Capitolo 6- Assenza Dolorosa

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Mi sedetti sull'unica sedia presente nella stanza, sentendomi sotto scacco. Quando parlai, cercai di controllare la mia voce perché non cogliessero il tremolio che mi aveva colta. L'ansia che in realtà mi avvolgeva il cuore e la mente. Chiesi cosa volessero. Guardai l'agente che avanzò nella mia direzione, ignorando l'altro che invece rimase in disparte ma vigile. «Vorremmo farle solo qualche domanda», disse la donna.

«A che proposito?»

«Quand'è stata l'ultima volta che ha visto il Professore Spencer?» mi prese in contropiede.

«Due giorni fa, qui nell'istituto.» Soppesò le mie parole come se non mi credesse e dovesse verificare a tutti i costi il vero: l'odiavo di già. Riportai così l'attenzione sul preside che se ne stava in silenzio a seguire la scena senza far nulla e sentii la rabbia ribollirmi nelle vene. «Perché cos'è successo?» non ricevetti risposta, anzi la donna si voltò un attimo verso l'uomo che non aveva ancora detto una parola ma che non aveva mai smesso un attimo di studiarmi da quando ero entrata. «Avete chiesto alla moglie? Di sicuro, ne sa molto più di me.» Non riuscii a trattenere il tono sprezzante che mi uscii. L'agente in disparte sorrise, anche se tentò di nasconderlo, al contrario della donna che invece mi fulminò.

«Vede, glielo chiediamo perché ieri sera l'ha chiamata per ben tre volte.»

«E con questo?»

Che cosa volevano dimostrare? Non stavo capendo nulla e avevo il terrore di scoprire che cosa mi stessero nascondendo.

«Che rapporti ha con il Signor Spencer?», domandò. «Una semplice amica o qualcosa di più?» Mi ricordai della promessa fatta a Patrick e l'avrei mantenuta: lui aveva da perderci molto di più e di certo non avevo l'intenzione di rovinare il suo matrimonio o il rapporto con suo figlio. «Non abbiamo ancora riferito nulla alla moglie ma, al termine di questa conversazione, sarà d'obbligo.» 

«Dov'è, Spencer?» chiesi invece. Non mi rispose perdendo il suo tempo a studiarmi. Arrivai così a comprendere qualcosa di terrificante. «Dov'è? Sta bene?» non ebbi il coraggio di alzare gli occhi e guardarla, aspettai solo che avesse il coraggio di dirmi l'inevitabile.

«È morto, signorina Cataldi.»

Il mio cuore si fermò paralizzato dalla notizia. Non poteva essere morto, non Patrick. No. No. La vista mi si appannò e mi sentii male, un male fisico da straziarmi per le emozioni contrastanti che si diffusero dentro di me, pronte a soffocarmi. Dentro urlavo ma vista dall'esterno dovevo dare tutt'altra impressione e lo capii dalle loro occhiate. Non saprei dire come, ma riuscii a trovare la forza per fargli un'ultima domanda alla ricerca di un senso o di una testa a cui dare la colpa. «Come... Come è successo?» alzai gli occhi sulla donna e notai che l'altro agente si fosse avvicinato per spalleggiare la sua collega che esitò nuovamente nel darmi la risposta, non facendo altro che agitarmi maggiormente perché si presagiva qualcosa di ancora peggiore.

«Ci sono ancora le indagini in corso, ma s'ipotizza un suicidio.»

Una voragine si aprì nel mio petto e mi sentii morire. Mi portai una mano al volto sconvolta per cercare di controllarmi anche se, probabilmente, sarei esplosa di lì a poco; tutto questo era surreale.

Patrick non poteva essersi... non lo avrebbe mai fatto e potevo esserne certa. Non aveva un senso e dovevano saperlo anche loro.

«Beh, vi sbagliate. Vi state sbagliando» la presi in contropiede e mi osservò esitante. Curiosa di quello che le avrei rivelato, forse sperava proprio che confessassi l'omicidio del mio amante: glielo lessi in faccia, non mi poteva vedere e mi aveva già giudicata ancor prima di entrare da quella porta.

«Non credo: è stato trovato morto nella riserva naturale a pochi chilometri da qui.» Mi paralizzai capendo subito di che luogo stesse parlando e guardai l'altro agente prenderla per una spalla, forse per impedirle di proseguire ma ormai la donna sembrava essere di tutt'altra idea. «È caduto o si è lanciato da un altura, per poi morire a causa dell'impatto.» Smisi di ascoltare e fui colta dal panico, la nausea m'investì in pieno e mi alzai sotto i loro sguardi indagatori. Non volevo dare di matto davanti a loro, odiavo mostrarmi debole, ma questa volta trattenermi fu più difficile del previsto, così mi affrettai ad andarmene. Il sapere che fosse morto nello stesso posto in cui eravamo stati insieme solo pochi giorni prima mi sconvolse emotivamente. «Non abbiamo finito, signorina Cataldi.»

Mi fermai sui miei passi. «Invece credo di sì. Se avete altre domande da farmi sapete dove trovarmi, ma ora mi serve qualche minuto» le ultime parole sfumarono sulle mie labbra tanto che credetti non mi avessero sentita. Aprii la porta e me ne andai.

«Hai superato il limite.»

Non mi curai di quello che stava avvenendo all'interno di quello ufficio. Non passai neanche in aula a ritirare le mie cose e fuggii fuori dall'istituto senza prendere nemmeno l'auto siccome non ero in grado di guidare in questo momento: le mani mi tremavano e respiravo a fatica.

Camminai fino a casa senza sentire il peso del tragitto e una volta arrivata a destinazione, entrai e mi chiusi la porta dietro di me appoggiandomici con la schiena. Chiusi gli occhi e sentii le forze abbandonarmi. Non mi ero resa conto delle abbondanti lacrime che erano scese sulle mie guance e mi morsi le labbra finché non sentii il sangue fuoriuscire. Avanzai verso il soggiorno e come un fulmine a ciel sereno tutti i momenti passati insieme mi tornarono in mente in una dolorosa e lente agonia. I suoi ricordi mi martellarono in testa fino a farmi scoppiare: il suo sorriso dolce, la sua espressione imbronciata e il suo modo di scherzare su qualsiasi cosa, le sue carezze e le sue attenzioni mi trafissero nell'animo e non mi rimase altro da fare che urlare tutta la mia frustrazione e il mio dolore. Urlai fino a quando non mi bruciarono le corde vocali e piansi. Piansi una persona che non c'era più nella speranza che avrebbe fatto meno male, ma non successe, così come le stesse lacrime non finirono continuando a riversarsi sul mio volto. Ruppi tutto quello che mi si presentò a portata di mano e quando non vi era rimasto più nulla, crollai con le ginocchia al suolo, per poi raggomitolarmi in cerca di un po' di consolazione. Un conforto che avrei avuto solo da me stessa: questo era un dolore che avrei dovuto portare da sola, non c'erano alternative. Non capivo perché le cose fossero dovute andare in questo modo ma questo non mi fermò dall'incolparmi anche adesso, distesa e inerme sul mio pavimento. Fissai il soffitto distrutta per la sua morte; una morte improvvisa che era riuscita in pochi attimi a spezzarmi.

Suicidio?

Mi venne da ridere istericamente al solo pensiero, era una parola che non si poteva affiancare a Patrick: un uomo così pieno di vita da star bene anche con a fianco una come me, un uomo con l'entusiasmo di un bambino; era sensibile certo, ma non fino a questo punto.

Non aveva senso, ma tanto chi mi avrebbe mai ascoltata? 

Non saprei dire per quanto rimasi in quella posizione ma a un certo punto mi sollevai a fatica, guidata dal bisogno fisico di sentirlo vicino e così mi recai nella mia camera da letto. Mi diressi subito verso l'armadio e spulciai tra i miei vestiti alla ricerca di una maglietta che si era dimenticato tanto tempo fa e che non avevo avuto occasione di restituirgli.

Quando la trovai, la rimirai tra le mani come una reliquia: aveva ancora il suo odore. Mi distesi sul letto stringendola al petto e chiusi gli occhi per la forte emicrania che mi colse a causa del troppo piangere e delle troppe emozioni. Riaprii gli occhi e lo vidi proprio come se fosse ancora qui con me. Mi persi a osservare i suoi lineamenti per cercare di imprimerli il più possibile nella mia mente. Gli occhi mi tornarono lucidi e non riuscii a soffocare una domanda che continuava a ripetersi ininterrottamente dentro di me.

Perché dovevamo renderci conto di quanto valesse quello che avevamo tra le mani solo quando finivamo per perderlo? Sarebbe rimasta, però, una domanda dolorosa e senza risposta perché purtroppo non si poteva fare mai a meno di ricommettere questo errore.

Osservai il suo volto alla ricerca della verità, sondai i suoi profondi occhi verdi nella speranza di trovare le risposte che avevo bisogno di sentire.

Perché Patrick? Perché? Se sapevo come sarebbe andata a finire, non ti avrei mai lasciato andare via quella sera. Se avessi saputo a cosa sarei andata incontro, perdendoti, avrei voluto rispondere a quel maledetto telefono per impedirti di fare qualsiasi cosa; ti avrei chiesto di tornare da me perché forse insieme ce l'avremmo fatta, anzi che dico? Tu da solo ce l'avresti fatta a farmi uscire dal fango in cui ero caduta e da cui adesso sapevo che non sarei più riuscita a rialzarmi. Non se non c'era qualcuno pronto a tendermi una mano, e tu eri quel qualcuno, Pat. Lo eri.

Lo guardai sbiadire e scomparire dalla mia triste illusione e i singhiozzi ripresero fino a quando non crollai sfinita. 

Rimasi distesa sul letto per il resto del giorno e quello seguente finché non sentii suonare alla porta. Non mi mossi. Volevo essere lasciata in pace, ma evidentemente chiunque fosse era di tutt'altra idea. Sentii la polizia annunciarsi. Non mi ero neanche alzata che mi giunse la voce di Arthur. «Sono il fratello... Non potete entrare così!» Lo sentii arrabbiarsi ma alla fine si arrese perché non c'era molto che potesse fare. «Aspettate qui.» Spostai lo sguardo sulla porta e lo vidi entrare. Mi osservò avvicinandosi e una volta che mi ebbe raggiunto, si inginocchiò al mio fianco. «Come ti senti?»

Non seppi che cosa dire, così gli risposi con un'altra domanda. Non ne rimase sorpreso perché non ero solita dilungarmi in quello che sentivo. «Da quanto sei qui?»

«Da ieri sera. Non rispondevi al telefono, così sono venuto a vedere come stavi... Ho visto il notiziario» mi spiegò. Un nodo mi strinse la gola al pensiero di Patrick morto sulle stesse rocce che avevamo guardato pochi giorni prima. «Non reagivi, così sono rimasto e quando finalmente ti sei addormentata, ho preferito lasciarti riposare.»

Alzai gli occhi su di lui. «Credevo che te ne fossi già andato.»

Mi strinse le mani, cogliendomi di sorpresa. «Non potevo lasciarti da sola, non con quello che è successo.»

Tolsi le mani dalle sue e dissi quello che sentivo essere il vero. «Non è stato lui, Arthur.»

Mi sondò un attimo in silenzio. «Senti, Vivienne, ci sono due agenti di là che vorrebbero farti alcune domande ma se non te la senti, posso mandarli via in due minuti.»

«È inutile rimandare l'inevitabile, no?»

Mi sollevai sotto il suo sguardo contrariato. «Io non credo che tu sia abbastanza lucida. E per parlare con quella gente bisogna esserlo. Basta un errore o una parola di troppo che trovano il modo di coinvolgerti più di quanto pensi, fidati lo so.» Indossai una vestaglia e mi legai i capelli che nella notte avevano assunto un aspetto terrificante, non che m'importasse naturalmente, ma per esperienza sapevo che fosse meglio affrontare il nemico a testa alta. «Vivienne! Mi vuoi ascoltare, per favore: non dire nulla, non fargli sapere quello che pensi e non dirgli quello che hai detto a me perché vorranno una spiegazione.» Mi voltai verso di lui interdetta. «Non immischiamoci in problemi che non ci riguardano. Non vogliamo che tirino fuori vecchi scheletri dall'armadio, no? Credo che sia quello che voglia anche tu.»

«Arthur, ringrazio che siamo diversi», sbottai. «Patrick è morto e lui non si merita tutto questo quindi, se posso fare qualcosa per lui, non mi tirerò di certo indietro. In questo momento non m'importa niente del resto. Come ti ripeto, Patrick è morto.»

«Non sai cosa stai dicendo. Bisogna davvero mettere tutto in discussione per lui, in fondo...» 

Lo fulminai con una occhiata. Uscii dalla porta più nervosa di prima e m'incamminai verso il soggiorno per affrontare i due agenti: la donna aspettava scocciata per l'attesa, mentre il suo collega era immerso sempre nella stessa indifferenza.

Quando si accorsero della mia presenza, puntarono entrambi i loro sguardi su di me, per poi spostare lo sguardo alle mie spalle; probabilmente attirati dall'arrivo di mio fratello. Prima di parlare cercai dentro di me la forza per tenergli testa e diedi inizio alle danze. Mi guardai attorno e mi accorsi che Arthur aveva messo in ordine il casino che avevo fatto al mio arrivo. «Scusate l'attesa, in cosa posso esservi utile questa volta?» 

«Dove si trovava la sera dell'accaduto?» la donna prese la parola mio malgrado.

Mi sedetti e sentii la presenza di Arthur dietro di me pronto a sostenermi. «Qui a casa» risposi senza esitazione, non avendo nulla da nascondere.

«Qualcuno può testimoniarlo?»

«No.»

«Vive sola?»

«Cosa vuole insinuare con tutte queste domande?» la voce di Arthur si levò nella stanza.

Gettai un'occhiata a mio fratello per fermarlo. Non doveva intromettersi. «Arthur, credo che l'agente stia facendo solo il suo lavoro. Mi sbaglio?»

La donna mi osservò adirata. Il nostro gioco di sguardi fu, però, interrotto dalla voce autoritaria dell'altro agente che si rivolse alla sua collega. «Agente Rupert, da adesso prendo io le redini se non le dispiace.» La donna si voltò verso di lui sorpresa, per poi acconsentire malvolentieri. L'uomo si allungò in avanti e per la prima volta mi persi a osservarlo, non dal punto di vista estetico, ma a studiarlo visto che era difficile leggerlo e comprendere che tipo fosse a differenza della sua collega. «Signorina Cataldi, qui nessuno è venuto per giudicarla o accusarla di qualcosa. Siamo qui solo per far luce sugli eventi che hanno coinvolto il signor Spencer e lei, da quanto siamo riusciti a raccogliere, è una delle poche persone a lui vicine.» Rimasi in silenzio e immobile per evitare che anche il più piccolo gesto fosse d'aiuto per inquadrarmi. «Lei ha visto o sentito il signor Spencer ieri l'altro?»

«Mi sembra di aver già risposto a questa domanda e la risposta è sempre la stessa: non ho visto e non ho parlato con il professore durante quella giornata.»

Serrò la mandibola, poi proseguì sempre con il suo carisma. Le mani di Arthur si posarono sulle mie spalle per cercare di calmarmi ma mi provocarono l'effetto opposto. Un gesto che non sfuggì ai due agenti.

«Sa, se aveva qualcosa che lo preoccupasse? O qualcuno? Qualsiasi cosa le venga in mente ci potrebbe essere utile.»

«No, niente. Non è un argomento che si affronta con una collega, non crede? I suoi famigliari e sua moglie di sicuro le saranno molto più utili della sottoscritta.»

Si portò una mano sulla bocca, un chiaro segno di nervosismo. «Lei c'è mai stata?» chiese, cambiando approccio.

Una domanda semplice ma che mi riportò all'interno di un buco nero senza fine, perché stavo cercando di ignorare questo particolare da ieri per non affondare con le mie ultime speranze. Mi trovai di fronte a un bivio. Parlare o meno e, alla fine, vinse quella meno probabile. «Sì, ogni tanto sono solita andarci.»

Seppi dove sarebbe andato a parare ancor prima che aprisse bocca e speravo di non essermi costruita la tomba con le mie stesse mani. «Ci va sola?»

«Sempre. Amo la solitudine.» 

I suoi occhi brillarono. Lo divertivano le mie risposte. Poi meditai su quello che realmente fosse accaduto: avevo mostrato quell'angolo di paradiso a Patrick e lui dopo due giorni era morto proprio su quelle rocce senza una ragione precisa o che spiegasse il perché fosse dovuto succedere, soprattutto in un posto a lui completamente sconosciuto. Ero stata io a mostrarglielo e lui era morto lì, precipitando a diversi metri di altezza. Mi sentii male e notai l'espressione dell'agente cambiare: probabilmente dovevo aver perso colore. 

«Non se ne vedono molte come lei, signorina Cataldi.» L'agente Rupert s'intromise nel dialogo, destabilizzandomi per qualche secondo. «Ma una cosa è certa: se è coinvolta con la morte del Professore, lo scopriremo.»

M'irrigidii per la conclusione a cui fosse giunta e notai l'altro agente tenermi sotto scacco con lo sguardo per fare in modo che non gli sfuggisse alcuna reazione ma avrebbe fatto un buco nell'acqua. Non tendevo a sbilanciarmi in manifestazioni emotive, se non nel buio della mia camera. «Le auguro una buona caccia allora. Ora gradirei che ve ne andaste.»

Mi fissarono per qualche attimo di troppo prima di alzarsi. Il primo fu l'agente e, dopo i convenevoli dei saluti, si avviò verso l'uscita. La donna però fu di tutt'altra idea, infatti si voltò verso di me prima di seguire il suo collega che la fissò contrariato. «Un'ultima cosa: la signora Spencer ha chiesto espressamente che sia lei a fare il riconoscimento del corpo.» Smisi di respirare scioccata dalla richiesta della moglie. L'uomo la richiamò ma lei se ne fregò altamente e prese la palla al balzo per vendicarsi. «Voglio che veda cosa gli ha fatto, cosa ci ha fatto... Sono le sue esatte parole.» La guardai avvicinarsi al suo collega in trance. «Buona giornata, signorina Cataldi» aggiunse con una certa ironia, poi se ne andò. L'uomo si voltò verso di me per dire qualcosa, poi ci ripensò e seguii la sua collega chiudendosi dietro la porta.

Il gelo e il silenzio scesero sulla stanza, mentre cercavo di metabolizzare il fatto che avrei dovuto vedere Patrick in quelle condizioni e tremai al solo pensiero. «Vivienne.» Fissai la porta perdendo la cognizione della realtà. Non avrei mai immaginato che la mia vita avrebbe preso questa piega quando mi ero alzata dal letto ieri mattina eppure, ora eccomi qui, senza avere la più pallida idea di come affrontare tutta questa situazione e come uscirne. «Vivienne.» Sentii la presenza di Arthur vicino a me e alzai così gli occhi su di lui. «Non devi ascoltarli e non sei obbligata a fare nulla.»

«Lo so, non serve che tu me lo dica.» Ci rimase male, ma cercò di mascherarlo. «Ora vorrei rimanere sola.» Mi mossi per tornare nella mia camera, ma lui mi afferrò per un polso impedendomi di proseguire.

«Forse dovresti andare a stare un po' dai nostri genitori» mi propose. Riflettei sulle sue parole, ma tanto sapevo che non sarebbe stata la soluzione. «Non mi piace che resti da sola, soprattutto adesso.»

«Te ne stavi andando Arthur, non credo te ne importi poi così tanto.» Me lo rimangiai subito, ma ormai era tardi. «Non importa che resti, me la caverò, non ti preoccupare.»

Si tese, prima adirato per la mia frecciatina e poi nervoso per il mio assecondare la situazione, ma avevo parlato seriamente: in qualche modo ce l'avrei fatta anche senza di lui.

«Ho detto che resto, almeno finché le acque non si saranno calmate.» Mi fissò serio per rendere più chiaro il concetto e alla fine mi arresi, annuendo poco fiduciosa. Lo accompagnai alla porta e prima di andarsene, si voltò verso di me. «Non fare cavolate mentre non ci sono. Ne usciremo come sempre, questa volta non sarà un'eccezione.» Annuii distrattamente e lui ne approfittò per lasciarmi un bacio veloce sulla fronte. Lo guardai allontanarsi con le mani nelle tasche verso la sua auto e poi scomparire. 

Il giorno seguente non andai al lavoro, prendendo un permesso: volevo poter entrare nell'istituto senza temere di crollare al minimo affronto o al più piccolo dei ricordi.
Infatti, quando vi ritornai, dovetti ignorare parecchie occhiate da parte dei colleghi, chiacchere sottobanco che ormai si diramavano sempre più rapidamente. La mia reputazione era rovinata o se non lo era ancora, lo sarebbe stata presto e allora, ne ero più che certa, mi avrebbero chiesto di andarmene.

Riflettendoci però, per il momento, era l'ultimo dei miei problemi: lo erano le sedie vuote, gli sguardi calorosi dell'uomo che non ci sarebbe stato più. Il suo sorriso e i suoi scherzi con il solo scopo di strapparmi un sorriso. La sua mancanza si sentiva ed era fisicamente dolorosa, si percepiva in ogni angolo di questo istituto e non ero la sola a pensarla in questo modo: molti studenti erano rimasti sconvolti dalla dipartita del loro allenatore, così come molti genitori.

Speravo solo di non dover diventare il capro espiatorio o una via di fuga dalla sofferenza che la sua mancanza aveva provocato. 

Uscii dall'edificio sfinita per essere stata tutto il tempo sotto pressione e una volta fuori, mi voltai alzando lo sguardo verso la scuola e, contemplandola in silenzio, non potei fare a meno di ricordare la promessa che ci eravamo fatti. Che Patrick mi aveva fatto.

Aveva promesso che non mi avrebbe lasciato da sola a lottare nella fossa dei serpenti e invece era proprio così che era andata.

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