Capitolo 7- Realtà Cruenta

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Era tutto buio attorno a me. Un buio tetro e scuro come la pece: non vi era neanche un piccolo spiraglio di luce o una fessura da cui poter vedere all'esterno. Parlai sapendo di non essere sola, qualcuno era con me solo che non faceva niente per palesare la sua presenza. Lo chiamai ma non rispose. Così decisi di avvicinarmi per avere un po' di conforto. Tastai il pavimento alla sua ricerca e quando finalmente m'imbattei nel suo corpo, gioii, ma solo per poco perché in un attimo mi ritrovai le sue mani alla gola e il suo viso a pochi centimetri dal mio e me ne accorsi dal fiato che si abbatté sulla mia pelle. Mi mancò l'aria, mi dimenai in cerca di aria o semplicemente della salvezza, ma le forze cominciarono a mancarmi. Un attimo prima di chiudere gli occhi la stanza s'illuminò e il suo volto mi apparve, accecandomi dall'odio che vi lessi: Patrick era sopra di me e mi stringeva con ferocia. Tentai di reagire ma alla fine non mi rimase altro da fare che arrendermi; gli occhi mi si chiusero e le tenebre mi colsero.

Mi sollevai di colpo con il cuore a mille e il sudore ad imperlarmi la pelle. Scostai le coperte e mi sedetti sul bordo del letto, puntando il mio sguardo verso la finestra. Cercai di regolarizzare il respiro e quando ci riuscii, mi alzai e andai in bagno per rinfrescarmi.

Suonarono alla porta nel momento in cui mi stavo finendo di preparare e, dopo aver controllato attraverso lo spioncino, aprii la porta lasciando entrare James. «Sono giorni che cerco di contattarti» mi disse. «Credevo avessi trovato qualcun altro...» Mi sondò attentamente. «Stai bene?» Annuii frettolosamente sotto il suo sguardo poco convinto. Gli indicai lo scantinato. Mi osservò indeciso, poi si arrese e scese le scale che lo avrebbero condotto al suo lavoro, mentre io tornai al mio per cercare di distrarmi dall'ansia che mi aveva colta.

L'incubo doveva essere collegato per forza al riconoscimento che avrei dovuto fare in giornata: non ero pronta né mai lo sarei stata, ma non mi avevano lasciato alternative. Mi stavano con il fiato sul collo e ormai ero sulla bocca di tutti: eravamo riusciti a fare scalpore, Patrick. Mi scappò un amaro sorriso, perché ero sicura che lui avrebbe detto lo stesso.

Afferrai la borsa e, dopo aver avvertito James, uscii. Mi diressi malvolentieri verso l'auto e ci salii. Avrei voluto tanto recarmi nel mio piccolo angolo di paradiso per poter piangere in solitudine ma ora era macchiato del sangue dell'uomo con cui avevo passato gli ultimi mesi; così ingranai la marcia e mi diressi verso il luogo dell'incontro, dove gli agenti mi stavano aspettando per accompagnarmi a fare quanto mi aveva tormentato ogni minuto di questi giorni.

Una volta arrivata, parcheggiai e non avvistando nessuno, mi accesi una sigaretta e mi appoggiai alla mia auto, in attesa. Tentando invano di prepararmi psicologicamente a quando mi aspettava. 

«Ha da accendere?»

Mi voltai per guardare dritto in faccia l'agente che era stato a casa mia e che avevo incontrato anche all'istituto. Ci studiammo a vicenda poi, arrendendomi per prima, distolsi lo sguardo dal suo per tirare fuori l'accendino e lui si avvicinò per poterlo afferrare e accendersi così la sua. Nel frattempo, non potei fare a meno di chiedermi da dove fosse sbucato senza che potessi accorgermi di nulla. Non mi sfuggì che non ci fosse nessun altro con lui. E lì in mezzo al parcheggio, osservandolo mentre indifferente si fumava la sigaretta, non riuscii proprio a starmene zitta. «La sua collega si fida a mandarlo da solo?» Abbassò lo sguardo su di me sorpreso dal mio sarcasmo. «Visto che sembra già avere le idee molto chiare su di me.» Fece un tiro senza rispondere. «Anche lei è della stessa idea?» domandai, curiosa di sapere la risposta.

Un cipiglio sorse sul volto, poi gettò il mozzicone a distanza. «È ora di andare, si dovrà accontentare della mia presenza», disse solo.

Lo guardai presa in contropiede mentre s'incamminava verso l'ingresso dell'edificio e, dopo qualche attimo di esitazione, lo seguii all'interno.

Dovetti firmare dei documenti, così come l'agente che era con me e alla fine ci scortarono verso la stanza in cui lo avrei identificato. Mi spiegarono che non sarei stata a stretto contatto con lui, c'era un vetro a dividerci; non mi soffermai a capire che cosa provassi.

Quando arrivammo davanti alla porta, l'agente si fermò e m'invitò a entrare da sola. Tentennai: non ero pronta e lo capii solo adesso. Non volevo entrare perché sapevo che sarei crollata, così mi trovai a chiedere qualcosa che non credevo possibile. «Le dispiace entrare anche lei?»

L'agente acconsentì. Entrò per primo e lo seguii posizionandomi frontale al vetro e all'altra stanza. Fissai il lettino che portava il peso del suo corpo e il vuoto si propagò dentro di me a quella vista: era lui. Era Patrick: ora ne avevo la conferma. La nausea mi salì dallo stomaco a vedere com'era ridotto, quasi irriconoscibile ai miei occhi: non sembrava neanche quasi più lui. Il corpo martoriato m'indusse a distogliere lo sguardo e cercai di soffermarmi solo sul volto. Istintivamente portai una mano sul vetro e il contatto con il vetro freddo mi permise di rimanere ancorata alla realtà. Una realtà crudele e cruenta sia per la mente sia per il cuore.

«È Patrick Spencer, signorina Cataldi?» mi chiese. Annuii senza più la forza di parlare. «Ho bisogno che lo dica a parole.»

Deglutii confermando oralmente prima di ritrarre la mano come se ne fossi rimasta scottata. Mi propose di usare tutto il tempo a disposizione, ma non facendocela più mi avviai verso l'uscita. Sentii i suoi passi dietro di me ma non me ne curai: avevo bisogno di uscire. Il peso che mi si era riversato addosso si era fatto soffocante.

Alcuni mi accusavano di essere stata la causa e non sapevo più che cosa credere, non volevo nemmeno soffermarmi a pensare che avessero ragione. Non aveva senso e non perché temessi di essere coinvolta in una situazione più grande di me, ma perché non c'era per niente un senso in tutto questo. Patrick non lo avrebbe mai fatto e di certo non per la disperazione di una relazione impossibile. Una persona in salute e senza vizi di alcun tipo, un figlio che amava e che non avrebbe mai lasciato solo e su questo potevo metterci la mano sul fuoco. Non ero brava a capire me stessa, ma Patrick era come un libro aperto e non capivo perché non ne avesse dubitato anche sua moglie che, di sicuro, ci aveva passato più tempo della sottoscritta. C'erano molti, troppo dubbi e domande a cui avrebbe potuto rispondere una e sola persona. Una persona che purtroppo non era più con noi.

Una volta all'aria aperta, trassi un profondo respiro prima di accendermi un'altra sigaretta il più in fretta possibile ma quando portai le mani alla bocca per accenderla, non ce la feci: il suo volto e il cranio fratturato erano fissi nella mia mente in modo indelebile tanto che le mani iniziarono a tremarmi. Il mio battito accelerò e credetti di avere un inizio di attacco di panico ma qualcuno m'impedì di caderci perché una mano comparve nella mia visuale e, togliendomi dalle mani l'accendino, me l'accese lui stesso. Non alzai lo sguardo sull'agente e con una mano tenni la sigaretta mentre l'altra la nascosi per cercare di impedire il tremolio. Feci qualche tiro in silenzio sentendomi a disagio perché non sapevo come comportarmi né che cosa fosse giusto dire ma, forse, non c'era niente di giusto da dire se non l'ovvio. «Quand'è morto?»

Esitò, forse perché doveva decidere se parlarmene o meno. «Lo abbiamo trovato due giorni dopo la sua scomparsa. S'ipotizza sia avvenuto durante la notte del giorno stesso: la moglie ha riferito che è uscito per una commissione e poi non è più ritornato.»

«Quindi avete un buco di diverse ore dove non si sa nulla: niente di niente...»

«Non posso parlarne con lei, sono informazioni strettamente confidenziali», disse.

«Non può o non vuole?» lo provocai. «Non le ho chiesto nulla, la mia voleva essere solo una constatazione sui risultati ottenuti dal dipartimento: ovvero il nulla» parlai aspramente. 

Lui mi fissò, serrando la mascella. «Forse ce ne sarebbero se decidesse di essere più collaborativa.» Lo guardai interdetta. «Senta, il signor Spencer è morto in circostanze ignote, l'unico movente si ricollega a lei. Non ci sono telecamere in quella zona e lei è l'unica a conoscere quel posto e a frequentarlo. Spencer si è recato lì con la sua auto e poi è stato ritrovato disteso sulle rocce dello strapiombo. Le soluzioni sono due, non ci sono molte alternative.»

«Lei crede che io c'entri qualcosa» mormorai per nulla sorpresa.

«Non ho detto questo, dico solo che non si trova in una bella posizione.»

Incrociai i suoi occhi. «Lo dice per incastrarmi o come...?»

«Lo dico come persona esterna ai fatti: deve fare attenzione» mi interruppe. «Se è come dice lei, ovvero che non c'entra niente, allora farebbe bene ad accettare la verità.»

«E quale sarebbe?» lo affrontai adirata.

«Che è morto di sua spontanea volontà.»

Scossi la testa in disaccordo poi, ricordandomi con chi ero, mi morsi la lingua pur di non aggiungere qualcosa che non dovevo dire. «Cosa le fa credere che non l'abbia già accettata?»

«Glielo si legge in faccia» mi prese in contropiede, ma non distolsi lo sguardo dal suo, non volendo fargli capire che mi aveva infastidita. Si arrese, sapendo che non avrei controbattuto, e si avviò verso la sua auto.

Raggiunsi la mia. Poi mi voltai e prima che scomparisse non resistetti dal fargli una domanda che avevo avuto tutto il tempo sulla punta della lingua. «Che tipo di poliziotto è lei?» Si voltò verso di me confuso. «Uno di quelli che archivia i casi o li risolve?»

Mi gettò una gelida occhiata. Poi salì in auto, sbattendosi dietro la portiera e mise in moto, uscendo dal parcheggio.

Si era offeso.

Inspirai a fondo, salii in auto e partii con un peso in più sul petto. Un peso che difficilmente se ne sarebbe andato.

***

Una volta a casa, stavo per aprire la porta quando qualcuno mi precedette. Fissai James interdetta, mentre lui mi sorrise. «Ho dovuto fare gli onori di casa al posto tuo, spero non sia un problema.»

Corrugai la fronte, per poi chiedergli di che cosa stesse parlando e quando mi fece entrare, non ebbi bisogno di sentire una risposta perché me la ritrovai davanti. «Papà? Che ci fai qui?»

«Come che ci faccio qui? Sono tuo padre, no? Avrò ben il diritto di venire a trovare mia figlia.» Lo raggiunsi per abbracciarlo. «Meno male che c'era questo baldo giovanotto ad aprirmi... Piuttosto che stai combinando in questa vecchia casa?»

Gli feci strada verso il soggiorno. Gli spiegai in poche parole in cosa consistevano i lavori e si propose di aiutare James nelle sue faccende, facendomi sorridere, così come anche il soggetto in questione che ci stava osservando curioso sulla porta. Poi lui si congedò per recarsi giù nel seminterrato e restammo da soli. «È un bravo ragazzo.»

«Non lo conosci neanche, papà» ribattei.

«Certe cose questo vecchio le capisce molto meglio di te.» Risi e mi sedetti vicino a lui contenta che fosse venuto, ne avevo proprio bisogno dopo la giornata che avevo avuto. «Come stai, Vivienne?», domandò. Mi tesi, ma cercai di non darlo a vedere. «È passato Arthur ieri e...»

«Non ti devi preoccupare, papà. Così come la mamma. Non è niente che io non possa risolvere.»

Portò una mano sulla mia spalla perché lo guardassi e lo feci malvolentieri. «Eri molto legata a quell'uomo, Vivienne? Non è mai semplice perdere qualcuno, ma sono qui se hai bisogno.»

Trattenni il fiato e lo guardai per capire se mi stesse giudicando per il mio comportamento scorretto: in fondo avevo avuto una relazione con un uomo sposato. «Non mi va di parlarne adesso.»

Annuì, poi disse qualcosa che mi colse impreparata. «Non riesci a non pensarci.» Un nodo mi strinse lo stomaco. «Vivienne, io so chi sei. Non guardarti più indietro, pensa solo al tuo futuro: non voglio vederti cadere nel baratro.» Mi afferrò le mani tra le sue. «Bisogna guardare avanti: è così che fanno i vincitori.»

Presi a fissarlo, poi sorrisi forzatamente. «E tu credi che io lo sia?»

«Ovvio, Vivienne, e non dovresti neanche dubitarne: non dopo quello che hai passato.»

Tolsi le mani dalle sue. Cercai di sminuire l'importanza che lui tendeva dargli, ma non esitò neanche un secondo a rimproverarmi.

Parlammo ancora qualche minuto, poi mi comunicò che doveva andarsene a causa di un impegno e lo accompagnai alla porta. Mi abbracciò per darmi forza e lo ringraziai per essere passato. Stava per andarsene quando si voltò verso di me. «Stai attenta con tuo fratello: quel ragazzo tende a mettersi nei guai ultimamente e non voglio che ti trascini con lui. Uno posso aiutarlo, ma se siete in due diventa complicato per questo vecchio.»

Sorrisi non potendo fare a meno di adorarlo. «Stai tranquillo, papà.»

Mi fissò scettico facendomi ridere e, dopo averlo salutato con un bacio sulla sua ruvida guancia, dall'odore di tabacco, che avevo imparato ad amare, lo guardai allontanarsi lungo il vialetto verso la sua auto. Alzò una mano in segno di saluto prima di partire e dopo averlo visto sparire lungo la strada, rientrai, riflettendo sulle sue parole.

Si sbagliava: Arthur non era l'unico a cacciarsi nei guai.

Accesi la musica mentre iniziavo a preparare la cena. Apparecchiai e cucinai più del dovuto ma avevo bisogno di tenermi impegnata, così non m'accorsi della presenza di James finché non parlò. «Ho finito per oggi.»

Mi voltai. Si avviò verso l'uscita con i suoi attrezzi, ma lo fermai, ricordandomi le parole di mio padre. «Ti va di restare per cena? Ho cucinato per un esercito.» Guardò alle mie spalle ed esitò prima di rispondere. «Se devi andare, però...»

«No, va bene.» Mi sorrise e si sedette mentre finivo di preparare i piatti.

Non saprei dire che intenzioni avessi, sapevo solo che non volevo restare da sola e se potevo cenare con qualcuno ben venga, chiunque esso fosse.

«Che buon odore», disse, quando gli servì la cena.

Sorrisi senza dire nulla e mi sedetti pronta per cenare quando mi resi conto che non avevo per niente fame. Anzi il mio stomaco era chiuso e non ne voleva per niente sapere del cibo che avevo davanti. James mi parlò ma non riuscii a seguire neanche una parola, così finsi di ascoltarlo. Mangiai due o tre bocconi, finendo per giocherellare con la forchetta nel piatto. Come un flash mi comparve davanti l'immagine di Patrick disteso all'obitorio e mi paralizzai. A questa immagine, però, si sovrappose il Patrick sorridente, anche se non riuscì per niente a prevalere sull'ammasso sanguinante che avevo dovuto riconoscere quella mattina e sentii la nausea salirmi. Mi alzai di scatto e mi diressi verso il bagno, chiudendomi all'interno. M'inginocchiai davanti al gabinetto, per poi rimettere quel poco che avevo mangiato. Tolsi i capelli dal viso, raccogliendoli di lato e rimasi spossata sul pavimento.

Mi accorsi solo dopo che il mio ospite mi aveva seguita e che fosse intento a bussare alla porta. «Vivienne?» Alzai la testa al soffitto e, con gambe traballanti, mi sollevai per sciacquarmi il viso e bagnarmi i polsi sotto il getto dell'acqua fredda. «Apri la porta, per favore.» Mi asciugai con la salvietta. Aprii la porta e me lo ritrovai davanti preoccupato. «Che succede?»

A sentire queste parole mi scossi maggiormente perché Patrick era solito chiedermi la stessa cosa quando non riusciva a capirmi. E purtroppo succedeva spesso. «Preferirei che te ne andassi.»

Il suo volto divenne di marmo. Lo sorpassai. Barcollai a causa di un forte giramento di testa e lui fu così veloce da afferrarmi. «Non riesci proprio a fare a meno di cadere ai miei piedi.» Alzai gli occhi su di lui perplessa, ricordare il mio volo giù dalle scale fu facile e vedendo che stava scherzando non riuscii a non sorridere per la sua pessima battuta. James ricambiò senza ancora aver mollato la presa su di me. «Forse è meglio che ti stendi un po', che dici?» Annuii, sentendomi debole, e fu così gentile da accompagnarmi in camera da letto. Appena mi appoggiai al cuscino, sentii le mie palpebre farsi pesanti. Mi coprì. «Riposati, Vivienne. Ci vediamo dopodomani.»

Feci in tempo a sentirlo uscire dalla stanza che crollai nel mondo dei sogni. Un mondo che speravo sarebbe stato senza incubi per stasera.

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