.3. Forse dovrei andare.

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Barcellona
13 ottobre 1808.

<< Alexander Castro.>> rispose fiero di pronunciare il suo nome. Le lunghe ciglia parvero brillare di fronte alle ultime luci del tramonto. <<In arte, l'adulatore. O il padrone. A te la scelta.>>

Ricordo bene che in quel momento sarei solo voluta scappare da lì, ma c'era qualcosa di dannatamente magnetico in quella stanza. I silenzi erano pesanti man mano che io disegnavo e lui se ne stava immobile a guardare fuori dalla finestra.

Posai la matita sul tavolino da lavoro quando ormai anche le ultimissime luci si furono esaurite, e quelle delle candele non bastavano ad illuminare la sala. Il padrone si alzò e io mi affrettai a coprire con un telo il mio lavoro incompleto, per poi indietreggiare e lasciarlo passare.

Alexander parve un po' perplesso, così risposi alla sua domanda muta: <<Voi mi avete detto che mi avreste donato quante ore io necessiti per terminare il mio lavoro. E temo che me ne serviranno più che una manciata in un solo giorno.>>

Mi si drizzarono i capelli sulla nuca quando mi resi conto che sarei dovuta tornare in quella stanza per proseguire il mio lavoro. Il padrone abbozzò un sorriso carico di sicurezza, sicurezza che possiedono gli uomini che sanno di essere belli e di fare un certo effetto alle donne.

<<Sei molto astuta e intelligente, e oltremodo bella e pura nella tua giovinezza.>>

Avanzò verso di me. Mi studiò per qualche momento il viso, poi fece scorrere lo sguardo lungo tutto il mio corpo.

<<Forse dovrei andare...>> mormorai in imbarazzo.

Ma le mie gambe non volevano proprio muoversi.

Il padrone alzò un angolo della bocca coperta da una leggera barba. Alle sue spalle, la luna a spicchio illuminava debolmente la sala. I capelli gli coprivano un occhio e le candele proiettavano strane luci sui suoi lineamenti un po' spigolosi.

Mi sentii avvampare quando mi resi conto che nessun uomo mi aveva mai guardata in quel modo, e io non avevo mai visto così da vicino un uomo senza camicia.

E per giunta lui era il mio padrone, io non avrei mai dovuto vederlo così.

<<Puoi andare, ma lo vuoi davvero, Geneviève?>> sussurrò e si avvicinò ancora di più.

Sospirai e tentai di frenare il tremore che sentivo nelle gambe.

<<Devo proprio andare...>> con molto coraggio mi voltai e, a passo svelto, raggiunsi l'uscita. <<Con permesso, padrone.>>

Feci del mio meglio per fare una riverenza, cercando di non mostrare le gambe che tremavano in preda all'agitazione, poi aprii la porta e uscii svelta, non prima di aver udito due semplici parole che mi fecero venire i brividi che mi attraversarono da capo a piedi.

<<Buonanotte, Geneviève.>>

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