Terza Prova - Orione

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Prova basata su un'immagine.

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Mi ritenevo fortunata nonostante tutto, c'era chi ci aveva rimesso la vita per combattere la malattia, io invece avevo vinto, il prezzo da pagare però era stata la mia vista. Le ombre avevano cominciato ad allungarsi a dismisura fino a portarsi via ogni colore, si erano ingigantite a mano a mano, il nero aveva poi avvolto tutto con il suo manto scuro, lasciandomi vivere in una notte perenne.

Avevo sempre avuto paura del buio, quand'ero piccina dormivo con centinaia di piccoli led luminosi al soffitto. Mio padre aveva ricreato l'universo per me: la Via Lattea, le costellazioni principali tra cui l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore, il Cigno, Pegaso, Cassiopea e Orione. Si sdraiava insieme con me e il letto si faceva ancora più piccolo, io mi stringevo a lui e mi facevo cullare dalla sua voce calda.

Mi raccontava miti e leggende, rivisitava a modo suo i vari racconti rendendoli adatti a una bambina di soli sei anni. M'indicava Orione e mi sussurrava che lui era il più forte di tutti i cacciatori e che quando avevo paura, dovevo guardare verso lui, con la sua cintura composta dalle stelle più brillanti del cielo, mi avrebbe protetta e combattuto la notte per me. Le altre bambine parlavano di Cenerentola, Biancaneve e i loro principi, io invece sognavo il mio valoroso guerriero fatto di stelle. Volavo con la fantasia in groppa al mio Pegaso verso lui, che mi tendeva le braccia pronto ad accogliermi e rischiarare con la sua luce il buio della notte.

Crescendo lo avevo dimenticato nella mia stanzetta da bambina e avevo deciso di giocare a fare l'adulta fin troppo presto.

A ventidue anni, la malattia.

Il problema del dolore è che non fa rumore. Arriva di soppiatto, ti coglie alla sprovvista s'insinua come una lama di vetro nel cuore e giorno dopo giorno va più a fondo.

Fu come ricevere un colpo in pieno stomaco, un temporale a ciel sereno, avrei perso la vista per provare a salvarmi la vita.

Tumore, la malattia dei giorni nostri, il mostro, l'incubo peggiore di qualsiasi persona. Lo avevo sempre visto come una minaccia, ma mai così reale, così vicino. Perché proprio a me? Non facevo che piangere. Come si fa a vivere una vita senza vedere più nulla? In un mondo poi completamente basato sull'apparenza? Mi sentivo completamente distrutta. Mi guardavo intorno con occhi ancora più attenti, volevo catturare tutto ciò che non avrei più potuto vedere. Fissavo per ore il cielo, m'imprimevo sulla pelle i colori tenui del tramonto, l'arancione acceso, il rosa, il viola. Mi fermavo ai bordi delle strade, dove scorci di giardini paradisiaci mi catturavano. Mi recavo in riva al mare per vedere le onde incresparsi, la schiuma bianca poggiarsi leggera su di essa, il volo dei gabbiani a pelo dell'acqua. Mi sarebbe mancato tutto.

Non sarei più stata indipendente, non avrei più potuto far nulla da sola, le cose semplici sarebbero diventate ostacoli al mio percorso. Andare al bagno, lavarmi, cucinare, passarmi lo smalto o un sottile strato di rossetto, come se non vedendomi non sarei nemmeno potuta esistere. Tutto ciò se fossi sopravvissuta, e se il poi il cancro sarebbe tornato? Come potevo essere ottimista? Come potevo credere che le cose sarebbero andate bene? Anche le mie amiche, pian piano, non sapendo cosa dire o come comportarsi, si erano allontanate, le visite erano rare, fatte per salvare le apparenze. Tutto correva troppo velocemente, e un'amica con problemi sarebbe stata solo una zavorra in più.

Mi sentivo terribilmente sola.

Tornai così a vivere con i miei. Mio padre mi accompagnava nelle lunghe maratone di visite presso gli ospedali. Partivamo all'alba per recarci alle cliniche specializzate, tutto il suo tempo lo dedicava a me, mentre mia madre in casa cercava sempre di non farmi mancare nulla. Mi sembrava di aver già perso tutta la mia indipendenza, come avrei fatto dopo? Speravo che la malattia fosse più forte, speravo che vincesse lei così da non essere un peso per i miei, un peso per me stessa. Intanto le ombre cominciavano a farsi più grandi, il tumore stava portando via quel poco di luce che ancora provava a riscaldarmi il cuore.

Spesso in casa rispondevo male. Ero diventata intrattabile e terribilmente acida, ma i miei genitori, pazienti, erano sempre lì al mio fianco, pronti a sorreggermi. Tornai nella mia vecchia cameretta. Tutte le notti piangevo disperata, sembrava non esserci una soluzione positiva al tutto. Guardavo verso l'alto e le mie adorate costellazioni erano ancora lì, io le avevo dimenticate ma loro rischiaravano ancora il buio dei miei pensieri. Le lucine, poco più di piccoli puntini sfocati ai miei occhi, leggere s'insinuavano tra i pensieri, bagnate dalle mie lacrime, creavano quasi delle scie luminose, come piccole stelle cadenti. Tornai su Orione, splendente come lo ricordavo, se non di più. Un piccolo barlume di speranza riaffiorò nel mio cuore. Da bambina mi aveva sempre protetto, avrebbe vegliato su di me anche in quel momento, avrebbe smorzato le tenebre con il suo chiarore e avrebbe fatto da faro anche nel resto dei miei giorni.

Orione tornava, il combattente e tenace uomo dalla cintura luccicante, una delle tante leggende voleva che anche lui fosse stato folgorato rimanendo cieco. Destino beffardo aveva voluto lo stesso per me. Mi sentivo così legata a lui, come se fosse stato il fratello mai avuto, il mio migliore amico, l'unico in grado di capire le mie angosce e le mie preoccupazioni, il solo a sapere esattamente come mi sentissi. Mi aggrappai con tutta me stessa a quella goccia di speranza.

Poi calò il sipario davanti ai miei occhi.

Non ero pronta, e sicuramente non lo sarei mai stata. Immaginarlo era una cosa, ma viverlo... tutt'altra.

Sapevo di essere ancora viva dal suono irrequieto del mio respiro. Il cuore sembrava avere un suono diverso, poi le mani salde di mio padre sulle mie. La sua voce calda con sfumature nuove, ne leggevo malinconia ma allo stesso tempo sollievo. I singhiozzi di mia madre seduta da qualche parte vicino me.

Involontariamente qualche lacrima cominciò a rigarmi il viso, gli occhi aperti sul nulla. Sentivo quella lama di vetro sul cuore, la sentivo sciogliersi, venire giù insieme a quelle lacrime così calde. Scottavano sulla mia pelle gelida. Portavano con sé la poca luce che era rimasta incastrata tra le pieghe del mio cuore. Stavo facendo scivolare via tutto. Stavano cancellando tutto.

Uno sfarfallio di luci e ombre si alternava davanti a me, rivedevo le mie amate costellazioni. Immancabile c'era anche lui, il mio adorato Orione. Come a mantenere la promessa fatta da mio padre alla sua bambina, continuava a vegliare sui miei incubi.

Poi arrivò anche il mio fedele condottiero: un cane guida, a detta di mio padre il più bello mai visto. Il manto nero e lucido come la notte e gli occhi due pezzi di cielo sereno. Cassiopea era il suo nome, tenera e calda come un peluche seguiva ogni mio passo e mi regalava quel poco d'indipendenza e libertà che desideravo.

Nelle lunghe passeggiate guidata da lei, avevo imparato cosa volesse dire fiducia, avevo lasciato che i suoni e i rumori popolassero la mia mente. Avevo perso tanto, ma lei era quel piccolo angolo di cielo sereno che desideravo. La vita aveva un gusto più pieno e deciso, i profumi mi avvolgevano come una coccola e mi permettevano di riconoscere luoghi e anche persone. Stranamente mi sentivo serena, in pace con me stessa. Ma ancora non mi sentivo viva.

Anche se non lo vedevo più, sentivo lo sguardo penetrante della gente, i lievi sussurri che si scambiavano vedendomi, la pietà nella loro voce.

Quella era la cosa che odiavo di più, insieme alla finta compassione. A chi fregava realmente? Di sicuro non all'autista che ci dava giù pesante con il clacson, quando ci mettevo qualche minuto in più per attraversare, poi forse, rendendosi conto del mio "problema" si scusava. Non di sicuro la gente che ti sbatteva contro urlandoti "Guarda dove cammini" e nemmeno chi faceva gestacci alle mie spalle sghignazzando di gusto, perché credeva non me ne accorgessi. La vita in sé non è cattiva, ma la gente che la abita sì, ti ruba pezzi di te e poi ti ride dietro. Si è troppo egoisti e presi da se stessi per accorgersi di ciò che realmente si sta perdendo, troppo indaffarati a correre dietro cose inutili, per cogliere l'essenza.

Tutta una corsa, tutta una gara a chi prima raggiunge la felicità. Ma corrono nella direzione sbagliata. Corrono da così tanto che non ricordano nemmeno più quale sia la loro destinazione.

Una cosa io l'ho capita. C'è voluto il buio, tante lacrime e dolore, ma da quella ferita, come una finestra sul mondo è scaturita la luce.

La felicità la si raggiunge fermandoci. La felicità sta in quella manciata di stelle appesa al soffitto del mondo. La felicità sta nascosta nei piccoli gesti, nei profumi, nei colori e negli odori. La felicità non va rincorsa, perché è già dentro di noi, ci è stata donata non appena siamo venuti al mondo. Sono solo tre le cose che non abbiamo mai avuto bisogno d'apprendere: piangere, respirare, ridere. Bisogna smettere di correre e fermarsi un attimo a cercarle dentro di sé. Respiro, vita. Dolore, pianto. Risata, felicità.

Ringrazio il buio per avermi fatto da luce.

Nota_Autrice
Come sempre tengo a ringraziare il mio angelo JennaRavenway per il supporto e l'occhiata finale alla storia!

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