.5. Altri scopi.

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Barcellona,
17 ottobre 1808.

Alexander entrò per primo ed io in silenzio dietro di lui. Lo studio era esattamente come lo avevo lasciato qualche sera prima: la grande vetrata inondava di luce l'ambiente e i numerosi quadri appesi e posati negli angoli parvero osservarmi mentre avanzavo nello studio del padrone.

Lui si fermò di fronte alla vetrata, incrociò le braccia dietro la schiena e osservò il panorama. Io, qualche passo dietro di lui, mi guardavo le punte dei piedi.

Per quale motivo aveva deciso di convocarmi con così tanta urgenza nel suo studio?

Dopo quella sera a stento mi aveva guardata, come se si fosse pentito di ciò che era successo. Il quadro coperto dal telo bianco occupava una parte del paesaggio proprio di fronte alla vetrata e, sul telo in basso, qualche ditata di pittura, segno che probabilmente aveva sbirciato.

<<Geneviève.>> disse dopo un po'.

<<Si, padrone?>>

Girò appena la testa di lato, quanto bastava per guardarmi con la coda dell'occhio. <<Come sei finita nella mia tenuta?>>

<<Mi avete comprata dai Garçia, padrone.>>

<<E perché ho scelto proprio te?>>

Abbassai ancora una volta lo sguardo sui miei piedi. Il vestito nero ballò per qualche momento sulle caviglie. <<Non lo so, padrone.>>

Grugnì. <<Ci dissero che eri la più brava e capace, e io volevo una domestica giovane per altri scopi.>> disse, poi si voltò verso di me. <<Amo mia moglie, ma anche lei sa che non posso appartenere ad una sola donna.>>

Avvampai.

Fece un passo verso di me. Non osai domandare altro.

Increspò gli occhi del colore dello smeraldo che brillavano sebbene la luce del sole fosse alle sue spalle. Io portai una mano sul braccio apposto, non sapendo cosa fare.

<<Continua a disegnare per me, Geneviève.>>

Mi indicò il quadro e io lo raggiunsi subito prendendo la matita. Levai il telo bianco e lo posai delicatamente su una sedia. Il padrone tornò verso la vetrata e si sedette nello stesso punto in cui si era seduto giorni prima. Si sfilò la camicia e la fece scivolare a terra, lontana da lui.

Senza mai smettere di guardarmi.

Sapevo che gli piaceva fare così. Gli piaceva mettermi in soggezione e lo sapeva fare bene. Posò lo sguardo verso il paesaggio e io iniziai a disegnare. Non sapevo se stavo facendo bene, alcune linee mi sembravano fuori posto e inoltre la mano tremava come impazzita.

Avrei voluto tanto chiedergli il motivo per il quale mi era parso così impaziente di venire qui, perché voleva che io lo ritraessi e perché si faceva chiamare padrone. Nessuna delle altre domestiche era riuscita a darmi una spiegazione e io morivo dalla curiosità di sapere.

Ma non ne possedevo il coraggio.

<<No, non così.>> disse all'improvviso dietro di me.

Non mi ero neanche resa conto che si era alzato. Allungò una mano e prese la mia, poi me la guidò sulla tela. Le sue mani erano grandi e la fede un po' mi pizzicava. Percepivo il suo respiro sulla nuca, il petto che si alzava e abbassava all'altezza delle mie spalle.

Il padrone era molto alto, o forse io ero troppo bassa. Disegnammo insieme qualche linea, correggendo il profilo della figura che stavo tentando di raffigurare. Con il suo aiuto le forme erano decisamente migliori.

Un brivido mi percorse la schiena quando lo sentii annusarmi a fondo i capelli stretti nella cuffia. Mi immobilizzai e le mani iniziarono a sudare, di conseguenza la matita mi scivolò dalle dita.

<<Maldestra.>> borbottò sui miei capelli.

Mi morsi un labbro. Le nostre mani erano ancora intrecciate, il suo braccio a toccare la mia spalla e il suo respiro ora sul collo. Il cuore mi batteva all'impazzata.

Una porta si aprì alle nostre spalle e subito il padrone slegò i nostri corpi e io tornai a respirare.

Comparve sua figlia Sara con un blocco da disegno nelle mani.

<<Padre.>> esordì e si inchinò leggermente. <<Avevate detto che mi avreste aiutata con il disegno.>>

La ragazzina di tredici anni appena guardò prima suo padre senza camicia, poi me con le guance in fiamme. Anche le sue guance si tinsero di rosso, ma non disse niente.

<<Quante volte ti ho detto di bussare prima di entrare qui dentro?>> disse Alexander con una nota di rimprovero.

Lei abbassò lo sguardo. <<Perdonate.>>

Il padrone sospirò, poi si voltò verso di me. <<Fuori.>> tuonò.

Mi piegai sulle gambe e mi diressi verso l'uscita. Sara mi rivolse uno sguardo torbido e io non potei fare a meno di notare quanto quegli occhi verdi somigliassero alla tonalità e all'espressività di Alexander.

Sparii dietro la porta.

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