13 luglio 1676 pt. 3

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Era ormai il tramonto; aveva camminato tanto, ramingato nelle campagne nel tentativo, o nella speranza, di raggranellare qualche pensiero ragionevole sul da farsi. Pentito dell'ultima stoccata, ma risoluto a mantenere la propria posizione, si era ritrovato per caso sulla strada sterrata per Trestalli e si era diretto laggiù per trascorrere la notte in un luogo riparato. Si sarebbe preso del tempo per riflettere sulla situazione: a mente lucida, riposata, avrebbe sicuramente pensato meglio.

Trestalli era un paese ancora più piccolo di Vallebruna: aveva giusto due locande, una stazione di cavalli, una piccola bottega di fabbro, la stamperia della Palla e quella del Fiordaliso e quattro o cinque case basse e modeste. La vita del centro abitato girava attorno alla strada maestra che la fendeva in due e che portava direttamente al valico sulle montagne che segnavano il confine meridionale del ducato: le due locande alloggiavano i viaggiatori, le due stamperie producevano libri per l'esportazione, il fabbro rimetteva a nuovo carri e carrozze e forgiava nuovi ferri per gli zoccoli dei cavalli. Ottavio, giunto lì sul far della sera, trovò un brulichio di persone fuori dalla porta dell'Oca storta e decise che avrebbe alloggiato in una delle sue camere. Si affrettò a entrare, anche perché, dopo tanto camminare, il suo stomaco brontolava.

Sedette a un tavolino solitario, ma l'oste lo notò subito e gli mandò una giovane cameriera dai capelli ramati che gli servì una brocca di vino accompagnata da una scodella piena di zuppa.

«Si potrebbe avere del pane?» le domandò prima che lei si dileguasse. E, ottenuta una pagnotta già possa, sorseggiò dal bicchiere e cominciò a mangiare. La zuppa era terribile, i sapori non erano dosati e per di più era salata, in barba al costo del sale. Tuttavia, la inghiottì a forza fino all'ultima cucchiaiata, aiutandosi con il vino. Quando fu sazio, poté distogliere l'attenzione dal piatto e dedicarsi all'osservazione: la locanda aveva il soffitto piuttosto basso, il che conferiva un aspetto di ristrettezza e soffocamento. Come se ciò non fosse sufficiente, l'ambiente era ingombro di oggetti di ogni sorta, bicchieri, calici, pinte, botti, sgabelli, tavoli... non c'era angolo dove si potessero posare gli occhi senza che vi fosse niente. E sul pavimento si distendeva un tappeto di sporcizia, soprattutto cibo caduto dai tavoli o vino rovesciato tra brindisi e insulti. Si provvedeva ad asciugarlo con la segatura, ma il tutto rimaneva abbandonato sul posto, accumulando spazzatura a spazzatura. E non mancavano gli animali: a un tratto, un bastardino di taglia media, spelacchiato, passò tra le tavolate elemosinando qualche boccone mentre un gatto, animale troppo superbo per mescolarsi alla gentaglia, contemplava da un davanzale l'avvicendarsi dei clienti e delle cameriere. L'oste era il re del bancone, sul quale si appoggiava con alterigia mal celata da affabilità, le braccia aperte e le mani salde sul piano, le spalle un poco inclinate in avanti.

Ottavio si ritrovò perfettamente nella descrizione che Ferraris aveva fatto di Cecco Stracci pochi giorni prima; ma si riscosse e ricacciò indietro quel ricordo, per non vedersene piovere addosso una quantità insopportabilmente dolorosa. Fino alla mattina dopo non avrebbe dovuto pensare a nulla, perciò ordinò una nuova brocca di vino e la tracannò in quello che gli parve un batter d'occhio.

Guardandosi nuovamente attorno con la vista offuscata e la mente confusa, il marchese cominciò a figurarsi scene insolite: d'un tratto l'odore stantio della locanda gli sembrava familiare, così come il colore grigiastro delle pareti attaccate dalla muffa; anche il cane aveva un che di già visto e, quando ebbe l'occasione di accarezzarlo, lo fece volentieri, perché gli piacevano i cani. E quello lo annusò, scodinzolò e completò due giri attorno al tavolo per poi poggiare le zampe sulle ginocchia del giovane uomo che gli accordava più confidenza di quella a cui era abituato.

«Dovresti chiamarti Argo, e io Ulisse», constatò, non così ubriaco da dimenticare uno dei passi preferiti dell'Odissea. Il cane abbaiò, quasi che avesse capito, e Ottavio risentì all'orecchio la voce di Ferraris che lo rimproverava: «Non accarezzatelo, ha le pulci!»

Volse lo sguardo alla sedia vuota di fronte, e notò che Ferraris sedeva lì. Tuttavia, non ne era sorpreso; sarebbe stato più sorpreso, anzi, se quella sedia fosse stata vuota. Ebbe un capogiro e si appoggiò allo schienale, batté le palpebre una o due volte, poi riabbassò gli occhi e la sedia era vuota, com'era giusto che fosse.

Era tempo di andare a dormire, o con tutto quel vino in corpo avrebbe combinato qualche guaio: in genere, quando eccedeva nel bere, gli capitava sempre qualche fatto memorabile. E stavolta era il caso di evitare che accadesse. Dunque si alzò, reggendosi al tavolo, e si avviò al bancone.

«Vorrei una camera per stanotte, vi pago domattina che sarò più lucido», disse d'un fiato, aggrappandosi con tutte le forse al piano ligneo umido di vino. Voltò il viso da una parte e vide la cameriera rossa a un tavolo: due individui di dubbia moralità la stavano corteggiando, mentre un terzo, in piedi, le accarezzava il collo.

«Se cercate compagnia, dovrete scegliere un'altra cameriera, perché a quanto pare lei ha già degli amici», borbottò l'oste, notando quale fosse l'oggetto della sua attenzione. Ottavio, però, scosse il capo e domandò: «Perché, d'un tratto, tutte le donne sono diventate sgualdrine?»

«Perché in fondo lo sono...» rispose quello, aggiungendo: «Le camere singole costano di più, se volete risparmiare vi conviene dormire nello stanzone al secondo piano...»

«Mi spetta la stanza singola», replicò, quasi risentito. L'oste lo squadrò, quindi ripeté: «Vi spetta?»

«Io... Io sono...» cominciò, ma un barlume di ragione lo trattenne dal continuare; poi, gettando un'occhiata al borsello, concluse: «Io sono uno che può pagare».

«Allora pagate subito.»

Sbuffando, Ottavio trasse dal borsello il corrispettivo di una notte, constatando amaramente che con quanto gli restava avrebbe pagato le due brocche di vino e la miserabile zuppa salata. Per un attimo rimpianse le zuppe di Galatea, anche i primi tentativi; ma gli tornarono in mente le parole di Bastiano e le visioni che avevano generato. Scosse ancora la testa e l'oste, tendendogli una chiave, ne rise: «Volete che vi porti a braccetto fino alla porta?»

«Non scherzate, sto benissimo», ribatté sdegnato, avviandosi verso l'androne delle scale, scostando chiunque incontrasse sulla strada. Tenne stretto il corrimano, mentre saliva, e intanto studiava la chiave, per capire quale porta avrebbe aperto. Giunto al primo piano, provò tutte le serrature finché non trovò quella giusta e, una volta dentro, si barricò nella stanza buia. Vagò fino al letto, ci si coricò supino, intrecciò le dita sul grembo e chiuse gli occhi senza nemmeno slacciare la cintura.

*

A Vallebruna, intanto, Ferraris era risalito in casa, trovando Galatea prostrata dal confronto; era accovacciata in un angolo, respirava appena e talvolta singhiozzava scuotendosi tutta. Bisbigliava qualcosa, ma tanto piano da risultare impercettibile. Solo quando le fu davanti riuscì ad afferrare un: «Francesco». Massaggiandosi lo zigomo contuso, si accovacciò accanto a lei e, cautamente, le prese una mano. Lei gli si sottrasse con un gesto brusco e, per chiarire, scalciò due volte traendosi ancor più da parte. Ferraris si morse il labbro, sospirò e si tolse la benda, quindi appoggiò la testa al muro e fissò il soffitto senza dire una parola.

«Non ascoltarla», sussurrò dopo parecchi minuti di silenzio ininterrotto. Galatea, che aveva nascosto la testa tra le braccia, lo guardò di sottecchi e replicò stizzita: «Non dovrei ascoltare chi?»

«Quella voce che ti dice le cose peggiori che tu possa immaginare. Ti chiedo uno sforzo enorme, lo so, ma pensa a ciò che è successo come se ne fossi estranea.»

A Galatea sfuggì un risolino di compatimento, poi, rigirando il dito nella stoffa del vestito, constatò: «Una ragazza ha perso un bambino, poi ha perso il marito, poi ha trovato un amante, poi ha perso tutto». Ferraris arcuò le sopracciglia: «Non mi pare che la sequenza sia proprio questa».

«Come fai a dirlo?»

«Semplice: ho origliato», confessò, poi, con un'alzatina di spalle, si giustificò dicendo: «Sono una spia, è un'abitudine per me».

Galatea si imbronciò, abbassando gli occhi sul lembo di vestito che torturava in mano. «Quindi ora sai tutto; non c'è altro da aggiungere».

«Manca molto materiale, invece. Manca la tua versione; credo che Ottavio si aspettasse di sentirtela raccontare, ma tu lo hai attaccato.»

«Vedi? Anche tu dai la colpa a me.»

Ferraris sbuffò divertito: «Vi somigliate, voi due». Galatea sbuffò di rimando, ma decisamente seccata. Gli lanciò un'occhiata minacciosa e disse: «Non voglio parlare di mio marito, ora. Voglio solo stare in pace».

«Non ho intenzione di assecondarti», la sfidò, e riprese: «Quando Ottavio tornerà, sarà il tuo turno di parlargli di quel giorno».

«Ottavio non tornerà da una come me. Melancolia aveva ragione: non mi ama, non mi ha mai amato. E ora che l'ho tradito, non gli servo più nemmeno come moglie. È stato al bordello, è andato con le prostitute, perciò è sistemato. Figli, forse, non ne vorrà più. Lo spero.»

«Fai quell'esercizio che ti ho detto: guarda la situazione dall'alto, come la guarderebbe Nostro Signore; non come la guarderebbe quella lingua biforcuta che ha sbandierato i fatti nostri a tutto il paese.»

La campanella squillò all'improvviso; entrambi sobbalzarono, tirandosi in piedi. Il fantasma di Ottavio era ancora così palpabile nella stanza che, per un attimo, guardandosi negli occhi, temettero che fosse lui, che fosse tornato, e che li avrebbe scoperti nuovamente insieme. Questo timore pervase Galatea che, senza pensarci troppo, spinse Ferraris nella camera da letto, con la raccomandazione di scappare sul balconato nel caso si fosse trattato di suo marito. Corse poi alla finestra, si sporse dal davanzale e guardò di sotto: di Ottavio non c'era nemmeno l'ombra, così come non si vedevano in giro facce familiari. La campanella suonò di nuovo e lo sguardo di Galatea piombò sul portone d'ingresso, all'altro capo della catenella che metteva in movimento il sistema.

Vide un uomo robusto, i capelli corti e radi, vestito con abiti consunti e sudaticci; guardava in su, verso il piano superiore, perciò suppose che, nel peggiore dei casi, cercasse Ottavio.

«Buonasera, chi cercate?» lo chiamò, pregando che dicesse il nome di uno dei suoi vicini di casa. Quello sembrò scorgerla solo allora, mosse la mano in un gesto di saluto e le rispose a voce alta e chiara: «Cerco Tommaso Ferrarini, signora. Abita lì?»

Un brivido la percorse tutta; tuttavia, mantenendo il controllo su di sé, replicò sporgendosi un poco dal davanzale: «Sì, ma non è in casa. Chi lo cerca?»

«Buonasera, signora, onorato di conoscervi!» e, prima che potesse presentarsi, Ferraris sussurrò dietro Galatea: «È Bastiano, maledizione!»

Lei non fece in tempo ad afferrare quelle parole, che l'uomo in piazza riprese: «Sono un collega di vostro marito, Bastiano; ho del materiale da lasciargli».

Galatea esitò: avrebbe voluto dirgli di tornare un altro giorno, ma se si fosse sparsa la voce che Ottavio aveva lasciato il tetto coniugale il paese ne avrebbe parlato per un bel pezzo, rendendo la loro vita un inferno.

«Scendo subito!» disse, accennando al portone. Bastiano annuì, ma Ferraris non fu affatto d'accordo. La fissò a braccia incrociate mentre si accostava alla soglia e, al suo polemico: «Cosa c'è?» rispose: «Non è una buona idea. Ti seguo per sicurezza».

Galatea fece spallucce con aria spavalda, si asciugò le guance e tirò il chiavistello. Scese le scale piano piano, senza alcuna fretta, tenendo la gonna sollevata per non inciampare; dietro di lei, i passi felpati di Ferraris. Affiancando la porta che dava sul cortile interno, la socchiuse il tanto da poter chiamare: «Ludovica, Giovanni, salite di sopra!»

Poi proseguì verso il portone, prese un sospiro e lo aprì. Bastiano la sovrastava di una spanna in altezza ed era il doppio di lei in quanto a corporatura. Entrambi si squadrarono, uno con interesse, l'altra con diffidenza.

«Date a me; mio marito sta riposando», disse, senza concedere nessuna confidenza. Bastiano trasse da una borsa che portava a tracolla un involto di panni fermato da due fili di spago. «È il manoscritto per la revisione».

«Vi ringrazio; penso che mio marito lavorerà da domani, quindi non verrà in stamperia.»

«Certo, certo, si capisce!» convenne lui, facendo per andarsene. Aveva assolto l'incarico e, con gran sollievo di Galatea, non aveva fatto cenno ai problemi alla bottega nel pomeriggio. Poi, però, Bastiano si volse indietro e la trattenne: «Salutatemi vostro marito, signora. Mi spiace che oggi non si sia sentito bene, spero si ripreda in fretta».

«Lo spero, grazie», tagliò corto, non volendosi esporre troppo. Chiuse il portone e, sforzando gli occhi nella penombra, scorse la figura di Ferraris poco più indietro. Fece spallucce e sospirò, mostrando il faldone: «Il lavoro mi distrarrà un po'. Anche se...»

Salirono in silenzio i primi gradini, poi lui le mise la mano sulla spalla e sussurrò: «Andrò a cercarlo, domattina. Non preoccuparti, non gli capiterà nulla di male».


***

Angolo Autrice

Ciao a tutti e scusate il ritardo!

Con l'arrivo delle vacanze, purtroppo, non posso garantire la regolarità della pubblicazione... Farò il possbile!

Nel frattempo godetevi l'estate!

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