"A Inessé..."

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

"Sali, sali!"

Papà e mamma nascosti, sorridenti, che mi incitavano a salire ancora una rampa e suonare il campanello.

"Che 'vvoi, nì?"

Incontravo così, per la prima volta, zia Annetta, Annarella, la sorella della nonna che non avevo mai conosciuta. Piccola, soffice, tutta candida. Con una grande bambola di porcellana sul letto matrimoniale, nell'appartamentino modesto sul grande viale in discesa, dove al piano terra lo zio aveva fatto il carbonaio e ancora vendeva giornali e fumetti.

Avevo otto anni e mi portavano a conoscere i parenti romani. I Nando, i Mario, le Iole e le Inessé, con la esse raddoppiata e la e finale accentata. Tutti con i vocioni come papà, che ovunque l'avesse portato la vita si era trascinato la cadenza romanesca dietro; e dentro.

Confesso, dell'aspetto della città non ricordo pressoché nulla. A otto anni ciò che mi si imprimeva nelle narici, e di lì nella mente, era l'odore del cibo.

Quello della pasticceria in cui facevamo colazione, per primo, con un cappuccino caldo e un maritozzo con la panna. Poesia, diceva papà, e io condividevo entusiasta. Ho sempre adorato la panna e non credevo ai miei occhi, nell'ammirare quel pane dolce da cui strabordava generosa, morbida, sensuale.

E poi gli odori grassi, d'olio fritto e sugo e carne, del mezzogiorno in osteria. Stravagante usanza, mi sembrava, portarsi il cibo da casa e scaldarlo nella cucina del locale, che però offriva tavoli e sedie per riunire tutta la famiglia che in quei minuscoli appartamenti non sarebbe entrata. E allora, tutti all'osteria!, che offre spazio e vino.

Nella cucina si scaldava il sugo, che spandeva ondate di profumo anche nella strada, e si cuoceva la pasta. "Rigatoni co' la pajata. Assaggia, nì, che so' bboni!"

Non avevo bisogno d'incoraggiamento, avevano un aspetto insolito ma non dubitai un istante che fossero squisiti. Ed erano conditi da uno stordir di voci, un sovrapporsi d'odori di legno, di vino, di gente.

Ecco, di quella prima Roma dei miei otto anni non ricordo monumenti ma suoni. Gli stornelli nell'osteria e le risate.

Ricordo odori di cibi, dolci e salati.

Ricordo mani di gente, abbracci forti da stritolare, pacche tirate a far traballare.

Ricordo luci forti, del sole intenso tra le foglie d'alberi alti, alti, alti...

Quasi vent'anni dopo, ci son tornata donna per vedere San Pietro. Il Colosseo. I fori imperiali. I musei vaticani. Piazza Navona. La barcaccia. Trinità dei monti. Le cupole gemelle di Piazza del Popolo. Il Tevere. Castel Sant'Angelo.

Un pellegrinaggio, ogni luogo un ricordo non mio.

Mio padre che racconta la sua città, lasciata ancora ragazzino, primo amore perduto e indimenticabile.

Roma sotto le bombe, Roma coi tedeschi che rastrellavano. Roma col mercato nero, che risucchiò i gioielli della nonna, l'ultimo sacco di patate e di legumi per gli ultimi ori prima della miseria.

E la prima camionetta americana nelle strade, a poche ore dallo sbarco ad Anzio.

Proprio loro, americani, indisturbati fino alle soglie della città! La gente che esultava speranzosa e invece... non si fidarono, gli americani. Si fermarono, sospettando una trappola. E i tedeschi fecero in tempo ad accorrere.

Roma restò bloccata nella morsa ancora mesi e mesi. Di sofferenza, di fame, di terrore! Quanto orrore, nella voce di mio padre.

Ché è cosa diversa, vederlo nei film e sentirlo raccontare da chi c'era. Lo ricordo che faceva con la voce il bo bo bo bom di Radio Londra, e ancora si chinava in avanti, come rivivesse quel raccogliersi in silenzio attorno all'apparecchio, tenuto a bassissimo volume, a sperare notizie. A pregare che finisse!

Ecco, del fascismo non ricordava tanto, mio padre, finì che era tredicenne. Aveva una foto vestito da balilla, ma non altro.

Ricordava il sibilo delle bombe, però. L'oscuramento. Il cane a cui insegnarono a usare l'orinale, perché non lo si poteva portare in strada col coprifuoco. E le mitragliate, e gli schizzi di un amico preso in pieno da una sventagliata, sdraiatisi a terra in strada, mio padre vivo di qua, l'altro con gli schizzi di cervello sul muro di là, a due metri di distanza. E le urla dei torturati dalle SS, in un carcere accanto al quale camminava andando a scuola in un collegio di preti. Le urla da un lato, i canti gregoriani dall'altro.

Niente è più sbagliato della guerra, mi diceva. Più disumano. Più spaventoso. Per questo della guerra bisogna parlare, sempre. Per non dimenticare, mai.

Il mio primo pensiero, passando ormai adulta accanto al palazzo candido dell'EUR, è stato che volessero rielaborare gli archi del Colosseo. Suggerendo una nuova grandezza, in continuità coll'antica ma moderna, evoluta.

Un'ipotesi mia, da profana.

Il secondo pensiero, è stato come il riecheggiare di una voce severa: Sepolcri imbiancati!

I sepolcri imbiancati sono gli ipocriti, che dentro son pieni di marciume. 

Coloro che dichiarano le guerre non sono mai gli stessi che le combattono e le subiscono. Credo che ipocrita sia, per questi, un appellativo fin troppo generoso.

Immobile e rigoroso e candido, il palazzo dell'EUR mi ha suggestionato come un monumento funebre imbiancato. Ambizioso. Ma vuoto di anima. Esteriore, privo di sentimento. Retorico, senza dolcezza. Bello, ma volentieri gli sono passata oltre.

Il terzo pensiero è stato per mio padre, che lì non mi portò né me ne parlò mai. Nella sua Roma quel palazzo non c'era.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro