Una serata per meno invitati ancora

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«Raccontatene di quel Piovano Arlotto fiorentino di cui tutto il mondo parla, Magnifico Lorenzo», venne su a un tratto Galeazzo Sanseverino, gli occhi lucidi di vino e il sorriso sperso di chi, giovane, ha bevuto troppo. L'interrogato gli sorrise complice, anche lui abbacinato non meno degli altri uomini, e cominciò a dire: «Ve ne sarebbe assai da favellare su codesto Piovano, ché non v'è novella a Firenze che non lo includa. Ma per rispetto delle costumate dame che potrebbero essere offese da motti troppo disonesti per un uomo di Dio, vi conterò pur questa. Era il dì del mio patrono, che è per avventura anche il patrono della pieve sua, sicché, com'è buon uso, si richiedeva al Piovano una buona omelia. E dal pulpito fece: "Popolani miei, l'anno passato vi dissi della vita e miracoli di San Lorenzo; da un anno in qua non ritrovo che egli abbia fatto altro: sicché Pax et benedictio"».

Il gesto conclusivo, un abbozzo di segno di croce impartito ad occhi socchiusi agli ascoltatori, suscitò il riso più che il motteggio stesso. Le donne nascosero la bocca dietro le mani, gli uomini batterono pacche sulle cosce e scossero la testa. Poi la voce di Ludovico si levò: «Ma son certo che Galeazzo ne volesse sentire una più saporita! Le nostre dame ve ne perdoneranno, poiché non viene da voi, ma da altri».

«Vi consiglio di non richiederne di sue proprie, perché voi non lo conoscete bene come lo conosco io», intervenne Clarice, a moderare l'entusiasmo generale. Sfortunatamente per lei, la frase conteneva un doppio senso non così vago e gli uomini risero ancora; suo marito allora le rispose acutamente: «Perché voi vi siete mai pentita d'avermi conosciuto?»

Ella si schermì arrossendo e, per non dover rendere conto di nulla a nessuno, serrò le labbra e non parlò più per un pezzo. Lorenzo riprese: «Giacché ne volete una confacente al vostro gusto, eccovi servito. Un anno il Piovano s'accorse per le sante confessioni che molti matrimoni si portavano a rovescio, fuor della via indicata da onestà costumanza, sicché, montato sul pulpito, si mise a rimbrottare e i mariti e le mogli, dicendo ai primi di far luce dinanzi, anziché dietro, e alle altre che non fidassero, a letto, di voltar le spalle agli uomini loro... per nessuna cagione!»

Di nuovo una pioggia di risate e acclamazioni per il curato della campagna toscana salito, ancora vivente, all'onore della leggenda per le sue argute risposte; tanto che Alfonso d'Aragona, sopendo gli schiamazzi con un gesto imperioso tipico del militare, intervenne a dire la propria. «Questo Piovano fu tempo fa alla corte del mio avolo e fece gran meraviglia con la sua mente spiritosa. Ascoltate che disse al mio avolo: domandato da Sua Maestà quale fosse l'animale più falso, rispose essere l'uomo il più falso animale, e mai si può conoscere. Ridomandato quale fosse l'arma più terribile a usarsi da detto animale, egli rispose: la lingua!»

«Ben detto davvero!» approvò Ercole d'Este, alzandosi. «Ora, mi duole abbandonare la compagnia di sì illustri e gentili signori. Mi raccomando a voi tutti.»

I presenti si levarono a loro volta in piedi e qualcuno più barcollante di altri colse l'occasione per accomiatarsi dignitosamente, finché era in tempo. Gli irriducibili che decisero di trattenersi furono il duca di Bari, il duca di Calabria con la duchessa, Lorenzo de Medici e la moglie.

Clarice, in verità, avrebbe di gran lunga preferito andarsene a dormire, ma la vinse una sorta di orgoglio che nasceva dal grande affetto che portava a suo marito e dalla voglia tutta femminile di misurarsi con Ippolita Sforza, grandemente decantata per la gentilezza e amabilità sue. Ippolita era donna invero molto degna sia nell'aspetto sia nel portamento, bella nonostante si avviasse a compiere quarant'anni ed estremamente dotta. Per Clarice, la cui educazione era stata piuttosto carente rispetto alle umanità, lo smacco scottava; sapere, poi, che Lorenzo portava avanti con lei un carteggio affettuoso, benché in toni amichevoli e non altro, la intristiva un po' perché tra loro, invece, le lettere erano sempre state concise e dritte al punto, senza vacui infiorettamenti.

«Un altro, messeri?» propose Ludovico, pronto a distribuire con il mestolo una dose abbondante di vin cotto. Non ebbe bisogno di ripetere, che già Lorenzo e Alfonso gli tendevano la coppa con tanti complimenti. Ippolita allora si chinò verso Clarice e sussurrò: «Vi chiedo in anticipo di scusare mio marito, se per avventura gli venisse da dire cose insolite.»

«Il medesimo per il mio, madonna illustrissima.»

Gli uomini brindarono e bevvero, quindi Lorenzo si alzò tenendo saldamente lo schienale della seggiola e domandò: «Posso io dedicare una canzone a sì bella compagnia di dame?»

«Ecco, ecco che comincia», brontolò sommessamente Clarice, sorridendo complice alla duchessa di Calabria.

Ludovico fece cenno d'andare avanti e Lorenzo, impettito e tronfio, prese a intonare una ballata da lui medesimo composta, che faceva così:

«Una donna avea disire

con un giovane parlare:

tanto seppe alfin ben fare,

che li die' quelle tre lire.

Sun'un canto di cassone

gliel contò la prima volta,

ma vi fu tra lor quistione,

onde ch'ella a dir s'affolta:

"Una parte me n'hai tolta,

ma infin nulla arai tu fatto;

se non conti un altro tratto,

non potrai di qui partire."

E, perché la donna è avara,

non li satisfe' ancor questo:

la non fu scarica e chiara,

finché il giovane assai presto

non li dette ogni suo resto,

e gliel misse tutto in tasca;

allor sana come lasca

lo volea lasciar fuggire.»

«Buon Cielo, ma come gli viene di mettere in rima certe stupidaggini?» fece ancora Clarice sottovoce, coprendo gli occhi con la mano destra come esasperata. Ippolita, comprensiva, la rinfrancò. «Se non altro,» disse, «la poesia non riesce offensiva, ma quasi cantabile.»

«Ricordossi a mano a mano

che gli avea a dar l'usura:

sciolse al giovan di sua mano

la sua borsa assai sicura;

disse: "Gli è trista natura.

Non sta ritto, giusto e intero;

e' bisogna far pensiero

l'erta di nuovo salire".

Funne il giovane contento,

perché gli era ben fornito;

di danar vi dette drento

e pagolla in sul pulito;

poi volea pigliar partito,

ma la donna disse: "Aspetta".

dodici uova con gran fretta

li die' ber, poi lasciollo ire.»

Terminata l'esibizione con successo, Lorenzo riprese posto, lesto a tendere di nuovo la coppa a Ludovico, perché gliela empisse ancora.

«È il vostro genio che vi detta simili componimenti?» domandò Alfonso, quasi con ammirazione. Lorenzo bevve, quindi spiegò: «Uno deve pur trovare il modo di parlare anche di belle cose in poesia, a parte le solite lagne d'amore!»

«Ben detto, che i poeti sembrano buoni solo a piangere quando invece sanno bene come vangare certi orti!» gli diede man forte Ludovico, chiedendogli poi di replicare con un'altra ballata. Lorenzo fu ben felice di rialzarsi e, reggendosi stavolta alla spalla sinistra del duca di Bari, declamò:

«E' non c'è niun più bel giuoco,

né che più piacci a ciascuno,

ch'esser due e parer uno:

chi nol crede il pruovi un poco.

Chi non lo sapessi fare,

venga a me ch'io gliene insegni».

Clarice sbuffò e volse il viso verso il camino, forse per nascondere con la luce forte delle fiamme il rossore delle sue guance, o forse per confondere sul motivo del suo arrossire. Non poté però battere due volte le ciglia, che le dita di Lorenzo le pizzicarono il mento e la inviarono ad alzare lo sguardo su di lui. Lo trovò con un'aria scanzonata in viso, come un ragazzo acceso di passione, e le tornarono alla memoria i primi tempi del loro matrimonio, quando erano giovani, giovanissimi, e iniziavano a conoscersi. Lui proseguì:

«Già ne vidi una che n'era

nel principio poco destra,

e poi la seconda sera

diventò buona maestra;

ad un gambo di ginestra

l'insegnai la prima volta:

non mi fu fatica molta

a insegnarli sì bel giuoco.»

«Via, Lorenzo! O che dite voi?» avvampò, ma lui la fece alzare in piedi, le cinse la schiena con il braccio e la strinse a sé.

«E' bisogna sofferire,

lasciar far quel che t'e fatto,

e l'ingegno bene aprire,

chi imparar vuole ad un tratto;

non è niun sì sciocco e matto,

che, se 'l giuoco punto dura,

non l'insegni la natura

che s'impara a poco a poco...»

Ludovico, ridendo a crepapelle, lo interruppe per dirgli: «Non darci una lezione qui e ora, che nessuno è garzone in tali faccende! Anzi, se la bella Clarice si presterà alla prova, sono pronto a dimostrare a voi tutti quant'io sia superiore in questa specialissima arte!»

«Fa' poco la ninfa con la mi moglie, Ludovico, che con quel ventre prominente tu la me vai a stiantare.»

Clarice, troppo imbarazzata, tentò di sottrarsi al marito fintanto che l'amico lo distraeva, perciò lo spinse leggermente con entrambe le mani contro il suo petto. Lorenzo, accorgendosene, levò le proprie mani dalla sua vita e le incorniciò il viso, stampandole un bel bacio sulle labbra.

«A tanto parlare, m'è venuta una gran voglia. Noi si fa l'undicesimo stanotte, Clariciozza!» e via un altro bacio impetuoso, che ebbe come esito che Lorenzo finisse seduto sulla seggiola di Clarice con Clarice in braccio. «Deh, dimmi che tu vuoi: maschio o femmina?» (1)

Ippolita seguì la scena con il cuore stretto dalla nostalgia perché, fino a pochi anni prima, Alfonso usava manifestare in modi altrettanto chiari il desiderio che aveva di lei. Baci e carezze non erano mai mancati tra loro e, nonostante il duca fosse uomo capace di crudeltà, con lei era sempre affettuoso e appassionato. Poi, chissà come, si erano allontanati, inesorabilmente, fino al punto di dover recitare una finzione per il mondo esterno che non aveva nulla a che fare con la loro reale situazione.

Ippolita alzò dunque uno sguardo malinconico su Alfonso, il quale, offuscato dal vino, non lo prese come un segno di tristezza, ma di biasimo, di rimprovero, e reagì scontroso.

«Perché mi guardi sì? Che vuoi da me?»

Le sue parole, ma soprattutto il suo tono, erano eccessivamente duri, tanto che Ludovico si riscosse e si assunse il compito di difendere la sorella. «Forse tua moglie vorrebbe essere abbracciata e baciata, cose che mi pare si meriti senza ombra di dubbio!»

«Lo farò quando ne avrò voglia, e ora non ne ho!» ribatté il napoletano, incrociando le braccia.

Lorenzo, approfittando allora della vicinanza, tese una mano e sfiorò delicatamente la guancia della duchessa, dicendo sornione: «Suvvia, Ippolita, siate buona con quel pover'uomo, e non gravatelo oltremisura. Ché siete tanto bella e savia che, se egli non vi vuole, ne potete trovare mille altri che vi vogliono. E se soffrite la solitudine, v'invito nella nostra camera, che il nostro letto è grande e ci staremo comodi anche in tre!»

Al solo udire la proposta, Alfonso scattò seduto rigido, i muscoli improvvisamente contratti e i pugni chiusi. «Bastardə figliə e' malafemmine, ca' aie rittə?!»

«Credo l'abbiate inteso più che bene, quel che ho detto», ghignò Lorenzo, per nulla intimidito, anzi spavaldo. Clarice divenne di ghiaccio, ma si accorse che lui la stava delicatamente scostando, per precauzione. Si alzò, dunque, e mosse un passo o due di lato per lasciare campo libero ai due litiganti. Fosse stato per lei, avrebbe rimbrottato suo marito e domandato scusa per la sua impudenza, ma l'Aragona la spaventava: era violento, dopotutto, e molto permaloso.

«Se ci avete ripensato e l'idea vi aggrada, non sarò così scortese da rifiutarvi il medesimo invito», lo pungolò ancora Lorenzo con un'espressione che lasciava ben intuire quanto si divertisse a farlo montare su tutte le furie. Alfonso era paonazzo dalla rabbia, aveva i denti digrignati come un lupo, le sopracciglia che quasi si toccavano.

«Tu si' 'n uomə muortə! I' t'ancidə!» sibilò, trattenendosi a stento dal porre immediatamente in atto la minaccia. Lorenzo, reso imprudente dal vino e dall'eccitamento, si arrischiò a toccare nuovamente Ippolita, la quale, come Clarice, taceva per evitare che il duca di Calabria si lasciasse portare dall'istinto contro un amico che le era tanto caro. Lorenzo, però, non sembrava dello stesso avviso: dapprima le sfiorò la guancia, quindi la spalla.

«Maledetto d'un Fiorentino, osa e ti insegnerò con la verga quale sia il tuo posto!» fece di nuovo Alfonso, una leggera patina di sudore sulla fronte.

«E chissà che io non lo insegni a te, Napoletano!» replicò Lorenzo, abbassando la mano verso la coscia della donna seduta accanto a lui. Non lo faceva per appetiti lussuriosi né per curiosità, ma solo per il gusto della provocazione. Così, quando poggiò finalmente la mano sulla gonna di lei, aveva lo sguardo fisso negli occhi scuri di Alfonso, che bolliva di rabbia; non si avvide, però, che le sue parole e i suoi atti stavano avendo effetto anche su qualcun altro. Fu un errore strategico imperdonabile e carico di conseguenze.

«Tira giò i man!» sbottò Ludovico, balzando dal proprio posto con insospettabile agilità e piombando addosso al Fiorentino senza avergli dato il tempo di capire cosa stesse accadendo. Si udì uno schianto, un rimestio di legna, urla e improperi irripetibili e solo per un soffio Ippolita riuscì a mantenere l'equilibrio e a non essere trascinata nella caduta dai due uomini che ora, lenti e intontiti, si guardavano attorno con aria disorientata.

Lorenzo, misero, giaceva sotto Ludovico, gravato del suo peso sulla parte superiore del corpo, mentre quest'ultimo indugiava a scostarsi. Tutt'intorno, tracce dell'esistenza della sedia, ormai un lontano ricordo fatto di brandelli di legno spezzati. Clarice si copriva la bocca con la mano, incredula; similmente Ippolita, che faticava a realizzare l'accaduto. Ma il più sbigottito di tutti era Alfonso: tanto era stato acceso di furia contro Lorenzo, tanto ora era sospeso, confuso, privato d'ogni motivo di rancore.

«E non t'azzardare più a toccare mia sorella, fosse anche per scherzo!» concluse lo Sforza, battendo un pugno sul pavimento di cotto tipicamente lombardo. Lorenzo tossì l'ultimo poco di respiro che gli era rimasto nei polmoni, dopodiché, facendo appello a tutte le proprie forze, scansò da sé l'ingombrante zavorra che lo teneva prigioniero. Si dette una ripulita così, alla buona, con qualche pacca su spalle e braccia, poi mormorò: «A me mi pare che ti sia andato in fumo il cervello. Che c'era bisogno di fare tanto chiasso?»

«C'era, c'era eccome!» biascicò Ludovico, mettendosi seduto con una certa difficoltà. «Pensavi che sarei rimasto a guardare mentre la svergognavi?»

Ippolita girò un'occhiata mortificata a Clarice, che sospirò forte e le si avvicinò comprensiva. «Direi che è il momento di far capire loro chi comanda», bisbigliò, quindi, voltasi ad Alfonso, domandò che l'aiutasse a rialzare i due caduti. Egli obbedì ridendo un poco sotto i baffi: tese la mano all'uno, poi all'altro, e in un attimo entrambi furono di nuovo in piedi.

«E in ogni caso,» lamentò Lorenzo puntando il dito contro Ludovico, «tu prima hai cercato di sedurre la mi moglie.»

«Certo! Non è mica tua sorella!» ribatté quegli con voce piuttosto stridula. Lorenzo gli afferrò il bavero e lo strattonò, Ludovico gli si sottrasse e, intinta una mano nella crema dolce lasciata in una ciotola sul tavolo, proprio dietro di lui, gliela spantegò in viso.

«Ah, bischero! Me la paghi!» sbottò il Medici.

A quel punto, intervennero le donne. Lo spettacolo era durato abbastanza e, con l'alzare la voce, si rischiava che accorressero i servi e li scoprissero in quella circostanza per nulla edificante. Clarice si parò davanti al marito già armata di un fazzoletto, Ippolita abbracciò il fratello e insieme riuscirono a quietarli. Con un po' più di tempo e pazienza, riuscirono addirittura a farli riappacificare. Il tutto si esaurì in una stretta di mano, senza bisogno di ulteriori scuse.

«Guardate che guazzabuglio avete fatto», disse a quel punto Clarice, indicando la sedia distrutta e il tavolo dei dolci tutto sbilenco. «È proprio il caso che noi si vada in camera, Lorenzo, che avete combinato fin troppi guai.»

«Giusto! Andiamo in camera!» approvò Ludovico, benché non fosse stata richiesta la sua opinione, né la sua adesione. Ippolita tentò di rimediare. «Anche voi, fratello mio, è meglio che andiate nella vostra camera.»

Quello fu fermissimo nella risposta: «Madonna Clarice ha detto chiaro che ci invita tutti in camera! Così i servi potranno ripulire la sala e intanto noi continueremo la nostra bella conversazione».

«Conversazione?» ripeté Clarice, ma Lorenzo remò contro i suoi piani. «Venite, suvvia! Che di vino ce n'è ancora una scorta e la notte è lunga!»

«Un'occasione per farvi gustare una nuovissima invenzione dei miei cuochi, il pan de Toni! Me ne procurerò per via. Alfonso, prendete quei due fiaschi e tu, Ippolita, prendi gli altri due all'altro capo del tavolo. Madonna Clarice, a voi l'onore di portare la coppa. Lorenzo, se per cortesia porti quel vassoio di biscotti e intanto finisci di ripulirti la faccia, te ne sarei grato.»

Gli uomini non questionarono gli ordini, eseguendoli all'istante, mentre le donne esitarono, scambiando l'ennesimo sguardo. «Li lasciamo fare? Che dite, Eccellenza?» fece Clarice sottovoce.

«Se siete d'accordo, madonna, io li lascerei fare. Sono curiosa di scoprire fin dove vorranno spingersi con le loro idee balzane, e ammetto che mi fanno divertire, così convinti d'essere loro a decidere, quando, voi lo sapete bene, sono le donne a governare certe faccende.»

«Ma si tratta pur sempre della Vigilia di Natale...»

«Sono persuasa che non potrà accadere nulla di disdicevole finché noi resteremo sobrie.»

Clarice, vinte le titubanze grazie alla sottile complicità di Ippolita, bandì i ripensamenti e acconsentì ad aprire le porte della propria camera. Gli altri ne furono contenti e ne fecero grandi complimenti.

Il gruppo, dunque, si avventurò in silenzio per i corridoi del Castello di Porta Giovia alla luce di una sola fiaccola. Giunti alla meta, Lorenzo introdusse gli ospiti e posò il vassoio sul letto; Alfonso empì fino all'orlo la coppa di Clarice e Ippolita, che si era ben guardata dal portare troppo vino, chiuse la porta, con tanto di chiavistello.

***


(1) Nel Medioevo era diffusa la credenza per cui la posizione in cui si trovava la donna al momento dell'amplesso influenzasse il sesso del bambino.

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