13 luglio 1676 pt. 2

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Ferraris era seduto a tavola, intento a leggere gli appunti sul suo quadernetto. Galatea si stava riposando dopo aver ripulito la cucina; faceva caldo, quel giorno, perciò aveva preparato un secchio d'acqua e, di tanto in tanto, vi intingeva un fazzoletto che poi strizzava e si adagiava sulla fronte o sui polsi, per rinfrescarsi. Lui, a volte, le lanciava occhiatine maliziose, ma lei non le coglieva quasi mai. Non che avesse cessato di attrarla con quel suo fascino da soldato astuto e coraggioso; e nemmeno il senso di colpa le istillava quel comportamento indifferente. La questione era tanto semplice quanto complicata: aveva Ottavio per la testa.

Ottavio, Ottavio e solo Ottavio. Ferraris la guardava assorto in pensieri impudichi e lei dedicava quegli stessi pensieri al marito; Ferraris la sfiorava e lei immaginava che fosse suo marito a sfiorarla. Chiudeva gli occhi e lasciava correre la fantasia dietro ai ricordi; spesso, però, i ricordi vincevano la fantasia stessa. La sua memoria le restituiva momenti di una vita che non le sembrava nemmeno la sua, tanto erano mutate le sue condizioni in poco tempo. Chiudeva gli occhi e non vedeva più Melancolia, ma Ottavio, nudo o quasi, e desiderava ardentemente averlo lì, con la dolce sensazione di titubanza degli amanti. Se fosse stato lì, che cosa gli avrebbe fatto? Che cosa gli avrebbe chiesto? Fino a che punto si sarebbero spinti insieme?

E pensare che talvolta se lo rivedeva di fronte diacono al loro primo incontro, risentiva lontane le preoccupazioni circa il loro futuro matrimoniale. Invece erano arrivati tre figli e la passione non si era mai placata. Fino a che, quel febbraio...

La porta si aprì in un lampo; Ferraris drizzò la testa con aria sbigottita, Galatea si volse di scatto e rimase immobile come una statua. Ottavio, irriconoscibile in viso per l'aspetto turbato dei suoi occhi e dei suoi lineamenti nella collera più tremenda, li osservava con la maniglia ancora stretta in mano.

Un brivido freddo percorse la stanza, che all'improvviso divenne troppo piccola per tutti e tre. Ferraris si alzò in piedi con prudenza, riponendo il quadernetto da una parte, e assunse un atteggiamento conciliante, benché sapesse per certo che Ottavio fosse disposto a tutto, meno che alla riconciliazione pacifica.

Il marchese, infatti, sbatté l'uscio dietro di sé, fece qualche passo avanti, poi, gli occhi infossati, scandì: «Tu», puntando il dito indice. Ferraris trasalì, sussultando leggermente indietro, come se quel dito puntato l'avesse spinto. Non era la prima volta che si trovava ad affrontare un marito tradito, ma stavolta sarebbe stato diverso e lo capì da quella prima parola pronunciata. Non era solo un marito tradito, era un amico. E, nel fare ciò che aveva fatto, aveva pensato anche al suo bene, ma questo non avrebbe potuto spiegarglielo.

«Ottavio...» singhiozzò Galatea, tenendosi da un canto. Ottavio, però, la ignorò, focalizzandosi solo sull'altro uomo presente. «Tu,» ripeté, «hai qualcosa da dire, prima che ti ammazzi?»

Ferraris deglutì e abbassò lo sguardo. Il marchese, incalzato dal suo silenzio, si mosse con agilità, gli arrivò di fronte, lo afferrò per il bavero e lo sollevò da terra, per poi lasciarlo ricadere di lato. L'altro incespicò, ritrovò l'equilibrio senza aiuti o sostegni, e fece per voltarsi; Ottavio fu più veloce, aizzato dall'ira, e lo colpì con un destro allo zigomo. Galatea urlò, Ferraris cadde; Ottavio lo rimirò ergendosi altezzoso e offeso come solo un nobile d'alto lignaggio può permettersi di fare.

Ferraris, però, non era stato educato a ricevere senza ricambiare; perciò, nonostante fosse il primo a riconoscere la propria colpevolezza, si rimise in piedi e attaccò a propria volta, afferrando l'avversario per il polso e affondando il pugno nel suo diaframma; Ottavio tossì, ma, nella foga, riuscì ad aggrapparsi alla camicia di Ferraris e ad atterrarlo sotto di sé nella caduta. Quello lo percosse con una ginocchiata all'altezza del fegato e lui, avendolo ancora stretto per il bavero, lo strattonò e lo schiantò sul pavimento. Ferraris sanguinava dal naso, Ottavio ansimava per il lancinante dolore all'addome e per i postumi della rissa con Bastiano.

Alla fine, tra gli strilli e i singhiozzi di Galatea, l'intrico si sciolse, Ferraris sgusciò da sotto e si diresse alla porta, salvo poi fermarsi e offrirsi a un nuovo scontro. Ottavio si rialzò a fatica, appoggiandosi alla parete più vicina. Si guardarono per un tempo che parve infinito; a un certo punto, il marchese bisbigliò: «Vattene seduta stante da questa casa». E Ferraris, con il cuore in pezzi, trasse un respiro sprezzante e obbedì.

*

«E tu,» riprese Ottavio, rivolgendosi a Galatea, «non hai nulla da dire?»

Galatea, in quel momento, piangeva un pianto silenzioso, fatto di lacrime e preghiere sussurrate; aveva le mani giunte sul petto e il viso contratto, rosso e pallido allo stesso tempo. Ottavio non si impietosì guardandola. Sedette alla sedia più vicina per riacquistare un po' di energia e per dar pace al corpo martoriato. Tuttavia, il suo sguardo rimase fisso su di lei, inquisitore.

«Non hai nulla da dire a tuo marito?!» sbottò. Galatea l'aveva sentito urlare raramente per la rabbia e le faceva una grande impressione quando capitava; non ebbe il coraggio di ricambiare il suo sguardo, rimase china, piccola e spaventata. Ancora una volta, lui non provò compassione per lei, avendo quel fuoco ruggente dentro di sé, un fuoco che, con il proprio ruggito, inghiottiva qualsiasi altro pensiero che non fosse rabbia, offesa e risentimento.

Galatea tremò, si strinse in un abbraccio, poi confessò: «Ti ho tradito, se è questo che vuoi sentire».

Ottavio batté una mano sul tavolo. «Questo lo so già; lo sanno tutti in questo maledetto paese e io, stupido illuso, sono stato l'ultimo a scoprirlo», replicò, senza abbassare il tono di voce. «Chissà da quanto tempo si racconta di voi due, chissà da quanto le vostre prodezze amorose viaggiano in bocca a questi villani. Siamo diventati lo zimbello di tutto il paese, Galatea.»

Galatea fremette, venendo a sapere che quella che girava non era solo una semplice chiacchiera, ma un racconto arricchito di dettagli succulenti per quei pettegoli. Un nuovo scoppio di pianto la sopraffece e per un istante temette di svenire; ma superò quell'istante e tornò a lamentarsi sommessamente, rigirandosi le mani in grembo.

«Non dirmi che ti ho fatto mancare qualcosa, Tea», continuò, ma a voce più bassa, quasi confidenziale. «Non dirmi che ciò che ho fatto non è bastato, perché tutto ciò che ho fatto l'ho fatto per te.»

A quelle parole, Galatea si riebbe e anche in lei cominciò a montare la collera; la sua, però, non era subitanea, ma maturava da mesi nel silenzio della sua anima ferita, tessuta e ricamata dalle mortificazioni di Melancolia. Trovò strano che, in quell'esatto momento, non ne sentisse la voce: non si accorse di essere lei stessa la sua Melancolia.

«Che cos'avresti fatto, dunque? Forse non sono stata abbastanza attenta.»

Quel tono di sfida ben si adattava alla sua espressione livida; lo guardò dal sotto in su, i denti stretti e la mascella dura. Ottavio corrugò la fronte, strinse la presa attorno allo schienale della sedia e ribatté: «Non usarmi di questi modi, Galatea. Il tuo sarcasmo mi irrita».

«Mi dispiace,» lo prese in giro, staccandosi dal muro per farglisi incontro, «ma temo che non potrò farne a meno.»

Ottavio sbuffò rivolgendole uno sguardo truce, poi piegò la testa da parte e sussurrò: «Da quanto...?»

«Da mercoledì», rispose, smettendo le maniere indisponenti per altre più morbide. Lo vide chiudere gli occhi, passarsi una mano sulla fronte, esitare a parlare ancora. Sospirò e chiese a propria volta: «Vorresti farmi credere che non te ne fossi accorto?»

«Me ne ero accorto, infatti», ammise, ancora ad occhi chiusi.

«E perché non ci hai affrontati subito? Tutta questa furia da cosa ti viene?»

«Tu eri di nuovo felice, Tea. E finché non ne avessi avuta la certezza, avrei potuto illudermi che tutto andasse bene di nuovo.»

«Eri disposto a perdermi?»

Capì di essere messo alla prova da lei con una domanda all'apparenza banale. La risposta sgorgò sincera dalle sue labbra: «No, certo che no. Temevo anzi di perderti facendo il geloso; so che non ti piace, perché spesso esagero. Ho solo pensato che per il momento avrei potuto dedicarti le mie attenzioni aspettando».

«Aspettando?»

«Aspettando che tu mi amassi come prima.»

Galatea gli volse le spalle per celargli gli occhi lucidi. Aspettare? Ecco che cos'aveva fatto per lei in tutto quel tempo: non aveva provato a lenire le sue sofferenze, aveva solo aspettato, atteso che passassero da sole, come un raffreddore. Si sfiorò il grembo, soffocò un lamento tappandosi la bocca con la mano; udì il rumore delle gambe della sedia contro il pavimento e intuì che si era alzato, forse con l'intenzione di avvicinarsi; ora, però, lo detestava tanto quanto prima l'aveva desiderato. Si voltò sdegnosa, storcendo addirittura il naso, ma lui la colse impreparata dicendole: «È giunto il momento di parlarne».

Ottavio si era sforzato di pronunciare quelle parole e, una volta fatto, si sentì come un uomo che si è appena gettato in un dirupo dal fondo oscuro. E ugualmente scuro era tornato il viso di Galatea, e lo spaventò. Tuttavia, ormai l'aveva detto, aveva scoccato la freccia.

«Io non ne parlo con te, visto che sei scappato», gli rinfacciò con la voce roca di Melancolia. D'un tratto si innervosì, afferrò un vasetto di terracotta e lo scagliò a terra, tra i piedi di Ottavio, per intimorirlo. Lui, però, non si arrese: «Ne dobbiamo parlare».

«Vigliacco!» lo aggredì. «Tu mi hai lasciato sola, mi hai abbandonato, hai finto di non vedermi mentre non facevo altro che piangere, e mi strappavo i capelli, mi graffiavo le braccia, e tu non c'eri!»

Ottavio, di fronte a tutte quelle accuse, avvertì una pressione pesantissima su di sé e non riuscì a trattenersi: «Credi sia stato facile, per me, solo perché sono un uomo e ho il dovere di mostrarmi sempre al di sopra di tutto ciò che mi accade?! Davvero mi conosci così poco?!»

Galatea tacque, ma non perché avesse cambiato opinione; più lo guardava, più lo odiava. Non dava credito nemmeno a una parola.

«Eravamo a letto, ti ricordi? Eravamo contenti e io ti accarezzavo il pancione; poi, all'improvviso, hai urlato. Perdevi sangue. Ho chiamato la servitù, ma non c'erano levatrici a palazzo quel giorno. Pioveva. A dirotto. E non sarebbero mai arrivate in tempo», prese a raccontare. Galatea si rivide in una stanza in penombra, con il suono della pioggia che batteva insistentemente contro le finestre. Le coperte li tenevano al caldo e la sensazione della mano sulla pancia la rilassava.

«Il bambino non ce l'avrebbe fatta. La gravidanza era stata subito complicata e perciò stavi molto tempo sdraiata e io venivo a trovarti. Quel giorno sembravi stare bene, fino all'emorragia.»

Il ricordo del sangue le riportò alla memoria anche l'odore intenso che aveva respirato per i tragici minuti seguenti. Anche Ottavio, nell'aiutarla a sedersi, si era macchiato i vestiti; l'aria di terrore che gli turbava il volto l'aveva spaventata più del dolore stesso. Quando le avevano detto che non c'erano levatrici a disposizione, il suo cuore era sprofondato nel panico.

«Temevo che saresti morta», disse Ottavio, scandendo ogni sillaba di quella frase. Galatea abbassò ancora di più la testa, mordendosi le labbra e conficcandosi le unghie nella carne delle braccia che teneva incrociate sul petto. Lui andò avanti: «Ti abbiamo fatta sdraiare, poi le donne mi hanno allontanato verso la porta, per farmi uscire...»

«E hai creduto bene di scappare», lo interruppe con aria saccente.

«No», la contraddisse. «Sono rimasto, ma tu eri troppo agitata per accorgerti di me. Non avevo mai sentito urla tanto strazianti, Tea. E continuavo a ripetermi che se fossi morta tu sarei morto anch'io.»

Di fronte al suo ostinato silenzio, dovette riprendere il racconto da solo e, più scorreva avanti, più gli sembrava di star parlando a se stesso: «Poi è nato; le donne si sono messe a strillare, passandosi il bambino dall'una all'altra. E tu ansimavi, bianca come il latte, Tea, e poi l'ho visto: paonazzo, anzi, blu, che si dimenava tra le mani delle serve...»

«Chiamalo con il suo nome, Ottavio», lo interruppe di nuovo. Alzò gli occhi, questa volta, e lo scrutò torva come un demone: «Aveva un nome, quel bambino. Noi l'avevamo già scelto».

Con enorme, immensa fatica, Ottavio annuì, prese un respiro ed esalò: «Francesco».

Galatea, che udiva quel nome per la prima volta dal pomeriggio di febbraio tornato all'improvviso così vicino, si contorse, tenendosi la pancia, come a schermarsi. Ottavio boccheggiò, ma, quando riaprì gli occhi, essi erano lucidi di pianto.

«C'è una cosa che non sai, Tea», constatò con un sorriso malinconico disegnato con l'essenzialità di un tratto di matita. «Io, Francesco, l'ho preso in braccio. Sono io che l'ho portato via da quella stanza».

«Perché l'hai fatto?» bisbigliò esterrefatta, poi, di nuovo colma di rabbia e frustrazione, lo accusò: «Me lo hai strappato, il mio bambino!»

Ottavio sentì una fitta al cuore, ma negò: «Non respirava; anche le manine si muovevano con meno vigore, dopo che le donne avevano reciso il cordone ombelicale. Sono piovuto su di loro e gliel'ho preso, perché sentivo di doverlo portare via da te, per proteggerti. Non chiedermi di più, è stata una decisione istintiva, come se qualcun altro me l'avesse ispirata. In ogni caso, avevo il bimbo tra le braccia, avvolto in fasce, e mi avviai verso la cappella di corsa, rischiando di scivolare sul pavimento e cadere. Sono arrivato alla cappella, mi ci sono chiuso dentro con tanto di chiavistello, quindi ho spalancato il fonte battesimale. Non potevo fare niente per lui, per mio figlio, e sapevo che di lì a poco non sarebbe stato più. Sussultava, crollava la testa da una parte all'altra, ma sempre più debole. Ho preso un po' d'acqua nel palmo della mano e ho detto: "Ego te baptìzo in Nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti", versandogliela tre volte sulla testa. Subito dopo mi sono accasciato a terra, ho stretto il bambino e credo di aver perso i sensi. Quando mi sono svegliato, il piccolo non era più e il cappellano batteva forte alla porta».

Silenzio, poi: «Ho cercato di essere un buon padre per lui», tremò la voce di Ottavio.

E ora che Galatea sentiva gli occhi aridi, Ottavio piangeva senza freni, ma silenzioso, nonostante gli sfuggissero sottilissimi gemiti. Lei lo fissava, mentre lui si copriva il viso con le mani, e non ne provava nessuna pietà; il suo cuore si era come fermato nel corso di quel terribile racconto, non aveva più spazio per le emozioni più naturali. Era diventata di ghiaccio.

«Sei stato egoista, invece», fu la prima cosa che disse, una volta ripresasi dallo sgomento.

«Come?» balbettò, sperando di aver capito male.

«Sei stato un egoista, Ottavio. Io, sua madre, non ho potuto nemmeno vederlo; non ho potuto stringerlo, non ho potuto cullarlo. Tu mi hai impedito di dirgli addio.»

Anche il cuore di Ottavio, a quel punto, si indurì: «Questo non ti autorizza ad andare a letto con un altro uomo».

«Forse sì, forse sì», ribatté. «Io per te non conto nulla; valgo solo perché posso darti figli. È per loro che ti preoccupi, non per me che sono la loro madre e la tua sposa.»

Non erano parole sue: era nuovamente Melancolia a parlare, a vomitare simili scelleratezze che mai, mai Galatea avrebbe creduto vere fino in fondo. Ottavio strabuzzò gli occhi, strinse i denti e si alzò: «Bene, allora vuol dire che me ne andrò. Non ti voglio annoiare con la mia odiosa presenza; avrei dovuto farlo tempo fa, quando ho capito che avevi preso a detestarmi senza motivo. Avrei dovuto andare via, sì, e fare come hai fatto tu. O meglio, avrei dovuto farlo tempo fa».

Afferrato il proprio borsello, che solitamente teneva sul ripiano del camino, il marchese si avviò verso la porta a passo deciso.

«Che cosa vorresti dire?» lo inseguì la voce di Galatea; la vera Galatea, che la preoccupazione aveva liberato per un istante dal folle governo di Melancolia. A malapena si voltò a risponderle: «Dico che il bordello di Vallebruna offre ragazze di ottima compagnia». E, con questo, chiuse la porta alle proprie spalle.

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