Capitolo 39 - Rassegnazione Effimera

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Carl Miller e i suoi uomini erano seduti attorno alla tavola del soggiorno e stavano parlando tranquillamente di affari, come se nulla fosse. «Lara, portaci delle bottiglie di vino.»

Guardai Carl e lui mi fissò seccato dalla mia esitazione, così mi alzai dall'angolo in cui ero seduta per andare in cucina a prendere quanto mi aveva chiesto.

Ero finita nelle mani di uno psicopatico della peggior specie. Uno di quelli che non si manifestavano nella quotidianità e che quindi non venivano mai neutralizzati. Uno che anzi imponeva pubblicamente nella società la sua maschera indiscussa di persona in vista e di successo. Alla quale venivamo tributati rispetto e riconoscenza. Sulla sua tomba un giorno sarebbero state incise iscrizioni in suo onore da parte delle autorità cittadine e si sarebbero sprecate parole commosse per sottolineare le sue opere eccezionali. Era tutto così ingiusto e così crudele da darmi la nausea. Carl recitava sempre e ovunque e rappresentava la perfezione agli occhi della gente: comprensivo, amorevole, impegnato. Le sue esibizioni erano in vero e proprio delirio. Era veramente eccezionale come attore. Riusciva anche a parlare con una voce che esprimeva di volta in volta calore o preoccupazione oppure partecipazione, e chissà cos'altro ancora! Dimostrava un'ambivalenza degna del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Un uomo con due facce che non perdeva mai il controllo se non tra queste quattro mura di casa che avevo fatto l'errore di affittare. Ma non era stato un caso e ora ne ero più che sicura, non credevo alle coincidenze e non ci avrei mai creduto.

Tornai da loro con le bottiglie e dei bicchieri e intanto mi dovetti sorbire alcuni commenti poco graditi e battutine idiote da parte degli uomini che m'infestavano la casa.

Carl aveva messo in atto quanto aveva detto e la maggior parte del tempo la passava nella casa sul mare in cui vivevo con mia figlia. Principalmente per tenerci d'occhio e poi forse per mantenere le apparenze.

«Dove l'hai trovata, Miller?»

Un sorriso comparve sulle labbra di Carl nel sentire la domanda del suo amico e inevitabilmente i suoi occhi furono su di me, così come le sue mani. Mi attirò a sé, premendomi contro di lui. Mi trattenne per dimostrare il suo possesso. Ingoiai il rospo amaro, per poi lasciar perdere come sempre perché ormai avevo imparato che cosa succedeva quando lo si rimproverava o si disobbediva ai suoi ordini e i segni che avevi addosso lo dimostravano.

L'odiavo in un modo che quasi me ne vergognavo, non era quasi niente in confronto all'odio che avevo provato per James, ed era proprio questo ad annientarmi maggiormente. Mi stava divorando dall'interno senza che potessi impedirlo.

Si stavano divertendo ancora a prendersi gioco della sottoscritta, quando una voce interruppe lo scempio che stava avvenendo. «Mamma? Non riesco a dormire.»

Abbassai gli occhi sulla mia piccola Samantha che aveva l'aspetto assonnato e indosso il suo bellissimo pigiama a pallini. Si stropicciò gli occhi e, rendendomi conto del silenzio che era sceso nella stanza, m'irrigidii e aggirai il tavolo per poi con tono duro dirle di ritornare subito a letto. Mi guardò impaurita senza capire che cosa avesse fatto di male ma, sentendo tutti gli sguardi su di noi, sentii l'ansia salirmi dal petto e ignorai la sua suscettibilità.

Ormai si era abituata ad averli in casa, erano passati un paio d'anni e purtroppo non ero più riuscita a godermela neanche per un minuto per colpa della presenza di Carl nella nostra vita. Ci voleva lontane l'una dall'altra e ci stava riuscendo.

«Lasciala venire.» La voce di Carl si levò.

«Samantha, torna a letto.»

Mia figlia mi guardò senza capire a chi dare ascolto.

«Samantha, vieni qui» insistette. Gli gettai un'occhiataccia. «Vieni qui, piccola.» Abbassai lo sguardo su mia figlia che si ritrovò ad avanzare lentamente e con la testa bassa verso di lui. La prese in braccio e la fece sedere sulle sue gambe «Ti va d'imparare a stare al mondo, eh?» Samantha annuì, sentendosi in soggezione in mezzo a tutti quegli adulti. «Ottimo, da domani inizia l'addestramento.» Scossi la testa e lo guardai supplichevole ma m'ignorò bellamente. «Farò di te la mia degna erede.» Le sue parole mi lasciarono frastornata e non poco. Feci passare il mio sguardo tra di lui e Samantha, sentendomi impotente. Gli occhi mi diventarono lucidi perché avevo le mani legate. I suoi uomini ripresero a parlare indisturbati tra loro, mentre rimasi in piedi senza avere la forza di muovermi. «Vai a prendere la medicina. Ne hai bisogno, non mi sembra che tu sia molto in forma.» Mi tesi. Non gli diedi ascolto. Tirò fuori la pistola e la posizionò al suo fianco sul tavolo, fissandomi serio. Accarezzò la testa di mia figlia e le lasciò un bacio sui suoi capelli che mi ghiacciò seduta stante. Mi mossi in fretta per andare a prendere le pasticche che era solito darmi quando voleva mettermi fuori gioco.

Ritornai in soggiorno con il dovuto e mi porse un bicchiere di vino per poterla buttare giù in gola senza sforzo. Guardai la mia bambina che era intenta a seguire quanto stava succedendo su quella tavola, facendo vagare il suo sguardo su ognuno curiosa. Era così innocente che quasi mi venne da piangere seduta stante, buttai giù tutto con un sorso e mi sedetti nell'angolo, aspettando che facesse effetto visto che voleva assicurarsi che la prendessi. Continuai a tenere d'occhio mia figlia ma sembrava stare bene per il momento, ogni tanto sbadigliava ma non si perdeva una parola di quello che stavano dicendo. Il mondo iniziò a girare e la vista si appannò, la nausea mi colse e quando non ce la feci più, mi alzai per andare nella mia camera da letto.

«Dove va la mamma?» 

«Tua madre è molto stanca...» 

Mi chiusi in camera e mi buttai sul letto sfinita. Chiusi gli occhi e finii un una specie di letargo apatico che mi permise di annullare tutto. Non capii più nulla e forse mi addormentai senza neanche rendermene conto.

Quando mi svegliai, avevo la testa che mi scoppiava e il corpo intorpidito. Mi voltai per poi trovare il letto vuoto: per mia fortuna non era venuto stasera, ogni volta diventava un'agonia sempre più dura da sopportare. Il sesso era sempre stato uno strumento sicuro per me, un modo per provare emozioni senza dovermi aprire con le persone ma, dopo Jonathan, aveva assunto tutt'altro significato tanto che avrei potuto benissimo farne a meno per l'eternità, vivendo solo del ricordo dei momenti passati con lui. Ma questo era tutt'altra cosa: era malato, torbido e violento che non faceva altro che farmi odiare me stessa e quello che ero diventata da quando era entrato a far parte della mia vita.

Mi alzai barcollante e, approfittando del fatto che la casa fosse avvolta nel silenzio, decisi di andare a prendermi un bicchiere d'acqua per togliermi l'amaro che avevo in bocca. Mi ressi alle pareti e quando mi trovai fuori dalla stanza, volsi lo sguardo verso la stanza di Samantha e mi accorsi di Carl uscirvi. Lo fissai ancora stordita ma incredula di fronte alla scena che mi si stava ponendo davanti. Il nostro sguardo s'incrociò e non mi sfuggii che il suo ebbe un fremito. Per un attimo. Un millesimo di secondo, una lieve preoccupazione di essere colto in fragrante, ma fu così veloce che nessuno se ne sarebbe accorto; a parte me. Perché come aveva detto lui stesso col tempo avrei imparato a conoscerlo e così purtroppo era stato. Solo che, guardandolo, mi sentii morire dentro.

«Che stai facendo?» le lacrime mi salirono agli occhi e sentii la rabbia invadermi come un uragano. «Che cazzo stai facendo?» mi fiondai contro di lui come una belva infuriata e lo colpii al volto con tutta la forza che avevo. «Che stai facendo alla mia bambina?» 

Mi afferrò per le braccia. Piansi perché ero sconvolta sotto il suo sguardo sempre più adirato. «L'ho solo messa a letto, Lara. Vedi di non fare l'isterica.»

Scossi la testa perché era un bugiardo e perché era un bastardo della peggior specie. Mi trascinò con forza verso la camera da letto ma m'impuntai perché volevo controllare che la mia piccola stesse bene. «Non azzardarti più ad avvicinarti a mia figlia!» gridai tra i singhiozzi e la rabbia pura. 

Mi strinse forte per un braccio, trascinandomi addosso a lui. «Non è più tua figlia, non ti è ancora chiaro? Fai come se avessi davvero abortito dieci anni fa, perché ora è mia.» Qualcosa si incrinò definitivamente dentro di me. «Ho grandi progetti per lei, quindi vedi di non metterti più in mezzo.» Mi prese per i capelli e mi lanciò dentro la stanza, per poi seguirmi subito dopo. Il suo sguardo non mi piacque per niente ma ormai non mi faceva più paura, l'unica cosa che desideravo era che finisse in fretta perché così dopo mi avrebbe lasciata in pace; almeno fino alla prossima volta in cui sarebbe rientrato in questa stanza per dare sfogo a tutte le sue perversioni. Non avevo più la forza nemmeno di lottare o di ribellarmi tanto finiva sempre nello stesso identico modo. L'unica cosa che mi ripetevo dentro fino a che non se ne andava, era quella di fare silenzio perché la mia bambina non sentisse quali orrori avvenivano nella stanza poco più in là della sua.

***

Mi svegliai da sola e coperta di lividi tanto che non riuscii ad alzarmi. Passai così la giornata a letto dopo essermi impasticcata e ci rimasi anche per i giorni successivi senza trovare il coraggio di alzarmi, perché sentivo che man mano le mie energie stavano venendo meno.

Mi alzai ma naturalmente, senza essermi nutrita per giorni, le gambe non mi ressero e caddi a terra, ridendo istericamente. Rimasi lì fino a quando mia figlia non tornò da scuola e mi aiutò ad alzarmi per raggiungere il letto. Mi distesi senza dire nulla e chiusi gli occhi, ma Samantha non se ne andò e disse qualcosa che mi dilaniò. «Mamma ho bisogno di te, ti prego.» Delle lacrime uscirono dai miei occhi e andarono a inzuppare il cuscino. «Mi senti? Non mi lasciare da sola con lui.» La sua voce tremò e strinsi le lenzuola tra le dita perché non sapevo come aiutarla. Non lo sapevo proprio. Facevo schifo come madre perché non ero in grado di proteggerla da chi ci voleva male.

Sentii la sua mano appoggiarsi alla mia spalla, alla ricerca di un contatto che non avevamo più da tanto ormai. Strinsi i denti per impedirmi di reagire e dopo qualche minuto le lacrime finirono. Mi trovai così a pensare alle parole di Carl e persi ogni speranza. Non ero più una madre, ne avevo perso ogni diritto ed era stato proprio lui a togliermeli, così finsi un'indifferenza che non avevo, né sarei mai riuscita ad avere. «Vammi a prendere le sigarette, Sam.»

Mi giunse solo silenzio per un attimo, poi sentii la sua mano scivolare via da me e i suoi passi uscire dalla stanza, delusa e ferita.

Ecco finalmente aveva scoperto anche lei di che pasta ero fatta e sapevo già che non ci sarebbe stata redenzione per me, mai più, perché mi avrebbe odiata per non esserci stata e lo sapevo bene, ma per adesso non ci volevo pensare. Non potevo pensarci.

Chiusi gli occhi e mi abbandonai, precipitando in una condizione di disperazione che mi toglieva il respiro e mi avvolgeva di vuoto e di buio.

Certe cose succedevano a me e basta. Venivo insultata e non replicavo nemmeno. Ero incapace di difendermi ed ero io a far sì che alla fine le persone mi torturassero, perché ero davvero una perdente. Lo ero sempre stata.

Passarono un altro paio di anni e la situazione si fece sempre peggiore, io e mia figlia eravamo diventate quasi due estranee e Carl ne approfittava sempre di più, ma pazzamente avevo finito per accettare la situazione. Mi ero arresa, quando un giorno successe qualcosa che mai mi sarei aspettata. Mai e poi mai.

Ero in casa da sola per pranzo visto che Carl si era portato dietro Samantha per motivi di "lavoro" e a un certo punto, guardando fuori dalla finestra, avvistai una sagoma avvicinarsi e mi spaventai. Ma fu solo un attimo perché poi lo riconobbi e credetti di svenire. Lo guardai avanzare verso la casa, portandomi una mano alla bocca sconvolta. Stava bene ed era qui. Corsi alla porta ma prima di aprirla, fermai la mano sulla maniglia interdetta da quello che stavo per fare. Non sarebbe potuto cambiare niente e sinceramente non capivo come avesse fatto a tornare a casa dopo quanto mi aveva detto Carl. Mi appoggiai con la fronte alla porta furiosa con me stessa perché avrei voluto corrergli incontro, abbracciarlo e baciarlo dalla gioia ma non potevo farlo, non con quello che avrei dovuto dirgli.

Aprii la porta e l'osservai percorrere l'ultimo tratto finché non mi fu davanti. Mi scandagliò titubante, forse perché non capiva quale reazione avrei avuto nel rivederlo. Guardai i tagli che aveva sul viso, realizzando dopo tanti anni che anche lui doveva averne passate tante: eravamo due relitti, condannati a un amore impossibile. 

«Vivienne» sentire la sua voce fu come tornare indietro nel tempo e il mio corpo si riempì di brividi in automatico nel risentire le stesse e identiche emozioni. «Mio dio, quanto sei bella» sussurrò e lo guardai negli occhi commossa, capendo così che gli fossi mancata tanto quanto lui era mancato a me. Sapevo anche però che non avrei mai potuto dirgli la verità, altrimenti sarebbe finita molto male per tutti, non saremmo potuti scappare senza che Carl ci avrebbe trovati e non mi andava certo di rischiare. Ero arrivata solo ora a capire che l'unica a interessargli davvero era nostra figlia, quindi mai e poi mai ci avrebbe lasciate andare, almeno non lei, e di sicuro non l'avrei lasciata da sola con lui. Poi c'era ancora la sua minaccia sulla testa di Jonathan e il vederlo comparire qui non mi convinceva per niente.

Mi appoggiai allo stipite della porta per trattenermi dal saltargli addosso. «Che ci fai qui?»

Non poteva restare qui, tra non molto sarebbero stati di ritorno e se per farlo andare via mi sarei dovuta fare odiare, allora lo avrei fatto. L'unica speranza a cui mi ero aggrappata in questi anni era che lui sarebbe stato bene, che avrebbe vissuto la sua vita e non mi sarei mai potuta perdonare se ora gli fosse successo qualcosa. Non dopo tutto quello che avevo dovuto passare perché potesse vivere. 

«Credevo di...» immerse i suoi occhi nei miei pronto a rivelarmi qualcosa, poi sembrò ripensarci. «Voglio solo parlarti.»

Rimasi delusa e fingermi acida fu più facile del previsto. «Dopo quasi nove anni, Jonathan? E di che diavolo dovremmo parlare?»

Serrò le mascelle e indietreggiò indecifrabile, abbassando lo sguardo. Pensai che fosse finita, così tentai di richiudermi dentro casa ma le sue parole non me lo permisero perché semplicemente mi spiazzarono. «Forse del perché porti ancora il mio anello al dito.» Alzò lo sguardo su di me determinato e poco dopo abbassai il mio per fissare la mia mano: era vero non lo avevo ancora tolto e mi diedi della ridicola da sola. Non ero più degna di portarlo, solo che lui non lo sapeva.

«La persona che me lo ha dato mi ha lasciato sola tanti anni fa e ora non si può più tornare indietro.»

«Mi devi lasciare spiegare, Vivienne: non c'è stato giorno in cui non abbia cercato di trovare il modo di tornare da te e contro ogni logica ci sono riuscito; perciò...»

«Non voglio sentire niente, Jon», dissi. «Ammiro la tua tenacia, i valori in cui credi e quello per cui ti batti da quanto ti conosco, ma quel giorno dovevi scegliere noi e invece non l'hai fatto. Ci hai abbandonate.» E lo pensavo davvero, ci aveva lasciato sole e vulnerabile e c'era chi se n'era approfittato. «Avevamo solo te. Io avevo solo te.» La voce mi si spezzò. «Non hai mai scelto me, perciò, non farlo neanche ora» parlai con disprezzo e malinconia.

«Non posso credere che tu lo stia dicendo sul serio. Da dove di vengono queste idee, eh? Ho faticato come un dannato per tornare da mia moglie e da mia figlia perché le uniche cose importanti per me siete voi e te l'ho ripetuto in continuazione, ma sembri averlo dimenticato» sbottò. «Siete voi che ho sempre voluto e lo sai bene.»

Notai la tempesta crescere nei suoi occhi e me ne rammaricai, ma stavo per far cadere la scure su di noi ancora una volta. «Ti dirò cosa voglio io invece: voglio che tu te ne vada.»

Mi si avvicinò, annullando la distanza. Mi prese per le braccia. «Non me ne vado, non puoi impedirmi di riavere la mia famiglia o di vedere mia figlia.»

«La cosa non ti riguarda più, noi non ti riguardiamo più.» Lo ferii più del previsto e la sua espressione me ne diede la prova. «Tua figlia a malapena si ricorda di te e io... sto con un'altra persona adesso.»

Lasciò la presa su di me per fissarmi con dovizia, incredulo, teso. «Non ti credo, non puoi averlo...» si fermò. «Vive qui? Sta crescendo mia figlia? Se credi che...»

«Io non credo più in niente dal giorno in cui te ne sei andato. Mi hai spezzato il cuore troppe volte e il mio purtroppo era già rotto in mille pezzi; perciò, ora come per magia non mi puoi chiedere di dimenticare tutto e ricominciare. Mi sono ricostruita una vita...»

«Non rifilarmi queste stronzate» m'interruppe fuori di sé. «Ti ci sono voluti quasi trent'anni per arrivare a capire di avere dei sentimenti e ora mi vuoi far credere che negli anni in cui sono stato via hai scoperto la strada della luce, la vera felicità? Risparmiale per qualcun altro. Ma con chi credi di stare parlando, eh?» Incassai in silenzio e sentii una morsa stritolarmi lo stomaco, una presa ferrea che quasi mi fece mancare il respiro. «Ti ho amata davvero e continuo ancora a farlo.» Mi si riavvicinò e mi prese prima per le spalle, poi per il volto perché fosse chiaro. «Ti conosco più di te stessa e...»

Il suo tocco su di me fu un toccasana dopo tutti gli anni di astinenza, la pelle mi formicolò e avere il suo viso a poca distanza dal mio mi risvegliò da un lungo letargo apatico ma sapevo anche che non sarebbe stato possibile ricominciare, non dopo che avevo permesso a quel pazzo di rovinare la nostra famiglia. Nostra figlia. Non mi avrebbe mai perdonata e lo sapevo più che bene: non per averci vendute perché lui potesse girarsene tranquillo per le strade, così invece che aggrapparmi a lui con tutta me stessa pronunciai le parole che sapevo lo avrebbero fatto desistere. «Questo non vuol dire che debba per forza ricambiare.» Lo distrussi e i suoi occhi divennero lucidi per una situazione assurda quanto crudele. «E ora per favore va via, tra poco dovrebbero ritornare e non voglio che ti veda, ha già avuto una vita abbastanza difficile.»

«Finisce così?» chiese. Esitai perché il mio cuore m'impedì di dirlo. «Non mi vuoi dire neanche perché lo fai? Perché non sembri nemmeno tu, la Vivienne che conoscevo non ci avrebbe mai fatto questo. Eri diventata più forte, più sicura di te e credevo davvero che avremmo potuto avere una seconda opportunità ma a quanto pare mi ero solo illuso» continuò. «Ci siamo scambiati le promesse davanti a Dio e solo lui mi è testimone che ero sincero, credevo che lo fossi anche tu.»

Sì, lo ero, eccome se lo ero stata: lui eri l'unica cosa bella che mi era successa in tutta la mia vita. 

«Non ha significato niente per te?» domandò demoralizzato e ormai sapevo che avrebbe ceduto e lo avrei perso. Lo fissai e incredula dal fatto che lo stavo facendo, non gli risposi né confermai. Quando si era feriti, era difficile decidere se guarire o se affondare per sempre e la scelta divenne così ovvia che una lacrima mi sfuggì dagli occhi che corsi subito a raccoglierla sotto il suo sguardo attento. Lo supplicai con gli occhi di aiutarmi a farla finita perché farlo da sola faceva troppo male, porca miseria!

Ti amo, Jon, ma adesso ho bisogno che tu mi aiuti a distruggere tutto e a cancellare quello che c'è stato perché non potrà esserci più. La ferita è troppo grande, troppo profonda da poter sopportare. Non ha più senso darsi forza per qualcosa che ormai è più che evidente non ha più senso che esista. Noi due non abbiamo più senso, non dopo tutto questo. Quindi ti sto implorando di aiutarmi a distruggerti, a distruggerci. Ne ho bisogno per poter sopportare altri anni così. Ti prego.

Lo implorai con lo sguardo di smetterla una volta per tutte e lui immerse i suoi occhi nei miei disorientato da tutto quello che stavo cercando di comunicargli, compresa la mia rassegnazione. «La persona di cui ti eri innamorato non esiste più. Le persone cambiano per sopravvivere.» Annuì distrattamente, poco convinto da tutta questa assurda conversazione. Probabilmente non sarebbe riuscito mai perdonarmi ma mi sarebbe bastato pensare che forse, un giorno, sarei ritornata nei suoi pensieri. «Non prenderla male ma non voglio più vederti.»

Vattene, per favore. Tra poco saranno qui e non voglio più vederti soffrire perché mi sto dilaniando dentro e quest'immagine mi rimarrà per l'eternità come una punizione per la mia cattiveria.

«Un giorno rimpiangerei di aver scelto lui invece di me.» Mi gettò un'ultima occhiata, per poi allontanarsi dalla casa, incamminandosi il più lontano possibile dalla sottoscritta, dalla casa e dalla sua famiglia.

Come avrei fatto a rassegnarmi a vivere senza di te? Ancora non lo sapevo ma ci avrei provato, come sempre. Non avevo scelto proprio nessuno, non avrei mai potuto scegliere qualcun altro, non dopo averti conosciuto. Tu saresti stato sempre e comunque la mia unica scelta. Ma in una cosa ci avevi visto giusto, avevo già rimpianto da un pezzo le mie scelte ma tu eri l'unica a non essere tra queste.

Lo guardai scomparire in lontananza, per poi appoggiarmi alla porta e scivolare a terra fuori di me per qualcosa che era stato più difficile del previsto. Guardai l'anello al dito e delle lacrime scesero copiose dai miei occhi.

Non sapevo perché il destino ci avesse fatto incontrare, sapevo solo che poi aveva deciso che non eravamo fatti l'uno per l'altra e che dovevamo restare divisi. Forse non c'era futuro per noi ma per nostra figlia sì, forse era stato fatto tutto per lei ma ancora non sapevo il perché. L'unica cosa che sapevo era che amavo quell'uomo con tutta me stessa, ogni parte di me l'amava e l'averne la consapevolezza fu devastante.

Mi alzai in piedi e avanzai prima lentamente, poi sempre più velocemente alla sua ricerca. Guardai in ogni angolo, in ogni dove nelle vicinanze ma ormai se n'era andato, era andato via per sempre e mi disperai. Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi, emisi violenti singhiozzi ascoltando il mormorio delle onde mentre la marea avanzava lenta sulla spiaggia deserta. Lo chiamai, pronunciai più e più volte il suo nome nella speranza che mi sentisse e tornasse indietro ma non successe: questo era davvero un addio e m'infransi in mille pezzi. Urlai lì in mezzo al nulla tutta la mia frustrazione, sdraiandomi al suolo completamente vuota. Fissai il cielo sopra di me e le fronde degli alberi e come per magia mi tornarono in mente le parole della poesia che tanto amavo.

Vorrei andarmene da questa terra per poi poter ricominciare. Era tutto quello che più desideravo perché qui in questo mondo non me n'era data la possibilità. Potevo solo andare avanti e stringere i denti ed era questa la parte più difficile: andare avanti, portandone il peso, finché non sarebbe arrivato il giorno in cui me ne sarei andata e avrei potuto ricominciare davvero. Lo volevo tanto ma adesso servivo ancora qui, me lo sentivo.

Ritornai verso casa e una volta entrata, trovai Carl in soggiorno e Samantha che non mi degnò di uno sguardo. Il primo mi studiò attentamente, per poi sorridere soddisfatto sotto il mio sguardo avvilito. «Caspita, Lara, sembra quasi che tu abbia visto un fantasma.» Mi tesi prima di guardarlo e collegati tutti i pezzi, volsi così lo sguardo verso Samantha, chiedendole di andarsene nella sua stanza. Lo fece senza guardarmi e quando mi fui accertata che fossimo soli, mi avvicinai a lui. «Sembra proprio che tu gli abbia spezzato il cuore.» L'odio si risvegliò dentro di me nel capire che anche questo era stato solo un gioco per lui. «Sono molto orgoglioso di te, tesoro.» Tentò di andarsene ma lo fermai, parandomi davanti a lui. Ci fissammo negli occhi e notai il suo divertimento ma non mi lasciai intimorire. Non questa volta perché aveva superato il limite. 

«Sei così convinto di essere invincibile da non renderti nemmeno conto che quando privi una persona di tutto, dopo non ha più niente da perdere. Sei fortunato che sotto questo tetto viva ancora mia figlia perché se no, un buco in testa non te lo avrebbe risparmiato nessuno, tanto meno io.» La sua espressione si fece seria. «Sai nella mia testa ti ho già ucciso un milione di volte, nella realtà me ne basta una sola.»

Sorrise sinistramente, per poi calarsi sulle mie labbra lasciandovi un veloce e gelido bacio a stampo. «Sei la donna più divertente che conosca, ma sei anche la più stupida.» Rimasi immobile senza vacillare. «Credi che sacrificarti sia un merito? Potevi andartene con lui e non me ne sarebbe fregato nulla, così come a tua figlia, ormai ti odia e glielo si legge in faccia. Ti odia anche più di me, a dire il vero.» Sorrise mentre continuai a fissarlo ferita. «Ma credo che non ti abbia voluto nemmeno lui, è così?»

Una rabbia cieca mi avvolse dall'interno e dovetti trattenermi dal cavargli gli occhi seduta stante. «Ti sarebbe piaciuto, eh? Io che me ne vado con lui, per poi rivelargli un giorno che l'uomo che ci ha fatto tutto questo mi aveva rivoltata in ogni dove per anni abusando con il suo potere malato di me e di sua figlia per spezzarlo definitivamente. Beh, non lo farò e ti correggo: non è sacrificarsi, è un atto di carità.» Seguì ogni mia parola in silenzio. «Vuoi che me ne vada? Non lo farò, resterò qui ad aspettare il giorno in cui morirai per poter ballare sulla tua tomba di merda. Quello, Carl, sarà davvero il giorno più bello di tutto la mia vita» gli rivelai, per poi sorpassarlo lasciandolo interdetto. Mi chiusi in camera e attesi che venisse a massacrarmi, ma non lo fece. Non quella sera. Mi lasciò in pace e sinceramente non ne capii il motivo, ma lo aveva fatto.

***

Non dovetti aspettare molto prima che il mio desiderio più torbido si realizzasse, solo che non avrei mai creduto che sarebbe stato per mano di mia figlia e quel giorno sentii crollarmi ancora il mondo addosso.

All'alba dei suoi diciassette anni me la vidi entrare in casa sconvolta, sotto shock e ricoperta di sangue. Sul momento credetti che qualcuno le avesse fatto del male, poi compresi che fosse stata lei a farne e il terrore mi avvolse perché inevitabilmente tornai indietro nel tempo. Temetti che fosse diventata come me, la mia copia sputata, e così mi trovai costretta a ripudiare colei che era sangue del mio sangue. Non poteva restare e non potevo permettere che l'arrestassero e che anche solo gli uomini di Carl si vendicassero, o che sarebbero venuti alla nostra porta per farci Dio chissà cosa, così la cacciai. Le dissi che doveva andarsene e lei lo fece perché, in fondo, non c'era più niente che la trattenesse dal restare in questo inferno. Mi feci odiare ma dovevo assicurarmi che non sarebbe più tornata. Speravo di darle così l'occasione di rifarsi una vita senza di me. Senza colei che inevitabilmente gliela aveva rovinata.

Per permetterle di riiniziare chiamai Arthur, costringendolo a occuparsene visto che era in debito per tutto quello che avevo fatto per lui. Mi chiese se poi avrei voluto sapere dove l'avesse nascosta ma, dopo un attimo di esitazione, gli dissi di no.

Stava meglio senza di me e poi così sarebbe stato più facile non dire nulla se mai me lo avessero chiesto.

Partirono le ricerche, le indagini, i telegiornali su quanto avvenuto perché, essendo morta una persona in vista come Miller, la notizia fece gola in fretta: una morte per cause misteriose, bruciato nella sua stessa auto. Morto tra le fiamme e la cosa inevitabilmente mi fece sorridere, ed erano anni che non lo facevo più.

Ero crudele, inumana a ridere della morte tragica di una persona? Forse, ma non m'importava.

Per passare attraverso l'inferno e uscirne indenni inevitabilmente si perdeva la propria umanità ma ero viva e questo per il momento era più che sufficiente. La ritenevo una grande vittoria per me e quella sera sul portico di casa mia respirai a pieni polmoni l'aria di mare con un sorriso sarcastico sulle labbra e una bottiglia di vino tra le mani.

Era finita ancora una volta e in qualche modo ce l'avevo fatta. Perdendo tutto ciò che ero e amavo, ma ce l'avevo fatta.

Andai al funerale per mantenere le apparenze davanti alla gente, ma soprattutto davanti a chi aveva affari con Miller per proteggere mia figlia. Un avvenimento così pubblico e di tale rilievo che mi caricò di parecchia tensione. Ma il pubblico esame non fu niente in confronto a tutto quello che avevo dovuto passare prima. La vita di un sacco di persone era stata rovinata, così come quella di molte altre sarebbe migliorata con la sua morte.

Guardandomi attorno quel giorno, mi accorsi della presenza di Sharon Miller, sua figlia. La vidi da sola ma accerchiata da alcuni uomini della sicurezza di Carl e un'idea mi balenò in testa. Era più grande di mia figlia e non mi era mai piaciuta forse perché le scorreva lo stesso sangue di suo padre nelle vene, oppure perché i suoi occhi non riuscivano a nascondere il rancore che aveva verso il padre per non essere mai riuscita ad attirare la sua attenzione, così pensai che forse avrei potuto sfruttarlo tanto non avevo più nulla da perdere; non a questo punto.

Attesi che finisse la funzione e che la gente si ritirasse, per poi guardarla mentre si avvicinava alla sottoscritta. «Mi dispiace per tua figlia, Lara. So che stanno facendo il possibile per trovarla...» trattenni a stento il sorriso che minacciava di uscire e la ringraziai per il suo interessamento prima di ricambiare, dispiacendomi per la perdita di suo padre. Non saprei dire chi tra le due stesse mentendo meglio, ma la cosa mi divertii e parecchio. «Potremmo passare un po' di tempo insieme visto che entrambe siamo rimaste sole, che ne dici?»

Ci studiammo a vicenda e mi persi a rimirare i suoi lineamenti dolci e innocenti. «Mi sembra davvero un'ottima idea.» Mi sorrise prima di allontanarsi e rimasta sola, abbassai lo sguardo sulla tomba di Carl.

Avrei fatto in modo che tua figlia arrivasse a rovinare con le sue stesse mani quanto tu avevi costruito con tanta fatica, ma soprattutto con il sangue e le sofferenze altrui.

Un sorriso vittorioso comparve sulle mie labbra e, dopo un'ultima occhiata, me ne andai voltandogli per sempre le spalle.

Da quel giorno programmai ciò che dovevo fare, avevo già calcolato tutto. Ogni mossa, ogni passo. E sentivo che avrebbe funzionato. Ero sulla buona strada. Ben presto avrei ottenuto quello che volevo. Ben presto il momento fatidico sarebbe arrivato. Chiusi gli occhi e nell'oscurità vidi il mio futuro perfettamente chiaro: riconquistare mia figlia.

Il dolore e il senso di colpa, però, non mi abbandonarono neanche nel momento in cui fui libera dal giogo di Miller. Li provavo entrambi. E non avevo modo di lasciarmi alle spalle nessuno dei due. Né ora né mai. Ma avrei provato a dimostrare agli altri che sapevo amare anche io. Stranamente forse e in modo contorto, in un modo che forse non riuscivano a comprendere, ma gli avrei fatto capire che le uniche persone che avevo davvero amato nella mia vita erano mia figlia e mio marito. Nessuno ci avrebbe restituito gli anni perduti e ripagato delle sofferenze patite, di cui per una buona parte la colpevole ero io, ma ci avrei provato con tutta me stessa. Avevo trovato uno scopo e non avrei dovuto far altro che perseguirlo. Non sarebbe stato facile perché molti avevano raccontato bugie sul mio conto, mi avevano trasformato in quella patetica creatura i cui ricordi erano talmente confusi che a volte dubitavo di poter mai riuscire a imporre una sorta di ordine cronologico alle mie rimembranze, ma lo stesso avrei tentato. Per loro.

Prima, dopo, allora, adesso era tutto un ammasso molto confuso e indistinto. E l'unico modo per ridargli nitidezza era portare a termine l'impresa che avevo programmato. Era quasi arrivato il momento per ricominciare. Quasi, ma non ancora. Presto sarei stata pronta, e poi tutto sarebbe cambiato.

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