di dovere per chiudere la faccenda una volta per tutte. Restai al suo fianco fino a che non arrivarono per portarla via ed ebbi così modo di riflettere nel silenzio assordante di quella stanza: nel corso degli anni lontano da lei ero arrivato a pormi diverse domande sulle mie scelte ed ero giunto alla conclusione che Vivienne non era altro che la persona sbagliata al momento sbagliato.

Perché mandare all'aria la mia vita per lei? Perché l'amavo ancora adesso da morire dopo tutto quello che avevamo passato?

Finora non sapevo la risposta, poi capii tutto. Era l'unica persona che avevo incontrato davvero. L'unica che ero arrivato a conoscere oltre me. Non gli ero stato per niente riconoscente per quello che aveva sacrificato per me e aveva pagato cara questa mia ingratitudine.

Guardai mentre la portavano via e risposi ad alcune domande e una volta rimasto solo, raccolsi le sue poche cose e me ne andai.

Vagai in uno stato catatonico, poi ricordandomi le sue parole, mi diressi verso casa di nostra figlia per controllare che fosse tutto a posto, ma scoprii non essere così. Brulicava di poliziotti e senza esitazioni mi feci avanti per avere risposte che naturalmente non esitarono a darmi. L'unica che non ricevetti, però, fu su mia figlia: sembrava essere sparita e trattenni a stento un sorriso perché Samantha era più in gamba di quanto mi aspettassi.

La chiamai verso sera per dirle che ero riuscito a farle avere il colloquio che voleva per poter liberare il suo amico dalla prigione certa ma non ebbi il coraggio di dirle di sua madre, non ce la feci proprio, dopo aver saputo che aveva vissuto l'inferno quasi nello stesso momento in cui io vivevo il mio.

E così dopo aver fatto il mio dovere, cercai un angolo in questo mondo per poter piangere la perdita di mia moglie. Lo era ancora e non aveva mai smesso un attimo di esserlo.

Le organizzai il funerale per darle una degna sepoltura e non credevo di riuscire a sopportarne il peso. Non c'era nessuno a parte me, sia perché Vivienne non aveva più nessun parente in vita sia perché non avvertii nessuno dei pochi che invece sarebbero venuti. Prima che la ricoprissero con la terra, vi lasciai cadere all'interno una rosa bianca. La immaginai stringerla tra le mani: una piccola macchia bianca che spiccava nell'oscurità circostante. Era proprio questo che era stata nella mia vita e non lo avrei mai potuto dimenticare, speravo solo di poter essere stata la sua.

Al termine del rito, tirai fuori il quaderno che avevo trovato tra le sue cose e lessi le parole che aveva trascritto con tanta cura:

Anch'io un tempo amavo dondolarmi fra le betulle.

E così vorrei ancora tornare indietro a farlo. 

Quando son stanco di considerare, e la vita 

Mi pare troppo simile ad un bosco non segnato da

Sentieri, e la faccia t'arde e si solletica con le ragnatele

Strappate passandovi contro, e gli occhi

Ti lacrimano, per i ramoscelli che ti feriscono.

Vorrei andar via dal Mondo, e poi

Tornare indietro, e ricominciare.

Che il Destino non mi disconosca e almeno un poco

Mi conceda quel che voglio e non mi strappi di mano

La possibilità di ritornare.

Me ne andai con le parole della poesia che tanto amava impresse bene nella mia memoria e m'incamminai verso la direzione che mi avrebbe permesso di realizzare il suo desiderio. Guardai la busta che aveva lasciato per Samantha e avrei fatto in modo di fargliela avere, forse così le avrebbe permesso di vedere sua madre sotto una diversa luce.

Dovetti aspettare un bel po' di tempo prima di poterla incontrare perché era stata inserita in un programma di protezione testimoni e si era ritirata con la sua famiglia in un posto che non mi era permesso conoscere, almeno finché non riuscii a contattarla e a quel punto recarmi da lei fu d'obbligo.

Presi un aereo per l'Australia e durante tutto il viaggio non feci altro che rigirarmi la lettera tra le mani come se fosse oro: erano le ultime parole di Vivienne e un po' la gelosia s'impossessò di me perché avrei voluto che fossero indirizzate al sottoscritto, così come avrei voluto intraprendere questo viaggio insieme a lei per ricongiungerci a nostra figlia. Purtroppo invece me ne aveva data la responsabilità e lo avrei fatto per lei, ancora una volta.

Arrivato davanti alla sua abitazione, esitai prima di trovare il coraggio di bussare perché non sapevo ancora se fosse giusto dirle la verità su sua madre o meno. Vivienne mi aveva chiesto di non farlo e non appena Samantha venne ad aprire alla porta, seppi quale sarebbe stata la mia scelta.

Mia figlia mi fece accomodare contenta di vedermi e non esitò a ringraziarmi per l'aiuto che le avevo dato. Studiai la casa intimidito dall'entrare a far parte della sua vita, una vita che praticamente mi era estranea.

Le sue figlie erano nel soggiorno e mi osservarono curiose. Erano bellissime e ricordavano molto la madre tanto la somiglianza era palpabile. Samantha chiese loro di lasciarci un attimo da soli e lo fecero senza esitare, recandosi all'esterno della casa.

Mi persi a guardare il panorama e me ne innamorai. Il mare si ergeva davanti all'abitazione e il rumore delle onde sopraggiungeva fin dentro queste mura, infondendo una pace fuori dal comune.

Samantha mi si affiancò, chiedendomi del perché l'avessi cercata ed esitai cercando di trovare il coraggio dentro di me. Infilai la mano in tasca e ne tirai fuori la lettera di Vivienne, per poi porgergliela. La prese con titubanza e quando lesse la piccola didascalia sulla busta, non mi sfuggì che si fermò a fissarla più tempo del previsto indecisa se accettarla o meno.

Riportai lo sguardo davanti a me e m'immaginai Vivienne seduta sulla riva della spiaggia persa nei suoi pensieri com'era solita fare un tempo e come credevo stesse facendo ancora adesso, vicino alla sua famiglia e a sua figlia. L'unico posto dove sarebbe voluta stare. 

«Perché farmela avere?» chiese.

Abbassai gli occhi su ciò che il nostro amore aveva creato. «Credo che la risposta sia all'interno di quella busta», dissi.

«Perché non me l'ha detto lei personalmente? Perché mandare te?» mi domandò. Temevo che sarebbe arrivata alle giuste conclusioni prima del previsto. Non potevo risponderle, non potevo darle le risposte che cercava, ma scommettevo che le avrebbe trovate nelle poche righe che sua madre aveva trovato il tempo di scrivere. «Ho passato tutta la vita a cercare di non essere mia madre, a cercare di non assomigliarle, e alla fine quando mi guardo allo specchio non vedo altro che lei.» La guardai perso nei miei ricordi. «Non so se riuscirò mai a perdonarla...» sussurrò. «Tu ci sei riuscito?» la sua domanda mi scosse e mi paralizzai per qualche secondo. Lei interpretò male il mio silenzio: avevo provato ad odiarla ma alla fine la rabbia era svanita. Ne avevo sempre sentito la mancanza perché i bei ricordi avevano sempre avuto la meglio sull'odio e sul rancore. Qualsiasi cosa mi avesse fatto in passato, avevo già finito per perdonarla e ora che l'avevo persa davvero non sapevo se sarei riuscito ad andare avanti senza di lei. Avevo fatto posto nel mio cuore per Vivienne e l'unica cosa in cui avevo sperato, in tutti questi anni, era che forse un giorno sarebbe stato possibile ritrovarsi.

Ti ho perdonata e avrei tanto voluto che tu avessi fatto lo stesso per quello che hai dovuto passare solo a causa del mio nome, ma ora non lo saprò mai.

Sospirai prima di prodigarmi a sanare il suo nome. «Immagino che non volesse far sembrare la situazione peggiore di quanto già non fosse.» Sentii i suoi occhi su di me ma non la guardai. «Molto probabilmente non voleva trascinarti nell'infamia dell'intera faccenda. Stava cercando di proteggerti.»

«E io volevo proteggere lei ma guarda com'è finita.» Mi zittì perché non trovai nulla con cui contestare le sue parole visto che alla fine era qualcosa che riguardava solo loro due, io purtroppo non c'ero stato e ancora me ne vergognavo. «A volte mi chiedo se non mi stia solo illudendo di essere una brava madre.» Lo disse mentre osservava le sue figlie divertirsi sulla spiaggia e inevitabilmente tornai indietro nel tempo, perché era la stessa paura che aveva avuto Vivienne.

Eravamo distesi l'uno tra le braccia dell'altra, coperti solo da un lieve lenzuolo e riscaldati solo dal calore dei nostri corpi. «Ho questi momenti di una tale oscurità, non so come riuscire a superarli.» La strinsi a me. «È che sembra che io prenda solo decisioni sbagliate una dopo l'altra... forse mi sto solo illudendo di poter essere una brava madre.»

Presi qualche secondo per pensare alle parole giuste da dirle e quando le trovai, le alzai il viso verso di me. «Non potrai darle tutto quello di cui ha bisogno ma basta che tu ci sia. Non devi per forza essere la madre migliore del mondo. Quello che devi fare è esserci. Resta finché ne avrà bisogno e vedrai che sarà sufficiente.» 

Restammo a guardarci per diversi minuti l'uno di fronte a l'altro, finché non ci addormentammo prima di venire svegliati all'alba da nostra figlia, desiderosa di trascorrere un'altra giornata sulla spiaggia insieme ai suoi genitori.

E guardando Samantha, mi sentii di dirle all'incirca le stesse parole: si vedeva da lontano un miglio che era una brava madre e le sue figlie ne erano la prova. 

«Voglio farti vedere una cosa, aspettami qui» mi disse.

Annuii perplesso, per poi guardala mentre si addentrava in una stanza della casa. Sua figlia minore entrò dalla portafinestra e mi sorrise. «È vero che sei mio nonno?»

Mi trattenni dal sorridere perché la sua espressione seria fu alquanto buffa, sembrava non fidarsi di quello che le era stato detto e forse il mio aspetto la faceva dubitare. Era surreale anche per me essere chiamato in tal maniera ma alla fine mi trovai ad annuire. Si illuminò raggiante e mi si buttò addosso per abbracciarmi con il suo esile corpicino. Rimasi un attimo interdetto, poi ricambiai con una certa titubanza.

Samantha ci raggiunse e mi porse un album che riconobbi seduta stante e tremai dal doverlo sfogliare propria ora, non dopo che l'avevo persa definitivamente. «L'ho preso dalla vecchia casa, credo che forse dovresti averlo tu.» 

Lo presi prima di sedermi sul divano. Mia nipote si sedette al mio fianco in attesa che lo aprissi. Samantha si scusò e ci lasciò un attimo soli per uscire in giardino. Lo aprii e rimirai con dovizia quelle fotografie che avevamo scattato nei primi anni da sposati e con soggetto principale la nostra bambina. Vivienne aveva proseguito la tradizione da sola dopo la mia scomparsa e poi a un certo punto si era interrotta, lasciando le pagine bianche, così come alla fine era stato anche per la nostra stessa storia. Mi soffermai su una foto in particolare che la ritraeva da sola sulla spiaggia e osservai il viso di lei: gioioso nella luce del sole. E mi chiesi quanto avrei dovuto aspettare prima di riuscire di nuovo a sorridere in quel modo. La guardai mentre sorrideva all'obiettivo per qualcosa che le avevo detto e m'interrogai più e più volte.

Non sapevo se avrei sorriso di nuovo, così come non sapevo se avrei mai potuto essere davvero felice come in quegli attimi ma, probabilmente, no. Dovevo solo abituarmi all'idea perché quei tempi non sarebbero più tornati, non senza di lei.

Ero così preso dalle fotografie da essermi dimenticato della bambina al mio fianco che cercava di guardarle a distanza, curiosa. «Sembra molto felice.» 

Abbassai gli occhi su di lei che era riuscita a dire l'unica cosa che mi fece sorridere nel riportare lo sguardo sulla fotografia. 

Sì, lo sembrava davvero e probabilmente lo era. Anzi, quasi sicuramente.

«Me la ricordo, ci ho passato una giornata insieme a mia sorella e a un'amica di mia madre.» L'ascoltai con attenzione. «Tu invece?» alzò i suoi occhi cioccolato su di me ed esitai dal risponderle, perché preso in contropiede dalla sua domanda fin troppo diretta.

Eccome se la ricordavo. La ricordavo benissimo, ricordavo tutto di lei. Il colore dei capelli e degli occhi, la morbidezza della pelle e della mano stretta nella sua. Il suono della sua voce quando mi chiamava con quell'appellativo che avevo imparato ad amare. Ricordavo quanto l'avessi desiderata, quanto piacere avessi tratto da lei. Ricordavo la sua grazia e il suo sorriso dolce quando si svegliava. Così bella e in gamba e poi come per merito di un magico incantesimo, mia.

Mi ricordavo molto bene il periodo perfetto passato insieme, anche con i suoi alti e bassi. Proiettato più e più volte nella mia mente come un vecchio film molto amato. Poi accantonato insieme con tutti gli altri ricordi. Fino a questo momento.

La rividi come allora e sentii il cuore sobbalzarmi in petto. Era come se Vivienne fosse qui davanti a me: era tanto vicina che avrei potuto allungare una mano e affondare le dita tra i suoi folti capelli. Aspettai che scomparisse ma non lo fece. L'osservai con la stessa premura di un tempo e lo stesso desiderio di restare sveglio al suo fianco per paura di perdere anche un solo attimo di quelle emozioni. Avrei voluto sperimentare ancora quell'attimo di trionfo quando Vivienne si voltava e mi faceva capire che lo desiderava tanto quanto io desideravo lei. Era così che volevo tornasse a essere, ma purtroppo la situazione sarebbe rimasta invariata fino ai miei ultimi giorni.

Chiusi l'album e l'appoggiai sul tavolino davanti a me, per poi alzarmi alla ricerca di Samantha. Mia nipote mi seguì prima di uscire all'esterno con l'intenzione di raggiungere sua sorella e sua madre. Rimasi a osservarle da lontano, aspettando che quest'ultima si ricordasse di me e nel frattempo diedi un'occhiata in giro fino a quando un particolare non attirò la mia attenzione. Mi avvicinai al piccolo quadro appeso alla parete e rimasi interdetto nel trovarvi incorniciata all'interno la poesia che ormai avevo imparato a memoria e che ero solito leggermi ogni giorno da quando se n'era andata.

... La terra è il giusto posto per amare:

non so affatto come potrebbe migliorare.

Vorrei andarmene scalando una betulla, e

Salire rami scuri lungo un tronco innevato, verso il cielo,

fin dove l'albero non potrebbe condurmi,

ma fosse pronto a piegare la cima e riportarmi giù.

Sarebbe bello andare ed al contempo ritornare.

Si potrebbe far di peggio che dondolarsi fra le betulle.

Rimasi lì a rileggere quelle parole senza tener conto del tempo che passava. «Mi ci sono imbattuta per caso e il significato che vi nasconde mi ha commossa nel profondo tanto che alla fine non ho potuto fare a meno di incorniciarla» disse al mio fianco. Portai gli occhi su di lei incredulo di fronte alle coincidenze della vita, poi riconobbi che non fosse affatto un caso se anche la figlia si fosse riconosciuta nelle stesse parole che avevano tanto appassionato la madre e sentii il mio cuore riscaldarsi per questo particolare alquanto banale, ma così intenso da togliermi il respiro per qualche secondo. Non glielo dissi e forse fu meglio così. «Ti va di restare per un po' di tempo?» la sua domanda mi colse impreparato e mi fece molto piacere sentirglielo dire, ma dentro di me sapevo già quale fosse la giusta risposta da dare. Le dissi di no, che non potevo, ma non ne rimase delusa o almeno non lo diede a vedere preferendo distogliervi l'attenzione. «Impegni di lavoro?» domandò.

Una scossa mi percorse e distolsi lo sguardo da lei perché, al solo pensiero, i sensi di colpa tornarono. «No, non più», dissi, a bassa voce e lei non insistette più sull'argomento. Forse percepì che volevo andarmene e allora ci congedammo, mi ringraziò per essere venuto e per la lettera ma poi mi pose un'altra domanda che mi pose in serie difficoltà. «Quindi sei andato a trovarla?» la guardai indeciso se parlare o meno. «Sono stata un po' dura con lei l'ultima volta che ci siamo viste, perciò se la rivedi dille che...»

«Lo sa già, Samantha» la fermai, impedendole così di continuare.

Mi studiò seria con la stessa espressione che aveva da piccola quando qualcosa le sfuggiva ma non feci in tempo a chiedermi nulla che le figlie la chiamarono. Le dissi di andare e che avrei trovato da solo la strada. Esitò, poi mi strinse forte, in una abbraccio che parlò più di mille parole. Si staccò con gli occhi lucidi, per poi avviarsi dalle sue figlie. Prima di andarmene mi avvicinai alla finestra per guardarle da lontano e il sorriso sul volto di mia figlia fu impagabile: era felice qui. Lo era davvero. Osservandole, immaginai la mia Vivienne sulla spiaggia con sua figlia, com'era un tempo e la rividi così nitidamente che quasi mi sembrò reale.

Era proprio vero che non si poteva scegliere di non soffrire a questo mondo ma solo per chi, quello sì.

Lasciai la loro casa per tornare nella mia, per tornare da mia moglie e ai luoghi che ci avevano fatto soffrire ma che, a dispetto di tutti e tutto, avevamo anche tanto amato. Le avevo promesso che non l'avrei più lasciata sola e ci avevo messo troppo per portarla a termine, ma ora l'avrei mantenuta: ero in ritardo ma lo avrei fatto finché le mie forze mi avrebbero permesso di andare tutti i giorni che mi restavano a portarle un fiore per un perdono che forse, un giorno, avrei trovato tra le sue stesse braccia.

Gliel'avevo promesso: avrei detto ciò che andava detto al momento opportuno. Non avrei più pensato alla vendetta o alla rivalsa ma solo all'amore e al perdono. Forse un giorno Samantha avrebbe parlato di lei con gentilezza. Mostrato la sua fotografia ai suoi figli e avrebbe detto. "È vostra nonna. Adesso è morta. Ma non la dimenticherò mai. E neanche voi dovete farlo." Mentre io alla domanda. "Com'è morta?" avrei risposto in un solo unico modo. "Io ti dirò com'è vissuta." Perché la sua storia meritava di essere raccontata. I suoi ultimi attimi sarebbero stati solo miei, mentre agli altri avrei riferito la parte di lei che nessuno aveva conosciuto. Che nessuno sembrava aver apprezzato, perché troppo ciechi o semplicemente perché ingannati da una personalità rara quanto indimenticabile: Vivienne aveva vissuto appieno la sua vita, una vita tormentata e avvolta dalle tenebre per la maggior parte del tempo, ma finalmente ora aveva ritrovato quella pace da tanto agognata e io non avrei fatto altro che aspettare con ansia il giorno in cui mi sarebbe stato concesso di ricongiungermi a lei, e chissà forse anche la possibilità di ricominciare.

Perché in fondo sarebbe stato bello andare e al contempo ritornare per poter riparare agli errori commessi e per poter riiniziare tutto da capo. Che Dio mi concedesse la possibilità di farlo! Anche se, forse, sarebbe stato meglio di no. Conoscendomi, avrei rifatto tutto nello stesso identico modo ma questa volta senza rimpianti. Rifarei tutto di nuovo pur di passare un altro attimo con la mia Vivienne. Non importava età, non importava a quale prezzo: rifarei tutto. Fino alla fine dei tempi.

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