Capitolo 38 - La Fine Dei Giochi

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Era passato più di un anno da quel lontano giorno e per sopperire alla perdita della sua presenza nella mia vita mi ero dedicata anima e corpo a crescere la mia bambina. Non avrei mai potuto dimenticarlo o anche solo provarci perché tutto in lei me lo ricordava: le espressioni, il sorriso e la sua testardaggine. Il vuoto che aveva lasciato tra noi era incolmabile e, anche se Samantha era ancora piccola, non mancava giorno in cui non mi chiedesse di suo padre.

Ma che cosa avrei mai potuto risponderle se neanche io sapevo dove potesse essere finito?

Non mi volevo fare illusioni ma davanti al suo sguardo non ero riuscita a dirle che forse suo padre non sarebbe più tornato, così l'avevo sostenuta nella fantasia che forse un giorno Jonathan si sarebbe rifatto vivo. Nel frattempo, cercavo di tenermi impegnata, l'avevo iscritta a scuola dove aveva stretto amicizia con due fratelli del posto e da quel momento erano quasi diventati inseparabili, così come io ero entrata subito in sintonia con la loro madre che era una signora abbastanza in vista in questa piccola cittadina.

Ci eravamo ritrovate a passare pomeriggi insieme e a fidarci a lasciare i nostri figli a passare del tempo da soli, fantasticando su chi mia figlia avrebbe sottomesso al suo volere per primo: era una piccola e irresistibile furbetta e mi rendeva ogni giorno più orgogliosa. Non avrei mai pensato di arrivare un giorno ad amare incondizionatamente qualcuno all'infuori di me e stentavo ancora a credere di essere riuscita a mettere al mondo una bambina così bella, nello stesso identico modo in cui non avrei mai creduto che un giorno avrei fatto un figlio e invece... eccomi qui.

Mi ero ritrovata a chiamare Arthur dopo che mi aveva fatto avere il suo recapito e per sua decisione avevamo finito per organizzare qualche giornata con la sua famiglia: aveva avuto un maschio, Thomas, e sembrava da quello che mi raccontava che la sua nuova vita andasse a gonfie vele. Ora era Arthur Grant e finalmente aveva chiuso con la sua vecchia vita. Nel sentirglielo dire non potei che esserne felice, perché voleva dire che almeno una cosa giusta nella vita l'avevo fatta.

Passare il tempo con la mia piccola mi permetteva di dimenticarmi di tutto: trascorrevano la maggior parte del tempo sulla spiaggia e quando era a scuola, ero di turno alla libreria del paese.

Stavo sistemando un nuovo ordine di libri, quando una collega venne a chiamarmi. «Vivienne, c'è una persona che ha chiesto di te.»

Scesi dalla scala e, sistemandomi la divisa, mi diressi verso il bancone. Avvistai un uomo di spalle e mi ci avvicinai. «Desidera?»

L'uomo si girò verso di me e finalmente potei vederlo in volto. Non lo conoscevo ma dal modo in cui lui invece mi squadrò pensai subito che per lui dovesse essere il contrario. «Vivienne Walker?» chiese. Annuii. «Quale libro mi consiglierebbe?» inarcai un sopracciglio perplessa dalla sua domanda. «Vede ho una figlia che compie gli anni tra pochi giorni e non so davvero dove sbattere la testa.»

«Forse dovrebbe chiedere consiglio alla madre, non crede?» fui sarcastica.

«Non siamo più in ottimi rapporti, altrimenti non mi troverei qui a farmi umiliare da lei, non crede

Accennai un lieve sorriso. «Cosa le fa credere che potrei darglielo io?»

Mi guardò, come se fosse ovvio. «Lavora qui, no? E poi è una madre, o mi sbaglio?» Lo fissai guardinga. Non gli sfuggì la mia reazione nel sentire che fosse fin troppo informato. «Non si faccia un'idea sbagliata prima del tempo. Lo so semplicemente perché è una piccola cittadina e, lo so, perché lei mi paga l'affitto tutti i mesi» mi colse impreparata.

«Mi scusi, l'ho affittata tramite un'agenzia, quindi non potevo immaginare...» iniziai, ma subito mi fermò per sottolineare che non ci fossero problemi. «È davvero una casa magnifica, complimenti.»

«Mi fa piacere che sia di suo gradimento.» Iniziò a fissarmi in modo disarmante: aveva un fascino fuori dal comune e dovetti ammettere che un po' m'intrigava; forse perché in questo posto dimenticato da Dio non c'era nessuno con cui intrattenere una conversazione a parte bambini e anziani.

Gli sorrisi ed era una novità per me nell'ultimo periodo, poi presi a guardare il monitor del computer e trovargli così il libro da consigliargli. Gli chiesi gli anni e, avendo più o meno l'età di mia figlia, non fu difficile trovarne uno che le sarebbe andato a genio.

Feci la ricerca sotto il suo sguardo attento e per quanto singolare fosse il fatto che non mi levasse gli occhi di dosso, non mi dispiacque.

Gli citai il titolo e gl'indicai il reparto e lui, raddrizzandosi, mi ringraziò prima di avviarsi in quella direzione. Abbassai lo sguardo, pensando che fossi sola e invece rialzando gli occhi, me lo trovai davanti. Sussultai sorpresa. «Mi rifaccia la domanda che ora credo di avere le idee un po' più chiare.» Rimasi alquanto interdetta e non mi capitava spesso. Mi venne in mente "il Desidera". «La risposta è lei. Per una sera.»

Mi tesi inevitabilmente e senza doverci neanche pensare seppi cosa rispondere e sollevai la mano con la fede che ancora non avevo avuto il coraggio di togliere. «Sono impegnata, mi scuserà se rifiuto il suo invito.»

Notai qualcosa attraversare i suoi occhi ma fu un attimo. «Ha frainteso, c'è una sorta di cena di beneficenza e ho bisogno di un'accompagnatrice e, come ben saprà, questa zona scarseggia di donne interessanti come lei; perciò, solo di questo si tratta: una cena. Niente di più.» L'osservai per capire se stesse dicendo la verità. «A suo marito non dispiacerà se la prendo in prestito per una sera, è per il bene della comunità.»

Non riuscii a trattenere un sorriso sarcastico sulle labbra. Pensai a Jonathan e il vuoto si propagò dentro di me ma nei fatti non c'era nessun marito che si sarebbe potuto dispiacere per una mia uscita e forse non ci sarebbe stato mai più. Mi sembrò di fargli un torto ma in fondo si trattava solo di una cena. «Non posso lasciare mia figlia da sola.»

«Gli posso consigliare io una persona fidata che resti con la bambina, la chiamo spesso per tenere dietro alla mia.» Esitai dal dargli la conferma e lui non si fece un'altra occasione per insistere. «Ora non ha più nessuna scusa.» Mi trovai ad accettare. «La passo a prendere stasera per le venti.»

Annuii e con espressione soddisfatta mi diede le spalle, avviandosi verso l'uscita. «Signor?» chiesi, costringendolo a fermarsi. Si voltò verso di me. «Lei sembra sapere parecchie cose sulla sottoscritta, ma si è scordato di dirmi il suo nome.»

Esitò e parve quasi divertito dalla mia domanda. «Carl. Carl Miller.» Attese una mia reazione che non arrivò e così, dopo aver accennato un saluto, uscì dal negozio a passo sicuro.

Lo seguii con lo sguardo tutto il tempo e solo alla fine mi resi conto di un particolare: non aveva acquistato nessun libro.

Al termine dell'orario di lavoro, passai a prendere mia figlia da scuola e quest'ultima non appena mi vide mi corse incontro tutta felice. Era ancora così piccola che riusciva a farmi una tenerezza fuori dal comune con le sue treccine e il suo vestitino a fiori era la bambina più bella di tutta la scuola.

Jonathan ne saresti stato fiero.

La presi in braccio al volo e la strinsi stretta. Mi salutò radiosa e iniziò a raccontarmi la sua mattinata con entusiasmo, mentre io inevitabilmente non riuscii a non guardarmi attorno, soffermandomi sui genitori e dentro di me sentii nascere la rabbia per qualcuno che per qualche strano scherzo del destino ci aveva lasciate sole.

Non sapevo se ne avesse colpa ma l'unica cosa di cui ero certa era che non aveva scelto me ancora una volta, il suo lavoro vinceva sempre e comunque, e ora ero sola a crescere la nostra bambina. Ero arrabbiata e sentivo che ogni giorno questo rancore cresceva sempre di più indisturbato e non ne potevo fare a meno: era forse l'unica cosa a cui mi ero aggrappata per poter andare avanti.

Ci incamminammo a piedi verso casa, perdendoci in chiacchere, ascoltare Samantha mi metteva di buon umore: aveva una parlantina immensa.

Quando arrivammo a casa, trovai un fattorino intento ad aspettarmi e questo mi porse un pacchetto di grandi dimensioni, lo guardai perplessa. Lo aprii una volta entrata in casa e rimasi sorpresa di trovarvi all'interno un vestito rosso di un'eleganza sopraffina. Capii subito chi me lo avesse mandato ed esitai a toccarlo, pensando subito che non potessi accettarlo, ma che alla fine non avrei avuto niente da indossare per questa serata di beneficenza e immaginavo che bisognasse presentarsi con un certo stile. Così finii per indossarlo.

Mi truccai mentre aspettavo l'arrivo della donna che si sarebbe occupata di Samantha e quando giunse, la studiai con attenzione per capire se potessi fidarmi a lasciarla con lei. Era una signora di mezz'età con esperienza alle spalle, quindi alla fine mi tranquillizzai, salutai la mia piccola e uscii dalla casa sentendo un clacson suonare. Mi chiusi dietro la porta e quando mi voltai, lo trovai in piedi vicino alla sua auto ad aspettarmi.

Fece scorrere lo sguardo sulla mia figura e un'espressione di apprezzamento sorse sul suo volto che mi fece sentire di nuovo desiderabile dopo tanto tempo. «È un incanto, signora Walker. Suo marito è un uomo fortunato.»

Cancellai il sorriso dal mio volto e sentii la poca sicurezza svanire in pochi secondi. «Non parliamo più di mio marito per stasera, la prego.» L'ultima cosa che volevo era parlare di Jonathan o anche solo sentirlo nominare e per fortuna non sembrò essere un problema per lui.

«Come preferisce.» Mi sorrise, aprendomi la portiera e facendomi così accomodare nel posto al suo fianco. Aspettai che salisse a sua volta e poi partimmo verso la destinazione della serata senza sapere esattamente che cosa aspettarmi da lui o dall'evento in generale. Era un tipo particolare ma aveva una sicurezza che in qualche modo mi attraeva, sembrava avere il mondo nelle sue mani e che niente lo spaventasse.

Una volta parcheggiato, mi venne a prendere prima che scendessi da sola e mi porse il braccio e, dopo un attimo di esitazione, lo afferrai lasciandomi guidare all'interno dell'edificio.

Quest'ultimo era di una bellezza unica, storico e decorato con minuzia in ogni particolare e così mi lasciai condurre verso la sala principale.

Varcammo la porta e tutti gli occhi furono su di noi, mi sentii a disagio. Non amavo le attenzioni di questo tipo, poi compresi che non fosse affatto perché fossero incuriositi dalla nuova arrivata, tutt'altro. Tutti gli occhi erano per l'uomo che mi stava a fianco e mi trovai ad ammettere che forse avrei dovuto informarmi meglio prima di accettare il suo invito.

Con indifferenza e come se niente lo scalfisse, avanzò in mezzo alle persone tenendomi ancorata al suo fianco. Salutò cordialmente alcuni degli anziani più in vista ma per il resto non degnò alcun altro della sua attenzione. Sembrava camminare sopra tutti quanti con superiorità e non potei fare a meno di chiedermi che tipo di persona fosse. Non era facile inquadrarlo, anche se mi stavo già facendo un'idea, e il disegno a ogni minuto che passava stava prendendo la sua forma.

Mi porse un bicchiere di vino che accettai perché per questa sera sentivo di averne bisogno per poter allentare un po' la tensione e, senza neanche accorgermene, abbandonai le formalità. «Potevi almeno avvertirmi.» Distolse lo sguardo dalla folla di gente attorno a noi per abbassare lo sguardo su di me. «Che mi avresti usata come una sorta di trofeo.»

Un sorriso saccente comparve sul suo volto. «Mi hai scoperto.»

Accennai un sorriso ironico per poi prendere a bere un sorso del mio vino. «Non fa per me», dissi. «Sono tutti timorosi e riverenti verso di te in questa sala. Chi sei? Il loro sindaco?»

Gli scappò una risata e alzai lo sguardo su di lui incuriosita dalla sua reazione. «No, ma il sindaco lavora per me, così come ogni singola persona in questa sala.» Lo fissai presa in contropiede. «La casa dove vivi è mia, così come ogni altra abitazione di questa cittadina.»

Dapprima pensai che stesse scherzando, poi compresi che in realtà fosse sincero. Lo guardai senza poter fare a meno di giudicare e infatti parlai acidamente. «Dimmi una cosa: adori mettere in soggezione le persone, vero? Quest'aria di superiorità e di arroganza che...»

«Che trovi irresistibile immagino.» Sorrisi incredula di fronte alla sua sfacciataggine. Sembrò cambiare tattica perché, poco dopo, cercò di mettermi a mio agio. «Senti, non resteremo qui per molto. Solo il tempo necessario per parlare con alcune persone di affari e poi ce ne andremo. Ho intenzione di farti fare un giro della città perché scommetto che, in tutto il tempo che sei stata qui, non hai mai avuto modo di scoprire quanto questo posto abbia da offrire: c'è più di quanto t'immagini, fidati di me.» Bevve un sorso dal suo bicchiere, poi si scusò per andare a parlare con un signore dall'altra parte della sala.

Lo studiai da lontano per capire di più su di lui e contavo di riuscirci entro fine della serata se si andava avanti di questo passo. Si girò per cercarmi e quando il suo sguardo si soffermò su di me, mi sentii braccata. Mi fissò convinto di sé mentre continuava a conversare con alcuni uomini del posto. Mi spostai stufa dei suoi giochetti per andarmi a prendere un altro bicchiere ma quando alzai gli occhi, trovai i suoi ancora intenti a osservarmi. Alzai gli occhi al cielo e lui sorrise divertito dalla mia esasperazione.

Una donna mi si avvicinò e mi lanciò un'occhiata alquanto fastidiosa, mi sembrò quasi che mi stesse giudicando. Mi diressi verso l'uscita, sentendomi alquanto in difficoltà da tutta questa situazione.

Ma che stavo facendo? Che ci facevo qui?

Una volta all'aperto, trovai un cameriere intento a fumarsi una sigaretta e così ne approfittai subito per chiedergliene una. L'accesi con una certa fretta e quando sentii la nicotina invadermi, mi sembrò come se l'ossigeno tornasse a circolare nei miei polmoni.

Non saprei dire per quanto vi rimasi, ma dopo un po' di tempo il mio accompagnatore mi raggiunse all'esterno. «Pronta per quel giro?» si accese una sigaretta.

«Non mi sembra che io abbia molta scelta, no?»

Mi guardò con una strana luce negli occhi. «No, credo proprio di no», disse, per poi farmi strada verso l'auto. Lo seguii perché per adesso mi sembrava l'unica alternativa possibile. L'unica scelta per provare a dimenticare una certa persona che non voleva saperne di tormentarmi giorno e notte con il suo pensiero.

Il giro si rivelò più lungo del previsto, mi mostrò ogni angolo di questa cittadina e mi narrò le leggende in cui era avvolta. Non eravamo rimasti alla cena per colpa mia e così mi propose di fermarci a mangiare qualcosa in un locale di sua conoscenza. E al termine della cena risalimmo in auto, chiacchierando del più e del meno e quando arrivammo davanti a una villa antica quanto immensa, mi zittii per ammirarla.

Due uomini all'ingresso ci aprirono il cancello e Carl entrò con la macchina per parcheggiarla nel cortile. «Che posto è questo?» chiesi.

«Questa è casa mia.»

Mi voltai basita e rimase divertito dalla mia reazione. «Credevo dovesse essere solo una cena.»

«Lo è stata infatti, siamo qui solo per parlare di affari.»

Corrugai la fronte perplessa dalle sue parole, ma non feci in tempo a chiedergli nulla che era già uscito dall'auto. Esitai indecisa, per poi seguirlo verso quella che a quanto pareva fosse la sua reggia.

Rimasi in silenzio, meditando su quanto stesse succedendo, e mi trovai a collegare alcuni punti che mi fecero intuire che non avevo di certo passato la serata con una brava persona.

Non lo era affatto, ma d'altra parte chi ero io per giudicare?

Così alla fine, senza protestare, gli andai dietro per quella enorme casa fino a quando non arrivammo nel salone e lui si diresse verso la zona bar per offrirmi qualcosa da bere. Mi porse un bicchiere con del liquido ambrato e lo afferrai come se ne dipendesse la mia vita, poi m'indicò il divano e insieme ci accomodammo. «Parlami un po' di te e dei tuoi progetti.»

Il suo interesse mi sembrò sincero e senza volere mi trovai a dare una risposta. «Non ne ho al momento, diciamo che ora vivo solo per mia figlia.» Bevvi un sorso dal mio bicchiere senza alzare gli occhi su di lui, persa nei meandri dei miei pensieri. «Ho solo lei perciò...»

«Mi piacerebbe prendermi cura di voi», disse ad un certo punto. Strinsi il bicchiere tra le dita scioccata dalla sua proposta prematura. «Non vi mancherà nulla e potrai crescere tua figlia come più ti aggrada ma così potrai garantirle un futuro degno di nota.» Mi limitai a sbattere le palpebre non credendo che questa conversazione stesse avvenendo davvero ma la cosa più pazza fu che mi trovai a riflettere davvero sulle sue parole. Ero sola e con il mio lavoro part time non avrei potuto offrirle nulla appena fosse cresciuta: mi stava offrendo stabilità e sicurezza ed ecco perché esitai troppo a dargli la risposta che il mio cuore stava urlando di dargli. «Devi solo dire di sì, Vivienne.» Lo guardai avvicinarsi a me e, approfittando del mio stato di confusione momentaneo, annullò le distanze. Mi tolse il bicchiere di mano, per poi afferrarmi il volto con una mano e prendere le mie labbra.

M'immobilizzai e istintivamente mi venne da ricambiare ma fu solo per pochi attimi perché poi tutto mi fu più chiaro.

Avevo già detto di sì a un uomo e non era di certo lui, né avrei mai avuto intenzione di ripeterlo a nessun altro.

Il solo sfiorare le sue labbra mi fece venire la nausea perché le mie appartenevano a una sola persona che non si era fatto problemi a lasciarmi ma che inevitabilmente mi aveva cambiata. Portai le mani sul suo petto. Mi fissò senza lasciar trapelare nulla sul suo volto di come avesse potuto prenderla e cercai dentro di me la forza per parlare. Era di certo un buon partito, con tutte le carte in regola e avrebbe potuto offrire a me e mia figlia un futuro che forse non avremmo mai avuto, ma sentivo dentro di me che era la scelta giusta da fare.

Stavamo benissimo io e lei, non avevamo bisogno di nessuno, né tanto meno di qualcuno per colmare il vuoto lasciato da Jonathan. No, non lo avrei mai potuto fare. Non a questo punto della mia vita, così presi la mia decisione. E stavo per aprire bocca, quando disse: «Ero convinto che sarebbe stato più facile, conoscendo la tua reputazione, Vivienne.» Ritrassi le mani dal suo corpo, come scottata dalle sue parole e dal voltafaccia che stava avendo. «Volevo essere gentile ma evidentemente non è questo che apprezzi.» Mi ritrassi nell'angolo del divano senza capire che cosa stesse succedendo, né che cosa volesse da me. «Veniamo a noi, che ne dici? Prima il dovere e poi il piacere a quanto pare.»

Strinsi le mani tra di loro nervosa dalle assurdità che stavano uscendo dalle sue labbra. La rabbia prese il sopravvento, sentendomi a disagio. «Finiscila di prenderti gioco di me perché è da stamattina che lo stai facendo e ancora non mi è chiaro il motivo.» Mi fissò per poi sorridere: un sorriso che iniziai a odiare. «A che gioco stai giocando, eh?»

Esitò nel darmi una risposta prima di alzare il palcoscenico e dare inizio alle danze. «Sarò chiaro con te, allora. Conosci gli scacchi?» chiese. Non abboccai. «Bene. Questa è la fine dei giochi, il momento esatto in cui uno dei due giocatori proclama lo scacco matto e quel giocatore sono io.» Pendetti dalle sue labbra per comprendere fin dove il suo discorso si sarebbe spinto perché a essere sincera mi sembrava di essere in un incubo. «Sono anni che gioco e sono diventato così bravo che non c'è stata neanche una pedina che si sia mossa senza il mio volere e continuerà ad essere così.» Sentii il vuoto propagarsi dentro di me e mi rannicchiai maggiormente su me stessa come a volermi proteggere da qualcosa che ancora non capivo. «Mi stupisce che tu non mi chieda chi sia il secondo giocatore.» Non fiatai perché cominciava a farmi paura, i suoi occhi me ne facevano. «Con tutti gli uomini che potevi avere, sei andata a scegliere il peggiore per te.» Una scossa mi percorse e dei brividi mi colsero nel capire a chi si stesse riferendo. «Vedi, oggi ti ho mostrato parte del mio impero ed era solo una minuscola e piccola parte in confronto a tutto il resto. Non ti sei lasciata impressionare, però, anzi scommetto che nella tua testolina tu abbia già iniziato a fare i tuoi conti. Sei una persona abbastanza sveglia e il tempo ce lo ha dimostrato ma non così tanto, non quanto ti serviva almeno, altrimenti avresti accettato la mia offerta senza fare troppe domande.» Mi gettò una lunga occhiata. «Fidati, in certi casi è molto meglio non conoscere la verità ma tu lo sai bene, giusto?» Impallidii nel sentire la sua accusa. Si portò il bicchiere e lo guardai mentre se lo gustava appieno. «Non ha mai scelto te e lo sai perché? Perché nessuno lo farebbe mai. Sei una perdente e continuerai a esserlo.» Non riuscii a reagire perché sapeva perfettamente dove andare a colpire. «Credi che sia venuto qui per te? Forse, è probabile che una piccola parte di lui non sapesse resistere a questo bel faccino ma è venuto qui perché ci sono io.» Mi sembrò di precipitare in un buco nero senza fine. «La nostra guerra ha avuto inizio tanto tempo fa. Uno braccio di ferro tra l'angelo e il demone, tra l'agente e il criminale che finalmente ha avuto fine.» Lo guardai negli occhi e credetti davvero di avere davanti il diavolo perché una crudeltà così non l'avevo mai vista in faccia a nessuno. «Ha cercato di incastrare me e la mia organizzazione da quando ne ho memoria ma ora... beh, ora non darà più fastidio a nessuno.»

Gli occhi mi diventarono lucidi e sentii il mio cuore spezzarsi. Chissà quante volte avrebbe dovuto farlo ancora prima di morire definitivamente?

«É morto?» la voce mi uscì tremula.

«No. E se mi conoscessi, mi crederesti sulla parola, ma qualcosa mi dice che avrai modo di farlo.» Dentro di me tirai un sospiro di sollievo nel sapere che Jonathan fosse vivo ma dall'altra temetti che la notizia in sé fosse ancora peggiore. «Non amo togliere la vita, adoro torturare molto lentamente chi osa ostacolarmi e Walker è uno di questi.»

Sentii la rabbia scorrermi nelle vene. «E per essere diventata motivo di tuo interesse di quale offesa o crimine mi sarei dovuta macchiare?»

Sorrise orgoglioso della mia domanda. «Oh andiamo...» lo capii senza bisogno che me lo dicesse e mi sentii persa: voleva usare me contro Jonathan ma in realtà era qualcosa di ancora più subdolo. «Devo ammettere che fare mia la donna di Walker è molto gratificante, così come prendermi la sua famiglia.» Il riferimento a mia figlia mi fece fremere e la nausea mi avvolse dal viscere per il terrore di quello che ci si prospettava. «Ma non è l'unica ragione: hai un debito nei miei confronti, anzi parecchi, e non sono mai stato molto transigente sui pagamenti.» L'espressione confusa sul mio volto lo soddisfò. «Ti sei presa la vita di uno dei miei uomini, non voglio azzardarmi a dire che era uno dei migliori ma ci si avvicinava o almeno lo era prima che ritornassi a far parte della sua vita: gli avevo detto di fare attenzione, ma non mi ha dato ascolto e poi è finita come ben sappiamo.»

Le mie mani tremarono nel sapere che lui era a conoscenza della verità ma non abbassai lo sguardo, usando le ultime forze rimaste per affrontarlo. «Non so di cosa stai parlando.»

Si alzò per versarsi altro liquido. «Sai... sono solito inserire in ognuno dei miei uomini un localizzatore per tutelarmi e indovina un po' ce ne aveva uno anche Crawford.» Il mondo mi crollò addosso perché non avevo via di scampo. «È ancora attivo e sai dove me lo segnala? Nel tuo strepitoso seminterrato. Devo farti i miei complimenti, neanche io sarei riuscito a pensare a una follia più buona di quella che hai avuto tu.» Iniziai a sentirmi male perché ripensare a quel giorno mi distruggeva nell'animo ma lui invece sembrava parlarne come se stessimo intrattenendo una qualunque conversazione davanti a un caffè. «Sono stato io a portarlo da te e ora me ne pento, ma chi lo poteva sapere che la bambina strozzata nel seminterrato di un vecchio pezzo di merda, fosse capace di tanto? Fosse capace di uccidere il suo stesso fratello per di più e di manipolare un agente come Walker? Hai del talento devo ammetterlo ed ecco perché sei ancora qui viva e vegeta a parlare a casa mia. Ti sto dando quella possibilità che non hai mai voluto cogliere ed è al mio fianco, perché ormai hai superato la linea dell'impossibile. Hai scelto l'oscurità e, fidati, non c'è uscita e scommetto che lo sai. Ti sei solo illusa di poter essere una persona normale, ma non è così. Non lo è» mi parlò con una serietà che mi condusse a credere che avesse ragione e così lasciai morire dentro di me quel poco rimasto. «E ora ti dirò che cosa succederà.» Lo guardai, preparandomi al peggio ma non immaginavo che sarebbe stato peggiore di quanto avessi mai creduto. «Verrò a stare con te, mi presenterai a tua figlia e diventeremo la coppia più invidiata di tutto il cazzo di mondo. Ti comporterai bene e non mi darai problemi.» Lo fulminai con uno sguardo e fece una smorfia innervosito dalla mia reticenza. «Avrai modo di saldare il tuo debito in questo modo.»

Mi sembrò di stare precipitando in un enorme buco nero e l'ansia mi colse a tal punto da vedere rosso. Si sporse verso il tavolino, dandomi le spalle e ne approfittai per sollevarmi fulminea e afferrando la bottiglia, la spaccai sbattendola contro il tavolo per poi puntargliela contro dalla parte scheggiata. «Sei solo un sadico bastardo e per di più malato...» ero fuori di me e la sua calma mi fece infuriare ancora di più.

«Osa solo sfiorarmi con un dito e Walker morirà. Tradiscimi in qualsiasi modo e Samantha morirà. Disobbediscimi o ribellati e basterà solo questo per trasformarmi nel peggiore dei diavoli di questo mondo.» Sussultai. Afferrò il polso della mano dove impugnavo la bottiglia con forza e si sollevò, sovrastandomi. «È chiaro? Perché ho occhi ovunque e non c'è un solo uomo che non si sia lasciato corrompere dal sottoscritto, quindi non c'è scampo. Devi solo scegliere se farlo con le buone o con le cattive, non è difficile.»

Le viscere mi si attorcigliarono e la paura mi avvolse. Non c'era scelta ed era ovvio ormai come l'aria che si respirava. Gli chiesi così l'unica cosa che m'interessava al momento. «Dov'è Jonathan?»

Mi fissò qualche secondo, per poi sorridere. «Sei incredibile.» Mi demoralizzai ancora di più, sentendo la sua presa in giro e attesi. «In una sorta di missione fasulla, intrappolato in un orrido buco, con alcuni dei miei uomini più fidati, quindi basta solo una mia chiamata o che mi succeda qualcosa e hanno l'ordine di aprirlo in due dalla testa ai piedi» minacciò. «Ma, per adesso, non gli succederà niente: mi accontenterò solo di portargli via e rovinargli per sempre quello che più ama.» Lasciai cadere la bottiglia per terra che andò in frantumi, così come la sottoscritta perché mi avrebbe privata di tutto e lo sapevo, sarei tornata a essere lo stesso identico involucro di prima o forse peggio. Mollò la presa sul mio braccio, per poi alzarmi il volto verso di lui, mi sentii una bambola di pezza a cui avrebbe potuto fare tutto quello che voleva e senza che avessi voce in capitolo. «Bisogna capire che c'è un prezzo per le proprie azioni e voi siete il suo.» A quel voi sentii franare la terra sotto i miei piedi e le gambe mi tremarono. Mi sorpassò indifferente e si avviò fuori dalla stanza. «Torno tra poco.» Mi voltai verso di lui stordita e incredula che mi lasciasse da sola. «Tu intanto svestiti perché sarà una lunga notte.» Il sorriso sinistro che gli comparve sulle labbra mi fece rivoltare lo stomaco. «Una lunga notte di affari come ti avevo preannunciato, perciò prima s'inizia e prima potrai tornare a casa.» Abbassai lo sguardo, sentendomi una nullità. «D'ora in poi sei il mio giocattolo, forse uno dei più belli che abbia mai avuto ma ti assicuro che quando avrò finito con te, stenterai a riconoscerti. La Vivienne di Walker non esiste più, da adesso ritorni a essere Lara e sarai mia», disse, con un tale disprezzo che le ginocchia quasi mi cedettero.

Se ne andò. La disperazione mi colse e crollai a terra sotto shock. Portai le mani al volto e mi presi la testa tra di esse, sconvolta, scoppiai in un pianto estremo che mi graffiò la gola e nell'animo, sentendomi vulnerabile come non mai e impotente. I miei singhiozzi riempirono la stanza, assordandomi. Abbassai lo sguardo sul pavimento e gli occhi mi caddero sui cocci di vetro che aveva lasciato lì indisturbati e mi trovai a pensare, nella mia debolezza, che forse andarsene era la soluzione migliore.

Basta sofferenza, basta tutto, perché in fondo non c'era nessuno che me lo avrebbe impedito se non me stessa o forse era proprio in questo che sperava. Sarebbe stata la via più semplice ma assolutamente non possibile: non potevo lasciare mia figlia nelle sue mani, questo mai, e allora l'unica cosa sarebbe stata quella di stringere i denti e assecondarlo. Era una pazzia, ma non avevo scelta.

Mi sollevai a fatica sulle mie gambe traballanti e sentii la testa scoppiarmi per lo sforzo appena fatto. Sospirai per poi chiudere gli occhi e pensai alla causa di tutto. «Maledizione, Jonathan.» Mi portai le mani al volto e me lo asciugai dalle mille lacrime che lo avevano inzuppato. L'odiai per il casino in cui ci aveva messe.

Mi ero fidata, non gli avevo mai chiesto nulla sul lavoro e lui non aveva fatto altro che lavorare al caso di uno dei più noti criminali dello stato, sapendo benissimo a che cosa si sarebbe poi andati incontro. Ma lo aveva fatto lo stesso e ora a perderci eravamo tutti. Non solo lui, no. Ci perdevo io, ma soprattutto nostra figlia. Volevo odiarlo, lo avrei voluto davvero, ma non ce la feci. Mi aveva delusa profondamente e mi aveva ferita un'altra volta ma se era questo che avrei dovuto fare, perché Jonathan stesse in vita, così come mia figlia, allora lo avrei fatto. Mi ero ripromessa che avrei saldato il mio debito nei suoi confronti ed era giunto il momento, anche se non avrei mai immaginato che sarebbe stato di tale portata perché qui, ancora una volta, ci avrei perso totalmente me stessa e lo sapevo bene. Non sarei più potuta tornare indietro: mi stavo vendendo al diavolo e le porte dell'inferno si sarebbero spalancate al mio cospetto.

I giochi erano finiti, così come la mia vita, e lo compresi quando vidi Carl varcare di nuovo la porta con un sorriso vittorioso sulle labbra. Mi rimase solo un'ultima cosa da fare: annullare tutto. Chiusi definitivamente la mia mente e il mio cuore, azzerai tutto per impedirmi di provare qualsiasi cosa: l'egoismo prevalse ancora una volta, così come l'istinto di sopravvivenza. Cancellai me stessa e i miei sentimenti e una volta fatto, mi sentii quasi invincibile perché non avrebbe più potuto scalfirmi.

Per un po' di tempo funzionò ma poi capii, troppo tardi, che mi ero sbagliata. Avevo sbagliato davvero tutto e a pagarne le conseguenze sarebbe stato qualcun altro. Solo che in quel preciso momento non lo sapevo o mai avrei creduto che sarebbe stato capace di arrivare a tanto. Credevo si sarebbe limitato a rovinare solo la sottoscritta, ma purtroppo non fu così.

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