10 luglio 1676 pt. 2

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Quella stessa mattina, a casa, poco dopo che Ottavio era uscito per recarsi in stamperia, Giovannino era stato incaricato di badare a Ludovica mentre questa giocava in cortile. Gli venne detto espressamente di passare dalla porta principale per qualsiasi necessità e di evitare di disturbare senza una ragione davvero valida.

Liberi dalla presenza dei bambini, quindi, Ferraris e Galatea tornarono in camera, il letto ancora sfatto, e si spogliarono a vicenda: la complicità, tra loro, era cresciuta al punto che spesso non c'era bisogno di parole per comunicare. Bastavano le carezze, i pizzicotti, i morsi e i gemiti a suggerire cosa passasse per la testa. Perciò, quando Galatea, già a torso nudo, notò la portafinestra socchiusa, bastò un'occhiata per indicare il problema a Ferraris, il quale, vestito della sola biancheria, afferrò la maniglia e la trasse con forza, accontentandosi di sentire un tonfo sordo per credere che fosse serrata. Galatea, rassicurata, sfilò dalle gambe la sottoveste e la gonna e si gettò sul letto, dove si fece sottomettere da lui.

«Alessandro...» lo chiamò languidamente, baciandogli il collo, quindi trasalendo di piacere. Lui le scostò i capelli dal viso, assestandosi nella posizione più adatta a lei, e diede inizio all'amplesso in modo piuttosto energico. Dopodiché, stanco di essere il protagonista, si aggrappò a Galatea e rotolò sulla schiena, così che lei si trovò, invece, sopra di lui.

«Forza, tocca a te condurre oggi», le disse con tono di sfida. Il giorno prima, infatti, in un momento di tregua, le aveva detto che poche donne erano state in grado di stupirlo positivamente in quella posizione e lei, orgogliosa, aveva ribattuto che sarebbe stata annoverata tra loro. Il suo atteggiamento sicuro non si smentì nemmeno alla prova dei fatti: si erse, lo guardò ammiccante, si morse la lingua e cominciò a muoversi piano. Dal canto suo, Ferraris sperava che non si rivelasse un'esperienza deludente, perché avrebbe guastato tanti bei ricordi legati a quelle giornate di sfrenatezza: le sue speranze, però, non vennero affatto deluse, e ciò dimostrava che Galatea conosceva molto bene le proprie capacità. Ed era solo merito di Ottavio, perché la sua autoconsapevolezza derivava certamente da una storia di successi e di crescita nell'intimità di coppia. Ferraris, per un attimo, li invidiò, in quanto i marchesi, da sconosciuti che erano al primo incontro, erano diventati perfetti amanti tra le cortine del letto, mentre lui era l'amante di una o poche notti e non aveva mai coltivato un rapporto tanto profondo nemmeno nel corso delle avventure di durata più lunga. Era condannato a cogliere i frutti coltivati da altri, non come un ladro, ma come un parassita, eccetto i pochi casi in cui il marito in questione fosse uscito di scena: le sue donne, infatti, non erano mai solo sue. E Galatea in modo particolare.

Scacciò i pensieri per godere le gioie del presente senza rimorsi e rimpianti. Le solleticò la coscia, la risalì, arrestò la mano solo quando ebbe raggiunto il suo fianco. Galatea, intanto, non aveva mai perso di vista il suo volto, era in grado di leggerlo senza difficoltà, modulando i movimenti a seconda delle sue espressioni di piacere. Si alzava e si abbassava, quasi stesse cavalcando; e ad ogni piccola mossa fremeva, tremava, sospirava. Sentiva le guance infuocate e pensava a quanto fossero rosse, mentre il viso di Ferraris era così disteso e rilassato da ricordarle un'estasi. Ed era difficile, nei frangenti più piacevoli, non richiamare alla mente Ottavio, che, in situazioni analoghe, non le aveva mai mostrato un apprezzamento minore. Talvolta, tra un battito di ciglia e un sussulto, le sembrava di vederlo sotto di sé come nelle notti d'amore di mesi e mesi prima e scuoteva la testa per schiarirsi le idee, temendo di pronunciare il suo nome ad alta voce.

Ferraris, a un certo punto, serrò entrambe le mani sui suoi fianchi, affondando le dita nella carne. Prese a dettarle un certo ritmo, aiutandola a sollevarsi senza pesare troppo sulle ginocchia; quindi scese ai glutei continuando a dirigerla e, quando poteva, ad assecondarla con la spinta del bacino. I suoi gemiti lo eccitavano quasi più delle deliziose sensazioni al bassoventre, ma conosceva un modo per farla gemere oltremisura: perciò, dopo averle riconosciuto la vittoria nella sfida, la fece scostare e poi distendere a pancia in giù; lei, avendo sospettato una svolta in tale senso, obbedì senza esitazione divaricando le gambe. Lui riprese fiato e, quando fu pronto, si coricò su di lei respirando avidamente il profumo di lavanda dei suoi capelli, avendo Galatea l'abitudine di ornare la propria treccia con i fiori di quella pianta. Lei attese con trepidazione di riprendere l'amplesso, ma lui si prese del tempo per viziarla di attenzioni, per dirle che era bella e che non avrebbe smesso un solo giorno di desiderarla. Poi, tra una parola e l'altra, gli sfuggì: «Ora capisco perché tuo marito è così geloso di te... Chi non lo sarebbe?»

Non le diede il tempo di rispondere, penetrandola mentre ancora parlava. Lei dimenticò ciò che avrebbe voluto dire e si concesse a lui a occhi semichiusi, intervallando i lunghi mugolii con ansiti più brevi e intensi. Anche lui respirava con intensità irregolare all'aumentare dello sforzo e del piacere; ora le spinte erano più vigorose e ravvicinate e gli spasmi più o meno volontari del corpo erano frequenti nell'uno e nell'altra. Di tanto in tanto, quando le condizioni lo permettevano, Galatea si sollevava un poco per potersi voltare, per potersi far baciare sulle labbra; se ciò non era possibile, Ferraris le morsicava piano la pelle delle spalle e del collo oppure il lobo dell'orecchio, sempre attento a non farle male. Con le mani, al contempo, riusciva a sfiorarle i seni, i capezzoli; a volte, però, preferiva accarezzarla delicatamente. Anche il minimo gesto, il minimo contatto donava sensazioni piene di dolcezza e godimento. E l'ardore virile di lui, stimolato fino all'eccesso, lo spinse a sollevare un poco le anche di Galatea con la mano destra, affinché i loro corpi potessero premersi uno contro l'altro con più facilità; si sbilanciarono sul fianco sinistro, caricandosi entrambi sui gomiti fino a che, superato l'apice dell'amplesso, Ferraris si lasciò ricadere su di lei, stremato e appagato, per poi scivolarle accanto. Anche Galatea era molto provata, essendo stato questo il rapporto più lungo e intenso che avessero consumato. Si distese sul fianco per poterlo guardare con quell'aria di stordimento che segue l'orgasmo e potergli dire quanto le fosse piaciuto; ma quel senso di amarezza in fondo alla gola e in fondo al cuore non la lasciava, perciò, invece che confidargli futili e prevedibili opinioni, gli rivelò i crucci che la angustiavano da troppo tempo.

«Io voglio Ottavio», sussurrò mettendo le mani tra la guancia e il cuscino. Ferraris deglutì e distolse lo sguardo da lei, poi annuì e si accomodò meglio. Solo alla fine disse: «Lo so bene e lo accetto. È giusto che sia così».

«Non sono così sicura che lo sia...»

Ferraris tornò a guardarla e la vide abbattuta; istintivamente sollevò una mano per accarezzarla. Non essendo questo sufficiente, le si avvicinò di nuovo, baciandole la fronte mentre le sue dita solcavano le sue ciocche sciolte. Lei si premette contro di lui, desiderosa di percepire la sua pelle leggermente sudata contro di sé.

«Ottavio è tuo marito, Galatea», le disse sottovoce. «Siete sposati da sette anni e vi amate tanto; nessuno potrebbe dubitarne. Perché, dunque, non sei sicura di volerlo?»

«Perché temo che lui voglia solo usarmi per fare figli», spiegò in un singhiozzo malamente trattenuto. Ferraris scosse la testa, si sottrasse a lei e si sedette con la schiena poggiata alla testiera del letto, poi la chiamò a coricarsi sul suo petto in una posizione molto tenera. Lei lo assecondò, sentendo un grande bisogno di coccole.

«Chi ti ha messo in testa una cosa simile? Perché sono certo che una simile idea non venga da te.»

Galatea esitò, posta di fronte alla possibilità di rivelargli la presenza della figura misteriosa; Ferraris, dopotutto, era al corrente delle sue visioni e non ne sarebbe rimasto sorpreso. Una sorta di cautela, però, le consigliò di non esporsi così presto al suo giudizio, di tacere e di spostare il discorso su altro.

«Nessuno me l'ha messo in testa; solo che Ottavio è diventato strano in questi ultimi mesi e io mi sento sotto pressione, come se dovessi assoggettarmi al suo volere ogni volta che vuole.»

Ferraris storse le sopracciglia e, dopo una breve pausa, rispose: «Sai che ti contraddici? Se lo vuoi, come hai detto prima, non dovrebbe pesarti affatto l'idea di concederti a lui quando lui te lo chiede, perché, facendolo, soddisferesti anche te stessa. Dunque, che cosa vi ostacola?»

Galatea divenne cupa e il suo pianto cessò di colpo. Ferraris percepì un irrigidimento nel suo corpo e, per rimediare, moltiplicò i baci e le carezze. Lei, però, era in preda a un forte dissidio alimentato da quella voce maligna che, di punto in bianco, aveva cominciato ad assillarla mentre lui le stava parlando. Ora quella voce, che fino a poco prima l'aveva incitata, se non proprio spinta, nelle braccia dell'amante, promettendole tutto il godimento che non avrebbe più ricevuto dal marito, ora quella stessa voce la metteva in guardia a non fidarsi nemmeno di lui. E lei, confusa, cominciò a convincersi che fosse il caso di condividere il peso di quella presenza scomoda; ma, non appena quel pensiero aveva fatto capolino nella sua mente, la figura si era arrabbiata, aveva paventato terribili conseguenze, mettendole di fronte ipotesi spaventose: l'avrebbe ritenuta pazza, l'avrebbe considerata pericolosa o malata. In ogni caso, non l'avrebbe compresa e lei avrebbe perso l'unico appoggio che le era rimasto. Impaurita da quella prospettiva, Galatea decise di resistere.

«Io lo voglio, ma capisco che lui non mi voglia più come prima. Per questo mi nego a lui...» si giustificò, sperando che la scusa suonasse credibile. La realtà era ben diversa, ma come spiegarla? Ferraris sembrò accogliere le sue parole con un moto di compassione: le sue carezze si fecero ancora più delicate e ben dosate, piacevoli da ricevere e facili da richiedere. A Galatea bastava uno sguardo e subito lui sapeva come volesse essere consolata.

«E per quanto mi riguarda, che cosa provi per me? Perché a me concedi le tue grazie?» domandò a un tratto. Lei sospirò e rispose di getto: «Perché sei bello e affascinante e sai ottenere ciò che vuoi. E di certo non mi ami perché vuoi dei figli da me...»

«No, figli no...» convenne. «Anche tu sei bella e non mentivo, prima, quando ho detto che tuo marito fa bene a essere geloso di te: è fortunato ad averti in moglie.»

«Non parliamo di lui, ti prego.»

Ferraris deglutì una seconda volta, intestardendosi nell'obiettivo che si era posto. Perciò, deciso a non dargliela vinta su quel punto in particolare, riprese: «Vi piacevano le mie lettere?»

Sorrise e: «Sì,» disse, «erano impertinenti e lascive, ma non volgari. Mi facevano sentire desiderata». Lui approvò: «E a lui?»

«Lui all'inizio storceva il naso, poi ha capito che avrebbe potuto imparare qualcosa da te, perché avevi più esperienza e conoscevi qualche segreto che lui da solo non avrebbe mai scoperto.»

«E tu eri felice di questo?»

«Altroché. Gli devo riconoscere che è stato un buon allievo e ha studiato con costanza; i risultati sono stati ottimi.»

«Forse non dovrei dirtelo, ma lo farò: devi sapere che le mie lettere avevano proprio quello scopo. Sono contento che Ottavio abbia saputo sfruttarle a vostro vantaggio. Per conto mio, ritengo di aver goduto molto nell'immaginare certe cose...»

«Immagina, piuttosto, che la maggior parte di quelle cose le abbiamo fatte, poi...»

«E qualcosa l'abbiamo fatto anche noi due», concluse, chinandosi a baciarla con passione.

«Ti senti soddisfatto?» gli domandò quando le loro labbra si separarono.

«Non sarò mai soddisfatto al punto da ritenermi contento», replicò, toccandola senza pudore. Lei rise di cuore e la voce si assopì, convinta che ormai il pericolo fosse scampato. Galatea, invece, attese lucidamente quell'istante per poter proferire poche parole, una richiesta di aiuto disperata, un'ancora di salvezza contro la schiavitù.

«È colpa di una voce», disse soltanto; il suo sussurro suonò in modo inquietante nel silenzio della camera e Ferraris, lì per lì, non afferrò il significato di quella frase. Galatea aveva chiuso forte gli occhi al rimbombare, dentro di sé, di quella voce, più inferocita che mai, che le gridava insulti e minacce. Terrorizzata, scoppiò a piangere, aggrappandosi al corpo nudo di Ferraris come unico riparo.

«Una voce? Quale voce?» domandò lui, stringendola tra le braccia.

«Nella mia testa. Sta lì e, quando faccio qualcosa, quando penso qualcosa, lei è lì a giudicarmi, a dirmi cosa dovrei fare, a ricattarmi con promesse di guai terribili. Io non ce la faccio più, Alessandro; è da troppo tempo che le cose vanno in questo modo e non riesco più a sopportarlo!»

Ferraris titubò, poi, anche a costo di sembrare uno stupido, domandò: «Si tratta di un altro di quei mostri che vedi? Come la Morte o la Fortuna...?»

«Sì, credo. In verità non ne sono certa, perché non mi ha detto come si chiama e questo è insolito...»

«Ti fa paura, vero?» la interruppe, prendendole la mano. Lei arrestò la cascata di parole e si perse nell'intensità del suo sguardo; poi, senza averne piena consapevolezza, rispose: «Sì, mi fa paura perché mi ha separata da Ottavio e ora, per causa sua, nulla tornerà come prima».

«Può essere che sia la Melancolia?»

Galatea ci pensò per un tempo che le parve estremamente lungo, ma che in realtà consistette di qualche secondo soltanto. Si alzò seduta, tese i sensi e rimase in ascolto: la voce era ammutolita a quel nome, come se fosse rimasta spiazzata.

«Credo di sì, Alessandro. Credo di sì», bisbigliò, temendo di parlare troppo presto. Un inarrestabile desiderio di rivalsa si stava già sollevando in lei: l'avrebbe affrontata per l'ultima volta, l'avrebbe sconfitta e cacciata, così che la sua vita potesse tornare tranquilla com'era sempre stata.

Ferraris troncò il suo entusiasmo sul più bello. Rimasto al proprio posto, le mani giunte in grembo, le confidò: «Non ti libererai di lei facilmente; una volta che entra nella tua testa è difficile cacciarla via».

«Cosa?» esclamò esterrefatta. «Questa strega mi ha rovinato la vita, gliela farò pagare in tutti i modi, costi quel che costi!»

«Quando ho perso l'occhio, sentivo anch'io una voce nella mia testa che mi diceva che non sarei più stato un uomo come gli altri, che il mio valore sarebbe stato inferiore; che ero un ciclope, un orrore che la gente non avrebbe voluto vedere. E quando la realtà la smentì, quando le donne furono ancora più condiscendenti con me e gli uomini presero ad ammirarmi per il mio coraggio e la mia fama, e quando il duca notò le mie qualità di spia, quella voce usò tutto questo a proprio vantaggio, tentando di orientare la mia vita in modo che perdessi qualsiasi interesse nelle cose buone che mi circondavano: le mie relazioni, a detta sua, non avevano senso di essere, in quanto erano puramente carnali; l'ammirazione non era meritata, in quanto l'incidente non era dovuto a un grande gesto eroico, ma a un semplice archibugio difettoso; le responsabilità erano una servitù infamante, perché una spia rimane una spia, nonostante possa avere intenti nobili.

«Se oggi mi vedi per come sono, è perché ogni giorno combatto contro quella voce; ma lei è lì, in un cantuccio della mia mente, e risorge ogni volta che le si presenta l'occasione. Sta a me costruire una difesa efficiente contro di lei. Quando ieri mi hai chiesto di togliere la benda, perché credi che abbia esitato? Perché la voce mi diceva che avresti provato ripulsa per me, dopo che avessi visto l'occhio. E questo è il motivo per cui non ho mai tolto la benda in presenza di una donna: la voce aveva il potere di impedirmelo con le sue assurde convinzioni. Non fosse stato per la tua insistenza, io non l'avrei tolta; non fosse stato per la tua comprensione, dopo, sarei dovuto soccombere alla nemica che prevedeva per me il rifiuto di chiunque avesse potuto vedere il mio difetto. Ora so che tu non ti sei fatta influenzare e ho fiducia che altri non lo faccia in futuro. È un'altra piccola vittoria di cui ti sono debitore.»

Galatea ascoltò con attenzione e, quando terminò, gli manifestò tutta la propria gratitudine con un lungo bacio amichevole sulla guancia. Asciugò quanto rimaneva delle lacrime versate e, piena di entusiasmo, si alzò per rivestirsi e mettersi a preparare il pranzo; Ferraris la imitò prontamente e la aiutò a indossare il corsetto e la gonna, annodandole i nastri uno dopo l'altro. Quando fu pronta per andare in cucina, Galatea si volse a guardarlo un'ultima volta con gli occhi lievemente velati di tristezza.

«Come farò con Ottavio?» squittì, avvertendo un peso intollerabile sul cuore.

«Non è uno stupido; comprenderà, comprenderà tutto. Bisognerà dargli tempo e spazio, ma lo stimo molto e so che non ti farà soffrire. Tu fidati di lui e riconosci i tuoi errori; lui riconoscerà i propri.»

Lei annuì e ringraziò ancora, quindi si diresse al camino per attizzare la fiamma. Ferraris, con le mani salde sui fianchi, si girò verso il letto, quasi a contemplare i bei ricordi che vi aveva raccolto. Poi, volgendo casualmente gli occhi attorno, notò la portafinestra; un brivido gli corse su per la schiena, si avvicinò di corsa, afferrò la maniglia e prese atto della realtà: la serratura non era scattata e la porta era rimasta socchiusa per tutto il corso dell'amplesso. Chiuse gli occhi e sussurrò qualcosa che era a metà tra una preghiera e una bestemmia, implorando il Cielo che nessuno fosse passato per di là.

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