03. Scuse sofferte

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Never Let Me Down Again - Depeche Mode

"Come ti senti?"

Cleo si rigirò sotto le lenzuola, senza sapere come rispondere alla domanda postale dal fratello. Non stava bene, di questo ne era certa, ma non credeva neppure che la sua sofferenza fosse qualcosa di cui preoccuparsi - cosa c'era di terribile nel sentirsi tradita? Avrebbe dovuto averci fatto il callo già da anni, quindi non aveva intenzione di premere sul tasto dell'autocommiserazione e il patetismo per sentirsi meglio.

D'altro canto, però, doveva pur esserci un motivo se aveva accolto con sollievo la chiamata di Corrado, nonostante la repulsione per i telefoni. Erano le undici passate di sabato mattina e lei non si era ancora alzata dal letto, né aveva provato a tirare su le tapparelle o aprire la finestra per cambiare l'aria; non aveva fatto colazione, aveva lo stomaco chiuso e la testa le pulsava da quanto aveva pianto la sera prima. Ora che ci pensava, non mangiava da quasi ventiquattrore.

"Cleo? Sei ancora lì?" insistette Corrado, col tono preoccupato. "Devo venire da te?"

"No, per carità." Cleo scalciò le coperte e si mise seduta, rabbrividendo a contatto con l'aria fredda della camera. "Sto bene. Sono solo stanca."

Sentì l'altro sospirare, ma non se ne curò, preferendo alzarsi una volta per tutte. Raggiunse la finestra e, tenendo il cellulare dallo schermo rotto incastrato tra la spalla e l'orecchio, sollevò la tapparella e spalancò i vetri, sentendo la pelle d'oca pungerla con maggior decisione a causa del fluire di aria nuova. Fuori il cielo era di un grigio plumbeo, da pioggia, e il suo umore si accordava alla perfezione al paesaggio spoglio, composto solo dalle pareti grigie del condominio davanti a quello in cui abitava - il brutto di abitare al terzo piano era di non riuscire mai a vedere il cielo dalla propria finestra.

"Hai fatto colazione?" le chiese il fratello, mentre lei in effetti si spostava verso la cucina. "Guarda che vengo sul serio, se hai bisogno."

"Lo so." Cleo aprì il frigorifero, sentendo lo stomaco serrarsi. Non aveva proprio fame, ma d'altro canto non poteva neanche pensare di vivere senza cibo, quindi si costrinse a tirare fuori la bottiglia del latte. "E ho mangiato, non preoccuparti" mentì, estraendo dalla dispensa il cartone dei cereali. Non sarebbe certo stato un pasto completo, ma meglio di niente.

"Devo crederti?"

"Senti, Dado, se mi hai chiamato per rompere possiamo chiuderla qui" replicò lei dura, pentendosi dell'attimo di debolezza della sera precedente quando gli aveva scritto che Giulio non sarebbe venuto e che si sentiva sola. Era la verità, passata e presente, e una parte di lei non vedeva l'ora che Neela sbucasse dalla porta e iniziasse a lamentarsi a ruota libera, per poi fermarsi e chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, ma non voleva che il fratello la pressasse o la compiangesse.

"Ti ho chiamato perché pensavo ne avessi bisogno" specificò lui, per nulla intimorito o arrabbiato. "Hai provato a sentire Giulio? O almeno hai intenzione di parlargli in un tempo prossimo?"

Cleo ripensò alle tre chiamate ignorate che aveva ricevuto tra le otto e il momento in cui l'aveva contattata Corrado, nonché ai messaggi che si erano accumulati nella chat con ragazzo; non si sentiva troppo in colpa per il suo atteggiamento, in quanto una punta di orgoglio e arroganza la portava a pensare che l'altro dovesse sudarsi il suo perdono. Le aveva rovinato il compleanno e, nonostante lei stessa non ci avesse mai tenuto più di tanto a festeggiare, aveva desiderato con ogni cellula del corpo di trascorrerlo con lui.

"No, non ora" rispose sincera, per poi osservare il frigorifero. All'improvviso si ricordò della richiesta di Neela e, sconfitta, recuperò uno straccio bagnato e si mise a strofinare sul piano opaco dello sportello, così da eliminare i resti della guerra a colpi di post-it che lei e la coinquilina amavano portare avanti.

"Non l'ha fatto con cattiveria, lo sai..." la ammonì nel frattempo Corrado. "Ammetto che il suo attaccamento all'università è snervante, ma anche tu non avresti mai il coraggio di dire di no a un professore."

"Non è vero" replicò lei piccata, lanciando lo straccio nel lavandino. "Se ho un altro impegno, ho un altro impegno. Punto."

"Sicuro." Cleo poteva quasi percepire il sorriso del fratello, nonostante fossero divisi dai rispettivi cellulari. "Filmati quando accade, perché vorrei proprio vederlo."

La ragazza fece per replicare, ma il rumore delle chiavi che giravano nella toppa della porta dell'appartamento la zittì. "Senti, io devo andare" disse, mentre la coinquilina faceva il suo ingresso in casa con passi pesanti. "È arrivata Neela."

"Va bene. Però, Cleo, chiamalo" replicò Corrado. "Prova almeno a capirlo."

Lei mugugnò una mezza risposta e, dopo averlo salutato, attaccò la cornetta, mentre Neela entrava in cucina e si dirigeva combattiva verso il frigorifero. Cleo la salutò con un gesto della mano, per poi versare i cerali nella tazza dove aveva messo il latte e mettersi a ruminarli con poco gusto - avevano la stessa consistenza del cartone bagnato, ma non poteva non mangiare.

"Vedo che hai pulito" commentò l'altra, sedendosi davanti a lei con un mezzo sorriso soddisfatto a incurvarle le labbra. "Giulio dov'è?"

"Non è venuto."

Neela aggrottò le sopracciglia e, per un momento, Cleo temette che si sarebbe lanciata in una lunga e tediosa filippica su quanto fosse stato scorretto cacciarla di casa e chissà che altro, ma la ragazza la soprese. "Ma hai pianto?" le chiese, allungandosi sopra il piano per prenderle il mento tre le dita. Le girò il volto da un lato e dall'altro e Cleo immaginò alla perfezione cosa stesse osservando, nonostante si fosse rifiutata di specchiarsi: un viso terribile, gonfio, pallido e dagli occhi pesti, cerchiati da occhiaie profonde.

"Sì" ammise, non vedendo quale fosse il punto nel mentire.

Neela sospirò e tornò a sedersi comoda. "Mi dispiace" le disse, per poi incrociare le braccia sul petto. "E quello cosa sarebbe...?" aggiunse, facendo un cenno verso la tazza coi cereali. "La colazione o il tuo pranzo?"

"Non lo so."

La coinquilina la squadrò in silenzio per una manciata di secondi, prima di alzarsi e andare ad aprire il frigorifero. Tirò fuori delle uova, formaggio non ben identificato, pancetta a dadini e si voltò infine verso di lei. "Ti piace la carbonara, vero?"

"Sì, certo" rispose cauta. "Ma la mangeresti anche tu?"

"Ovvio."

Cleo arricciò il naso, confusa. "Ma non eri musulmana o tipo indù?"

"Ti perdono la cazzata del giorno solo perché hai un aspetto veramente di merda" le rispose Neela stringendo gli occhi. "La vuoi o no, quindi?"

Il gorgoglio che si levò dal suo stomaco fu una risposta più che eloquente.

Fin da quando ricordava, Cleo nuotava. Alcune memorie lontanissime la vedevano in barca al lago coi genitori, pronta a tuffarsi coi braccioli ben saldi mentre suo fratello frignava che aveva paura di cosa potesse esserci sotto lo specchio scuro della superficie. Altri la vedevano impegnata in delle gare, accompagnata dall'alternarsi delle grida di incitamento provenienti dagli spalti e il silenzio pacifico dell'acqua. Da bambina ne aveva vinte svariate, ma durante il liceo era stata costretta a smettere a causa dell'impossibilità di avere una media scolastica accettabile per i gusti della madre. Si era imposta di non piangere, nonostante si fosse sentita privata dell'unica parte di sé funzionante, ancora buona e piena di talento, e aveva atteso impaziente l'arrivo della maturità solo perché era certa che dopo avrebbe potuto riprendere. Nella sua immaginazione si era detta che avrebbe potuto addirittura gareggiare di nuovo, ma crescendo si era resa conto che il mondo delle competizioni era ormai troppo lontano da lei, qualcosa preclusole per sempre.

Trasferitasi a Milano, però, aveva comunque deciso di mettere di nuovo piede in piscina. Non aveva neanche finito di svuotare le valige che già si era iscritta al programma di nuoto libero proposto dalla Cozzi; era presto diventata una seconda casa, coi suoi spalti e la doppia vasca, una dedicata ai corsi e l'altra dove si allenavano anche coloro che amavano i tuffi o la pallanuoto. Ne aveva sfruttato la flessibilità per andare dalle due alle cinque volte alla settimana, a seconda di quanto sentisse bisogno di allontanarsi da ciò che la circondava, e il finesettimana non era esente dalle sue scappate fino in viale Tunisia.

Quel sabato aveva stabilito di averne bisogno e, quindi, dopo aver trascorso l'intero pomeriggio sdraiata sul letto, era uscita di casa verso le cinque, così da trovarsi in acqua per la seconda ora libera. Nel giro d'orologio concessole aveva coperto una quantità di vasche che si era rifiutata di contare, tanto era presa dal sentire come il corpo reagisse allo sforzo a cui lo stava sottoponendo. Ogni tanto, quando le venivano dei crampi troppo intensi per procedere a stile libero o perdeva del tutto il fiato, si voltava a dorso e proseguiva così fino a quando il mondo esterno non la nauseava a tal punto da sentire la necessità di tornare sotto, con poco ossigeno e silenzio. Non aveva più pensato a niente, ed era stato catartico.

Quando aveva dovuto abbandonare il freddo abbraccio dell'acqua, però, si era sentita subito spaesata. L'ondata di vuoto che l'aveva colta in seguito al disastro del giorno precedente le era risalita per la gola e le aveva anestetizzato il corpo, portandola a compiere ogni azione successiva in modo meccanico: si era lavata, asciugata e vestita senza neanche accorgersene, ignorando le occhiate dei soliti habitué delle vasche coi quali aveva talvolta scambiato due chiacchiere. Avrebbe preferito essere ancora triste, oppure avere in corpo una rabbia incontenibile, ma invece non le era rimasto neppure il conforto delle emozioni più forti.

Vuoto, nient'altro che quello.

Solo il ricordo dell'inaspettata dolcezza di Neela le faceva scoccare qualche scintilla in fondo all'anima, ma era poco a paragone della gioia che si era immaginata di provare.

"Passerà..." si disse, sistemando il cappellino di lana. Non aveva alcuna intenzione di ammalarsi a causa di un improvviso colpo di freddo, visto che le temperature esterne continuavano a calare, e, solo dopo essersi allacciata il cappotto, si decise a spalancare le porte dell'edificio e abbandonarlo fino a lunedì sera. Non fece in tempo a percorrere la scalinata, però, che si fermò e desiderò con tutta se stessa tornare indietro e nascondersi: a pochi passi da lei, fermo in piedi con le mani ficcate in fondo alle tasche, c'era Giulio che la osservava, la sua alta figura in attesa.

Vedendola immobile, il ragazzo la raggiunse e, senza dirle alcuna parola, allungò una mano e le prese la sacca da nuoto, per poi allontanarsi. Cleo non poté fare altro che seguirlo, troppo stordita dal fatto che fosse , che l'avesse cercata, per infastidirsi del suo comportamento. Sempre in silenzio, raggiunsero entrambi la via laterale dove il ragazzo aveva parcheggiato l'automobile e si infilarono nell'abitacolo; la stessa quiete si mantenne intatta per tutto il viaggio, mentre le luci di Milano scorrevano dietro i finestrini e una leggera pioggerellina iniziava a cadere, disegnando percorsi tortuosi sul vetro.

Solo quando Giulio si fermò sotto il condominio dove abitava Cleo, in una strada vicino all'Istituto nazionale dei tumori, la ragazza si rese conto che uno dei due avrebbe dovuto dire qualcosa. Attese ancora per qualche minuto, ma quando si rese conto che sarebbe stato inutile aspettare delle scuse che non sarebbero mai arrivate si costrinse a borbottare un "Allora?" che rimbombò come il suono della ceramica in frantumi.

"Senti, Cleo..." disse Giulio, stringendo il volante. "So che sei arrabbiata, e fai bene a esserlo, ma non hai pensato che possa essere stato una merda pure per me?"

La ragazza strozzò una risata. "Io non ho mai saltato il tuo compleanno."

"Allora dimmi cosa avresti fatto al mio posto."

Cleo stava per replicare che avrebbe detto al professore in modo fermo ma educato che no, non si sarebbe potuta fermare oltre a causa di un impegno, ma la conversazione avuta di mattina col fratello la frenò. Nonostante tutto, non desiderava mentire a Giulio, né portare avanti una conversazione a toni infantili.

"Nulla" ammise. "Avrei fatto come te."

L'altro si girò a guardarla, troppo sorpreso per dirle qualcosa, tanto che lei ne approfittò per specificare: "Ma non è una scusante, sia chiaro. Sono settimane che mi ignori o rimbalzi."

"Lo so, e mi dispiace."

Tra loro cadde di nuovo il silenzio, scandito dal ticchettare della pioggia sul parabrezza. Cleo si chiese se non fosse meglio uscire e rifugiarsi in casa, accontentandosi del mezzo discorso intavolato e delle scuse ricevute, ma alla fine decise di dare ascolto alla minuscola parte di lei che sperava che Giulio aggiungesse qualcosa. Rimase quindi in attesa, osservando il suo viso largo e dalla carnagione scura e soffermandosi sulle labbra carnose, evidenziate dalla barba corta, che avrebbe tanto voluto baciare; sarebbe bastato allungarsi sul sedile, infilare le dita nei corti capelli ricci e avvicinarlo a sé, così da poter tornare a respirare. Eppure, era congelata dalla consapevolezza che agire in tal modo avrebbe significato un perdono senza riserve, un invito per lui a continuare a farle male senza rendersene conto.

"Come posso farmi perdonare?" le chiese Giulio all'improvviso, voltandosi. I piccoli occhi scuri, illuminati da un lampione, tradivano una tristezza che Cleo riconobbe simile alla sua, tanto da farla sentire in colpa per la linea dura che aveva scelto di adottare.

"Potresti essere solo più presente, tutto qui" mormorò in risposta. "Non dico dovremmo fare come all'inizio, quando eravamo sempre appiccicati, però..."

"Dovrei sforzarmi."

"Esatto." Cleo tentennò per un secondo, mordendosi il labbro indecisa se esprimere il pensiero che le frullava per la testa. "Non ti chiedo di mettermi in cima alla tua lista delle priorità, non sarebbe corretto" aggiunse con un sospiro. "Ma non farmi sentire scontata."

Giulio annuì. "Va bene."

Cleo si slacciò la cintura, pronta a uscire e a mettere un punto alla giornata, ma il ragazzo la afferrò per le spalle e la strinse a sé in un abbraccio improvviso, in cui lei si tuffò subito. Respirò a pieni polmoni l'odore del dopobarba dell'altro, così fresco e a contrasto con il sentore di cloro che sentiva attaccato ai suoi abiti, e gli si accoccolò tra le braccia dimentica di tutto - le era mancato. Chiuse gli occhi e lo baciò, lasciandosi guidare dal desiderio di respirare di nuovo, di allontanare la soffocante cappa che era calata su entrambi da mesi.

"Mi dispiace" mormorava l'altro ogni volta che si allontanavano. "Scusami, Cleo, perdonami. Sono un idiota."

Quando alla fine la ragazza si costrinse a scendere dall'automobile aveva le labbra gonfie e il cuore che le pulsava a mille, mentre una vocina ottimista dentro di lei le sussurrava che le cose sarebbero andate meglio.

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