Gli stessi pochissimi invitati in una camera forse troppo piccola

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Nel tendere il braccio in un gesto di impetuosa partecipazione al canto corale degli altri due uomini, Lorenzo finì col versare buona parte del vino sul pavimento. Lo schianto del liquido sulle lastre di marmo, al di fuori del perimetro dei preziosi tappeti, che accusarono solo poche e insignificanti macchioline, si confuse alle risate di Ludovico. Ormai dimentico della zuffa di poco prima, il duca di Bari cingeva le spalle del cognato Aragona e gli insegnava un canto lombardo, biascicando di tanto in tanto mentre cercava di piegare l'accento meridionale alla pronuncia del vernacolo locale.

«Al sa disa minga inscì, sciur Alfonso!» lo corresse per l'ennesima volta. «Dis insema a mi! La ma bela m'ha basà»

«Ludovi'o, o 'on 'odesta storia de' volgare tu m'hai guasti i 'ogli-» borbottò Lorenzo, prontamente zittito da Clarice con uno schiaffetto sulla spalla. Al che, volgendosi alla moglie, le disse: «Ma parlassero 'ome i cristiani!»

«E voi non dite sconcezze, al vostro solito!» lo rimbeccò lei, segretamente divertita ma sempre vigile affinché non venissero travalicati i limiti della buona creanza. Era tutta la sera che Lorenzo, acceso dal vino, tentava un bislacco corteggiamento, senza mai ottenere nulla di più di qualche bacio. Sedevano entrambi sul letto matrimoniale, mentre gli ospiti erano accomodati su seggiole e cassoni. In quel frangente, vedendosi tener testa e trovando la cosa molto eccitante, Lorenzo le si trasse più vicino e sussurrò: «Ah, la mi donna...», quindi le sfiorò il collo con le labbra socchiuse, risalendo dalle spalle all'orecchio sinistro. La mano libera, nel frattempo, le scivolò sulla gonna, si insinuò tra le ginocchia e si accinse a risalire la morbida coscia, ma Clarice si oppose, delicata e ferma, e lo rimproverò a bassa voce. «Suvvia, suvvia Lorenzo! Portati bene, che non è il tempo per far codeste cose.»

Lorenzo mormorò un lamento, si ritrasse quatto quatto come si era avvicinato e ritornò a guardare i due compagni nel loro bizzarro spettacolo.

«Quantǝ a sugnn bell i so occ»

«Oh Signur benedett! Alfonso! L'è minga inscì dificil! Lorenso, prœa ti.»

«Che, io?»

«Sigur! Varda, Alfonso, varda ben coma l'è bom lu.»

Il Fiorentino titubava, non avendo ascoltato attentamente l'ultimo verso poiché distratto da tutt'altri pensieri. Come se ciò non bastasse, la cantilena forestiera della lingua lombarda gli riportava alla mente i Francesi, gente di cui in quel periodo non gradiva sentir parlare. Sicché, voltosi a Ippolita, che sedeva accanto a Clarice ma su di un cassone e non sul materasso, bisbigliò per temporeggiare: «Mi potete voi ripetere l'ultima parola, ché non l'ho intesa sì bene?»

«El me fradel ha dit œgg

«Ogg?» ripeté, sporgendosi ancor di più e pesandosi perciò un poco sulle cosce della moglie, che da parte sua si inclinò all'indietro puntando le braccia sulla spessa e soffice coperta trapuntata. Ippolita sorrise gentile, con una piega clemente delle labbra, e disse piano: «No, messere, œgg dovete dire, con la gola. Sentite: œgg

Lorenzo scosse la testa. «Suoni barbari! E' 'un mi garbano punto. Pare 'he si stia noi in Francia 'ostà!»

«Giammai!» obiettò Ludovico, alzando la voce. Ma s'accorse presto, nonostante il vino che aveva in corpo, che Lorenzo non voleva affatto interessarsi né alle diatribe linguistiche né alla politica in quel momento: perché, invece che rimettersi seduto al proprio posto, egli aveva approfittato della posa della moglie per soverchiarla e ora le stava sopra, incurante delle sue, a dir la verità deboli, proteste.

«Mo' 'o fann ppe davver l'undicesimǝ figliǝ!» esclamò Alfonso, levandosi in piedi barcollante. «E nuj simmǝ sul 'o quartǝ, Ippò! Vien' accà, Ippò, tantu nun me scappe.»

E, cinta la consorte per la vita, la sollevò e la distese accanto all'altra coppia, gettandovisi sopra in un batter d'occhio.

«Visto che alla fine l'hai accettato, l'invito?» scherzò Lorenzo, che non era poi così sbronzo da scordare del tutto i trascorsi della serata. Alfonso ringhiò in risposta: «Zitto una buona volta, Fiorentino!»

Ancora, però, fu un terzo attore a intromettersi in faccende non sue: sempre il duca Ludovico. Che fosse l'essere spaiato, che fosse l'essere fratello di una delle donne coinvolte, il duca di Bari si risentì e pensò bene di guastare il divertimento a tutti, giacché il medesimo si negava a lui. Acchiappò i due mariti per il collo del farsetto, li tirò indietro con forza, a guisa di cani sfuggiti al padrone, e li capitombolò per terra senza pietà. Inutile dire che né l'uno né l'altro furono entusiasti di quel brusco distacco dall'oggetto del desiderio, mentre le donne si misero leste sedute e quindi in piedi, tutte compunte come monachine. Lorenzo, a differenza loro, non fece la fatica di risollevarsi, quasi fosse rassegnato tanto al diniego della moglie quanto alla contrarietà dell'amico, tuttavia trovò il modo di vendicarsi con una frecciatina. «Tu se' un bischero e grullo, Ludovi'o, se 'un ti garba sì l'amore da impedirlo ad altri!»

«Al ma pias no istar inscì par mi. O ma fet giugà cun vualtri o 'l sa gioga minga!» mugugnò il duca, incrociando le braccia. «Adess tas e setass giò inta la cadrega.»

Il Medici sbuffò, scambiò un'occhiata con Alfonso, pure lui parecchio indispettito, e assecondò l'ordine. Una volta seduto sulla seggiola che era stata di Ludovico, gli dedicò uno sguardo bieco, prese la coppa e fece per portarla alle labbra, quando il Milanese si voltò di scatto, brancò Clarice e la atterrò nuovamente sul materasso, là dove la trapunta era ancora scarmigliata.

Clarice, da parte sua, ebbe appena il tempo di un gridolino, che si trovò a essere baciata controvoglia dallo Sforza. Lorenzo urlò un: «Ir budello di tu ma'!» che echeggiò per tutta la camera; stavolta, però, il suo precario equilibrio lo fece finire lungo disteso sul tappeto e il vino fluì copioso dalla coppa imbrattandone la trama variopinta. Alfonso, poco poco lucido, dimenticò del tutto il proprio carattere aspro e geloso e rise a squarciagola per la comicità della scena, come se si trovasse non in una stanza privata ma in piazza, ad assistere a uno spettacolo di buffoni. Finché si trattava della moglie d'un altro, un simile siparietto gli riusciva proprio gustoso.

Ludovico, però, non scherzava. Si ritrasse giusto per riprendere fiato e poi si chinò nuovamente, strusciando il naso nella folta chioma rossa di lei. Clarice tentò di spingerlo via, a dire il vero con molta più energia di quella usata nei confronti del legittimo marito, ma la mole e la stazza dell'inopportuno pretendente glielo impedirono. L'assalto, in ogni caso, non durò più di una manciata di secondi, il tempo che servì a Ippolita per afferrare e stringere forte l'orecchio del fratello minore, torcerlo e tirarlo verso l'alto, come quando da bambini il piccolo di casa combinava qualche marachella.

«Ciapa e va', Ludovigo, ciapa e va'!» lo rimbrottò con piglio materno, sorda ai guaiti che chiedevano mercé. Non fu contenta finché non vide Clarice libera di scostarsi e di rassettare l'abito e i capelli arruffati; fu invece molto appagata dall'espressione di disappunto della nobildonna, che esprimeva non paura, non spavento, bensì il fastidio per la goffaggine tipica dei maschi nel far la corte con la fretta dettata dall'ebbrezza. Ludovico, d'altronde, era un uomo affascinante, un vero sciupafemmine, quando era padrone di sé; non c'era donna cui spiacesse ricevere le sue attenzioni quando queste erano dosate con la perizia dell'esperto seduttore. Chissà che la moglie del signore di Firenze non riconoscesse allo Sforza lo stesso magnetico effetto che attribuiva a Lorenzo, e che di tanto in tanto non ricamasse tra sé e sé fantasie che lo includessero. Non che sperasse in qualche scandalo: Ippolita aveva un senso molto alto del pudore e non avrebbe mai giustificato l'adulterio, né proprio né altrui, e in questo si trovava concorde con la religiosissima Orsini; c'era però qualcosa che la intrigava, perché sapeva per esperienza che anche le persone votate a purezza e castità incontrano sulla propria strada gli inciampi della tentazione. La tentazione, in fondo, non è che la continua riscoperta della propria umanità, del proprio essere imperfetti e perciò bisognosi d'affetto, di sostegno e di compagnia. Certo Clarice non si discostava dai comuni mortali e l'ammissione della debolezza non l'avrebbe condannata al biasimo, ma l'avrebbe ancor più palesata come sposa sinceramente affezionata. Ippolita, d'altro canto, aveva avuto prova tanto della passione quanto della malinconia, della disillusione di un voto infranto, di un cuore spezzato.

Clarice cessò intanto di sistemarsi dando l'ultima pacca alla manica celeste del vestito, quindi irrigidì il viso e tese le labbra guardando in giù, dove ancora si trovava Lorenzo e dove, da qualche attimo, giaceva ginocchioni Ludovico. Alfonso sghignazzava seduto da una parte, ma smise di colpo quando gli occhi focosi della Romana gli si furono piantati addosso. Ippolita non avrebbe mosso un dito in difesa di nessuno di loro e tale certezza bastò a raffreddare immediatamente gli animi; Clarice, però, non avrebbe lasciato correre.

«In piedi, tutti e tre», sibilò. Si mosse con passo impercettibile e veloce, si fermò davanti all'erede del trono napoletano e, levata la destra, gli distese una sberla sulla guancia da far arrossire una statua di marmo di Carrara. Alfonso tacque e non osò nemmeno provare a carezzarsi per lenire il dolore.

«Questa», gli disse, «perché avete riso impudente di me.»

Un passo di lato e si trovò di fronte l'assalitore, già privo di ogni baldanza amatoria, e, levata la destra, gli distese una sberla non meno forte né meno sonora della prima. «Questa,» sentenziò, «perché avete pensato di potermi possedere a vostra discrezione.»

Un passo di lato; Lorenzo. Lorenzo c'aveva già provato, in passato, a farle rompere l'astinenza nei giorni prescritti dalla Chiesa. Era sempre così impaziente, soprattutto in prossimità di lunghi periodi di separazione quali la Quaresima e l'Avvento, che tutti i loro figli erano nati o tra luglio e agosto o nei mesi invernali di dicembre, gennaio e febbraio, e ciò significava che avevano sì rispettato le prescrizioni, ma che appena le regole lo avevano permesso, si erano amati tanto e volentieri. Doveva ammettere anche che, come sovente capita persino ai più tenaci, a volte gliel'aveva data vinta, ma senza scandalo, perché s'era fatta attenzione. Stavolta, con il marito in condizione di non perfetto controllo, sarebbe stato rischioso; monito ulteriore era il calendario, essendo quella la seconda notte più santa dell'anno, in cui ricorreva la nascita del Salvatore. Portasse pazienza ancora qualche giorno! E invece no, tutto e subito, perché così Lorenzo era fatto e lei, in fin dei conti, lo conosceva. Sarebbe stata perciò più comprensiva? Assolutamente il contrario. Levata la destra, gli stampò la sberla sul viso così come aveva fatto con gli altri due compagnoni subito prima, ma lo fece mordendosi il labbro, segretamente combattuta. «Questa», sussurrò, perché la voce, chissà come, le tremava, «perché lo sai che, se non mi va, non mi va; e non mi devi sforzare e far vergognare dinanzi ad altri.»

Lorenzo, come pure Ludovico e Alfonso, stette zitto e si prese la propria razione; tuttavia il sangue gli ribolliva in corpo e, benché comprendesse le ragioni di lei alla luce delle loro abitudini coniugali più intime, non voleva sottostarle. Sarà stata forse l'onta di non riuscire a farsi accontentare dalla propria moglie, quando aveva fama di poter convincere papi, re e sultani con la propria favella; sarà stato l'orgoglio mascolino ferito di chi sa di mirare troppo in alto e poi si vergogna di un fallimento annunciato; saranno state tante cose, ma accadde che, quando Clarice riprese posto sul materasso con un'espressione vittoriosa dipinta sul volto, Lorenzo ribatté: «Ben mi sta, ma se tu non vuoi e io sì bisogna che si trovi pur il modo, e io l'ho trovato. E si è che noialtri si vada per locande».

Clarice sollevò appena un sopracciglio, squadrandolo dalla testa ai piedi. Non sarebbe andato lontano, a meno che il freddo pungente della notte nevosa di fuori non lo risvegliasse dal torpore del vino; e magari lo facesse anche rinsavire, che non sarebbe stato un male.

«Ben detto, messere!» saltò su Alfonso, con la guancia tutta rossa e gli occhi lucidi. «Nelle locande il divieto non vale!» (1)

«Conosco a proposito un paio di posticini che fanno al caso», intervenne Ludovico. «Mio fratello Galeazzo mi ci portava quand'ero un ragazzino, a farmi le ossa. Vi faccio strada, statemi dietro.»

Ippolita mandò un sospiro profondo, ma tutto sommato sollevato. Insistere per usare la buona creanza sarebbe stato inutile e non le piaceva gettare fiato al vento. Suo marito voleva trastullarsi con qualcuna che non era lei? C'era ormai abituata, una volta di più non avrebbe fatto differenza. Che lo facesse la notte di Natale? Peccato, peccato di certo, ma di peccati suo marito ne aveva accumulati talmente tanti che probabilmente a confessarli tutti avrebbe impiegato un giorno intero. Si volse perciò subito a Clarice, per verificare che anch'ella avesse preso il proposito degli uomini con una filosofica rassegnazione.

Madonna Medici era a dir poco furente, ma era brava a camuffarlo. Ciononostante, le sue gote erano velate di una sfumatura porporina che fino a un attimo prima non esisteva, e le sue labbra erano d'un rosso più pallido, quasi livide, e così gli occhi, che nelle venature verdi ricordavano quelli di un gatto pronto a graffiare. No, lei non era avvezza a chinare il capo e a lasciar fare al marito ciò che voleva, quand'era presente; immaginava, sospettava che non le fosse completamente fedele, che qualche scappatella di nascosto se la concedesse, e che nei viaggi e nei soggiorni fuori casa non gli piacesse stare sempre da solo, ma finché succedeva lontano i contorni di certe avventure restavano vaghi e si confondeva molto bene la realtà con la fantasia. Ora gliel'aveva detto chiaro e tondo, dove voleva andare e a fare che cosa e con chi, e sembrava non pesargli affatto la sua disapprovazione. Clarice non era stupida, sospettava che sarebbe potuto benissimo essere un inganno, un ricatto per spingerla a riconsiderare la propria posizione, ma aveva già dimostrato di essere testarda riguardo alle cose che sentiva importanti.

«Vacci», scandì, chiudendo i pugni. «Vacci e goditela, che domattina ti aspetto alla messa.»

Incurante della minaccia, Lorenzo girò i tacchi e si avviò alla porta, oltre la quale lo attendevano i due duchi. Raggiuntala, si volse un poco indietro, si aggrappò allo stipite per avere un appoggio in più – ché le gambe non parevano bastargli – e salutò con un molto secco: «Buona notte». Quindi uscì e serrò l'uscio.

Rimaste sole, Ippolita sospirò di nuovo, poi sorrise rassegnata. «La notte, per noi povere mogli di siffatti uomini, si promette fredda e triste, come non dovrebbe essere la notte di Natale.»

Clarice annuì senza accorgersene, si volse al letto e rispose: «Son grandi e grossi, facciano come a loro piace. Tanto Lorenzo lo sa che gliela farò penare questa sua mascalzonata».

«Alfonso ormai non tiene più in considerazione la mia opinione; all'inizio facevo come voi, madonna, e gli mettevo il broncio, ma valeva poco quando poteva trovare femmine a iosa che gli dessero retta.»

«Sarà già tanto se riusciranno ad arrivare alle porte del castello», mormorò l'Orsini, scostando lenzuola e coperta. «E appena metteranno il naso fuori e sentiranno pungere il freddo, fileranno qui a domandare perdono!»

Ippolita stette un momento a guardarla in silenzio; Clarice si scioglieva allora i nodi che fermavano le maniche al corpetto dell'abito, poi avrebbe sollevato la pesante gamurra di velluto e slacciato la cioppa, fino a rimanere in camicia. Prima, però, avrebbe raccolto qualche tizzone ardente dal camino per metterlo nello scaldino e lasciarlo in mezzo al letto perché scaldasse il materasso nel mentre che lei si svestiva.

«Vi lascio, madonna. Vi auguro un sereno riposo, nonostante tutto...» si accomiatò, ma non fece a tempo a rialzare il capo dalla piccola riverenza che Clarice la spiazzò con una vocina da fanciulla che non si aspettava. «Credevo avreste dormito qui con me. Dopotutto», aggiunse, «l'avete detto pur voi: fa freddo e siamo tristi ambedue. Non conviene che si resti così desolate la notte di Natale.»

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(1) La Chiesa era piuttosto rigorosa nel distinguere periodi di penitenza e periodi di festa, periodi in cui le norme potevano allentarsi e periodi in cui diventavano stringenti. Nel caso del Natale, i rapporti sessuali tra coniugi erano proibiti per tutto l'Avvento, il giorno di Natale stesso, Santo Stefano e San Giovanni Evangelista (27 dicembre). La cosa buffa? Che alle prostitute non si estendeva il divieto!

***
Questo racconto doveva essere fine a sé stesso, aprirsi e chiudersi in una sola volta.

E invece no.

Perché sia io sia la mia committente semperinfelix abbiamo preso gusto a far fare ai nostri personaggi le loro buone mascalzonate, anche (o forse soltanto) per riderci un po' su.

Credo di trovare il suo accordo e favore nell'estendere a tutti i lettori e le lettrici l'invito a partecipare dando idee, spunti e fantasie per ampliare quest'opera, che vuole diventare una raccolta di marachelle rinascimentali.

Non siate timidi/e 😉
Lo so che avete un sacco di proposte brillanti in serbo per noi!

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