Un banchetto per pochi invitati

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Milano, 24 dicembre di un anno impossibile

(ma a grandi linee attorno agli anni '80 del XV secolo)

***

La sala sfoggiava decorazioni sui toni del rosso scarlatto dei nastri di seta e del verde dei rami di pino, il cui profumo si mescolava di quando in quando a quello delle succulente portate che si avvicendavano sulle tavole imbandite.

Quell'anno Ludovico aveva pensato in grande e aveva voluto radunare i parenti più cari e i migliori amici sotto il proprio tetto, per offrire loro un Natale all'insegna del lusso e del divertimento. Si ritrovava insieme un'intera generazione di statisti, condottieri, nobiluomini di ogni parte d'Italia, una selezione dei migliori ingegni che quel secolo potesse offrire. Il più anziano, un po' fuori contesto e perciò spazientito, era Ercole d'Este, che, per enfatizzare il suo essere estraneo all'ambiente, si era seduto a un capo del ferro di cavallo disegnato dalle tre tavolate. Il più giovane, esattamente al capo opposto, era Galeazzo Sanseverino, poco oltre i vent'anni, esuberante e vanitoso come tutti i garzoni di buona famiglia. Egli, insieme ai fratelli maggiori Gaspare e Gianfrancesco, si fregiava d'essere cugino di secondo grado dell'ospite milanese, benché il cognome ricordasse la discendenza dalla casata napoletana cacciata dal re Ferrante in seguito alla famosa congiura dei Baroni (1).

Il focoso duca di Calabria, Alfonso, primogenito di quel sovrano, non li vedeva di buon occhio, ma era seduto sufficientemente lontano da non sentire troppo opprimente la loro presenza. Sua sorella Eleonora sedeva accanto ad Ercole, marito ben più anziano di lei, e di tanto in tanto scambiava sguardi con il fratello, come a confortarsi vicendevolmente a portare pazienza. Ippolita Sforza, moglie di Alfonso, era a propria volta sorella di Ludovico, ed era stata così assidua nelle preghiere per ottenere il ritorno natalizio nella terra natia che, alla fine, suo marito aveva ceduto, e sulla loro scia gli Este.

Ludovico la considerava un'altra vittoria diplomatica dell'amata sorella, perché la casa sforzesca non avrebbe avuto occasione migliore per vantare il proprio stato se non una cena di Natale come quella: oltre ai sunnominati, tra i convitati figuravano altri esponenti della dinastia milanese, Filippo, duca di Pavia, e il cardinale Ascanio; c'erano poi Federico d'Aragona, fratello più pacato di Alfonso; Federico Gonzaga, il gobbo marchese di Mantova, con Gianfrancesco famoso condottiero e la novella moglie Antonia del Balzo; Lorenzo de' Medici da Firenze, accompagnato da Clarice Orsini.

La presenza femminile era minoritaria rispetto a quella maschile, essendo che numerosi partecipanti, incluso il padrone di casa, non erano ancora sposati oppure erano già vedovi, ma le donne convenute costituivano da sole una fulgida rappresentanza delle migliori virtù.

Ludovico il Moro sedeva al centro del ferro di cavallo, le braccia larghe e le mani poggiate saldamente ai due lati del piatto. Il suo sguardo scorreva lento passando in rassegna gli invitati: Ercole, zitto e ombroso, mangiava poco; Eleonora, con i suoi occhietti diffidenti, squadrava chiunque le capitasse sotto tiro; Ascanio intingeva pane nel sughetto dei tortelli mentre Federico Gonzaga, a lui vicino, commentava la bontà del ripieno di zucca e il contrasto con la sapidità del formaggio stagionato. I Sanseverino, infine, ingaggiavano una buffa gara con i due nani, facendo a gara in chi fosse più abile nel tirare palline di mollica contro un cameriere.

Nonostante gli attriti della politica, comunque, ciascuno trovava piacere nella conversazione e il brusio delle chiacchiere si confondeva con i brani musicali eseguiti dai suonatori di liuto, di flauto e di viola, che mai cessavano di suonare.

Dalla man destra Ludovico aveva Lorenzo de' Medici, il quale, allorché lo Sforza si volse a guardarlo, spegneva la sete con un lungo sorso di vino greco. Essere riuscito nell'impresa di condurre a sé il Fiorentino in un momento così particolare dell'anno era prova del legame saldo e duraturo che li teneva insieme fin dalla fanciullezza, da quando, in visita a Milano per il matrimonio di Ippolita, Lorenzo si era fatto conoscere a corte, attirando subito l'attenzione dei suoi illustri coetanei. Galeazzo Maria, il maggiore dei figli del duca Francesco Sforza, aveva cinque anni più di lui e l'aveva sempre trattato con un arrogante senso di superiorità, ma Ludovico, che invece aveva tre anni di meno, gli si era affezionato soprattutto per affinità di carattere. Affinità nel bene – l'amore per le arti, per la caccia e la buona tavola – e nel male – le donne, i bagordi notturni e le canzonacce. Benché si dicesse che Lorenzo rigasse abbastanza dritto da quando aveva sposato Clarice, Ludovico poteva certamente contare sul suo carattere estroverso e sagace, tipicamente toscano, per abbassare famigliarmente i toni e atteggiarsi non solo da capi di stato, come si richiedeva loro nelle occasioni ufficiali, ma anche semplicemente da uomini, nell'accezione più vasta e ricca del termine. La presenza della moglie, che, era risaputo, non condivideva il suo gusto per i doppi sensi e i discorsi pruriginosi, non avrebbe lì per lì costituito un ostacolo significativo, dal momento che ella preferiva tacere le rimostranze al cospetto di gente non della famiglia, preferendo regolare i conti lontano da occhi e orecchie indiscrete. E in quel regolamento di conti Ludovico non avrebbe avuto la minima parte, perciò non lo tangeva affatto il cruccio.

Così, quando Lorenzo ebbe posato la coppa, il Moro gli diede un colpetto di gomito alla spalla, dimodoché si sentisse chiamato a inclinare la testa nella sua direzione per ascoltare cosa avesse da dirgli. Gli si avvicinò e disse con un filo di voce: «Badate a non eccedere nel vino; non ora, per lo meno. Ché se voi vi mettete a cantare adesso, come so che usate, daremo scandalo per la città».

«M'avete preso per un garzone, e pure bischero?» rise quegli di rimando, rilassandosi contro lo schienale della sedia, le dita intrecciate sul farsetto. «E poi ch'avete voi contro il mio canto? Canto pur bene!»

Ludovico rise a propria volta e, in quell'istante, i servitori cominciarono da lui a presentare il piatto di pesce: capitone arrosto accompagnato da formaggi, miele, frutta secca e frittelle d'erbe, tutto quanto raccolto in un gran piatto d'argento che faceva bella mostra di sé di fronte al duca: è buona consuetudine, incoraggiata dalla Chiesa, mangiare di magro alla Vigilia di Natale.

I convitati assaggiano, gustano e parlano molto bene della cucina milanese; Alfonso d'Aragona ha però da ridire che Napoli è molto superiore nell'arte della tavola, Lorenzo ribatte con tono educato che Sua Altezza si sbaglia di grosso, che è Firenze a detenere il primato in quella come in tutte le altre arti, e Ludovico si diverte a farli battibeccare. Ippolita, di tanto in tanto, gli lancia occhiatine di rimprovero, come pregandolo di sedare la cosa, prima che Alfonso se ne senta offeso; Clarice, dall'altro lato, tira Lorenzo per la manica, sensibile alla medesima preoccupazione.

«Suvvia, suvvia», intervenne infine lo Sforza. «La Santa Notte non è fatta per litigare, ma per rendere grazie al Signore che viene in mezzo a noi.»

«Ero ben convinto che le omelie fossero appannaggio di vostro fratello, l'Illustrissimo cardinale Ascanio, in casa vostra, ma vedo con stupore che Iddio è stato generoso di vocazione religiosa in questa benedetta famiglia», fece Lorenzo, prendendo un altro sorso a mo' di brindisi e offrendo poi la coppa alla moglie, che gliel'aveva chiesta con un cenno. Ludovico, per chiudere in parità, gli ricordò che ancora mancava un Medici che potesse fregiarsi del cappello cardinalizio. Lorenzo accusò il colpo e si ritirò cavallerescamente dalla contesa, girandosi alla volta di Clarice per ragionare insieme dei bambini lontani e stemperare con il ricordo la nostalgia.

Venne il dolce: mandorle tostate intinte nel miele e piccole pagnotte con l'uva passa, confetti e creme a non finire, per soddisfare ogni palato viziato. Tutti si riempirono lo stomaco cogliendo ora qui ora là una prelibatezza diversa.

«Se ci fosse Giovannino nostro, quel golosone, direbbe che questo è il paese di Bengodi!» esclamò Lorenzo, finalmente sazio, addentando l'ultimo morso di pagnotta. Ludovico annuì: aveva visto il fanciullino a uno o due anni d'età e già allora gli era parso sanozzo e ben messo nel fisico. «Chissà», rispose, «che non si possa pensare a un matrimonio.»

Clarice intervenne alzando l'indice per negare, quindi scambiò uno sguardo d'intesa con il marito e rispose, non senza un accento di ripicca: «Giovanni ha già il partito suo e, piacendo a Dio, sarà lui il primo cardinale Medici.»

«Ben ve ne venga. E come sta Giulianino vostro? Se ne farà un altro cardinale?»

«No, Giulianino sta bene in casa con la su mamma; e alla sposa ci si penserà a tempo debito», replicò tranquillo Lorenzo, le dita intrecciate in grembo.

Ludovico approvò. L'amore per i figli era un'altra cosa che li accomunava ed era capitato spesso, in quei giorni natalizi, che si ritrovassero a parlare dei loro pargoli senza sapere come ci fossero arrivati. Il duca di Bari era recentemente diventato padre di una bambina dalla sua amante Bernardina de Corradis e ciò lo riempiva di entusiasmo: l'aveva chiamata Bianca,  in memoria della propria madre. Lorenzo, dal canto suo, aveva messo al mondo dieci figli tutti legittimi e, d'accordo con la moglie, aveva stabilito che un undicesimo sarebbe stato di troppo. Tuttavia, gli brillavano gli occhi al nominare la Lucrezia, Piero, la Maddalena, la Luisa e gli altri, e non nascondeva che stare lontano da loro per Natale lo faceva un po' risentire. Per Clarice, ogni supposizione era superflua, perché era più che chiaro che i figli le mancavano molto, lei così abituata ad averli intorno come una chioccia coi pulcini.

Scoccarono le cinque ore di notte (2) e la cena si sarebbe potuta dire terminata; ciononostante, i dolci avanzati furono lasciati a disposizione degli ospiti su una tavolata predisposta lungo una parete, mentre le mense venivano sparecchiate, le assi rimosse e i cavalletti ritirati per fare spazio alle danze. La sala, allora, si riempì di giovani paggi e belle damigelle, venuti a rimpolpare il numero e a pareggiare le coppie.

Si cominciò da una bassadanza: il ritmo lento e regolare, la melodia cantabile, e le mani degli uomini cercavano quelle delle dame, le stringevano, le sfioravano, le lasciavano fuggire; i piedi si muovevano leggiadri, perché fin dall'infanzia ognuno era stato abituato a portarsi in una precisa maniera ispirata a una gentile naturalezza. Volavano gli sguardi, gli ammiccamenti, le parole sussurrate, un gioco di corteggiamento che travalicava ceti sociali, unioni matrimoniali o parentele acquisite. Tra inchini, giravolte e scambi di coppia serpeggiava la gelosia e così capitava di frequente che un marito, che si era preso la libertà di guardar bene le forme di una fanciulla, si risentiva di un'occhiata sfacciata della propria moglie a un altro invitato, e viceversa.

Si passò a una gagliarda: per avere agio nel compiere i salti richiesti dal tipo di ballo, Lorenzo dovette sfilare l'elegante lucco scarlatto e rimanere in una giornea pagonazza corta sopra il ginocchio e orlata di pelliccia. D'una tinta più delicata, color acquamarina, e damascata, era la gamurra di sua moglie Clarice. I loro abiti, insomma, parlavano di loro, dei loro caratteri per molti versi opposti ma complementari, del rispetto e dell'affetto che li legavano a distanza di più di dieci anni dal giorno del loro matrimonio.

Nonostante poi Clarice fosse per natura refrattaria alle feste, tuttavia mostrava nei movimenti la grazia di un'ottima ballerina; Lorenzo, forte e agile, le era ottimo compagno, perciò, alla conclusione della gagliarda seguendo la volta, poterono dimostrare la loro perizia eseguendo tutte le levate previste dalla coreografia, e la dama si librò leggera come un fiore tra le braccia del marito. Ballavano anche i Sanseverino, gli Aragona e gli scapoli Sforza. Ercole d'Este e il consuocero Federico Gonzaga rimanevano in disparte a far da spettatori dall'esterno l'agone, entrambi impediti dai difetti fisici: la zoppia il primo, strascico di un'antica ferita in battaglia, la gobba il secondo, maledizione che aveva tormentato a lungo la famiglia e che avrebbe continuato ad aleggiare come uno spauracchio sul destino di molti discendenti. L'Este, in particolare, non staccava un momento gli occhi dalla moglie Eleonora, attento a che non si facesse prendere dai ghiribizzi della fanciullezza e non si invaghisse di qualche bel ragazzo. Nondimeno riusciva a sbirciare talvolta il genero milanese, perché conosceva fin troppo bene la sua natura sensuale e non voleva che seminasse in giro troppi figli bastardi prima del matrimonio con la sua Beatrice.

Scorrevano intanto fiumi di vino, abilmente incanalati dal duca Ludovico ora verso la coppa di uno, ora verso la coppa dell'altro, e l'atmosfera si fece via via più calda, più spigliata. Le dame, educate a un contegno diverso e più rigoroso rispetto a quello degli uomini, si accorsero dal principio che i gomiti si stavano alzando oltre la misura consueta, ma non intervennero a bacchettare i rispettivi mariti, anzi pensarono bene di raccogliersi davanti al camino, stendendo le mani al tepore del focolare. Una pausa tra i giri di balli era d'obbligo per consentire di riprendere la conversazione, perciò la pista fu ceduta in tutto ai ballerini e quel che era principato come un passatempo si mutava in spettacolo.

«Venite, Lorenzo, assaggiate questo vin cotto! Ancora voi, Illustre Federico, venite!» chiamò tutt'a un tratto Ludovico, tendendo una coppa fumante al primo che sopraggiunse. Il vino era caldo al punto giusto, appena attinto dalla pignatta, e un odore soffuso di spezie si sparse per l'aria, attirando chi se ne stava ancora discosto.

La vicinanza, l'ebbrezza delle bevande che venivano scambiate con familiarità crescente, motti di spirito sempre più pungenti sembrarono sciogliere anche il freddo duca Ercole, che non tralasciò di ringraziare il Moro per l'esclusione degli odiatissimi Veneziani, i quali, a detta sua, «stavano certamente a guardare dalle serrature delle porte, rosi dall'invidia».

«Lasciamo la politica dove stanno loro, stanotte, Vostra Eccellenza: fuori dalle porte! E godiamoci il buon vino e la buona compagnia», esclamò Lorenzo, alzando la coppa. Intuendo che la serata, da quel momento, si sarebbe animata ancor di più, lo Sforza ordinò a ballerini e musicanti di lasciare la sala; allo stesso modo la servitù, dopo che ebbe spazzato ben bene il pavimento. L'atmosfera divenne così più intima e riservata, il che, unito al gran consumo di bevande inebrianti che s'era fatto e si faceva, prometteva un proseguimento all'insegna di divertimenti meno raffinati, ma più spontanei.

***


(1) La congiura dei Baroni fu un movimento di reazione della nobiltà del Sud Italia contro la politica di accentramento messa in atto da Ferrante I d'Aragona. Prese avvio nel 1459 e conobbe un primo brusco arresto nel 1464, a seguito di un'aspra guerra combattuta dal re contro i propri oppositori. Riprese vigore nel 1485-86, ma Ferrante scoprì le macchinazioni e sedò il tutto nel sangue.

(2) All'incirca le 23:00. Nel Medioevo il giorno cominciava al tramonto, non a quella che noi consideriamo la Mezzanotte (e che i Medievali ponevano all'incirca attorno alle 3:00).

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