15 luglio 1676 pt. 9

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Entrata nel mulino, Galatea ebbe il tempo di una rapida occhiata intorno: i macchinari erano stati smontati e trasferiti e la stanza risultava molto ampia, ma allo stesso tempo ingombra di sporcizia. Foglie secche, ristagni di muffa, escrementi di animale in ogni dove. E, quel che era peggio, impronte insanguinate sulle pareti: non le riconobbe subito come tali e probabilmente un occhio distratto le avrebbe scambiate per aloni di umidità sull'intonaco grezzo. Non appena le distinse, la sua angoscia si rinnovò; si volse ed ecco, Bastiano ingombrava l'uscio aperto con la sua imponente stazza e la fissava con un'espressione bestiale. Le tremavano i denti dalla paura e le mani le sudavano, tuttavia si sforzò di dire: «Pietà, ti prego... Non ti ho fatto nulla...»

Bastiano mosse due passi; sembrava un orso e grugnì proprio come un orso mentre si avvicinava. Galatea indietreggiò e, disattenta, inciampò in un ramo abbandonato a terra. Non cadde, ma la distrazione servì al suo aguzzino per avvicinarsi ancora e più incombente di prima.

«Ti conviene lasciarmi andare...» riprese lei, tentando la via delle minacce. «Io non sono una serva e mio marito non è un diseredato.»

«Ah, no?» bofonchiò, lasciando cadere il coltello. Galatea scosse energicamente il capo e lui le domandò: «E chi sareste?»

«Mio marito è il marchese Ottavio Edoardo Malancisi della Stella, fratello del duca Antonio II; e io sono sua moglie.»

«Se così fosse, il marchese sarà presto vedovo.»

«No!» trasalì. «Perché? Che cosa ti ho fatto io?! Ho tre bambini, Bastiano, tre bambini!»

Il pianto divenne ingovernabile, gli spasmi della paura si trasformarono in vere e proprie crisi di panico. Ciò non bastò a impietosire il rapitore e, anzi, lo eccitò ancor di più.

«Non mi importa niente dei tuoi bambini; potresti averne anche dieci, ma non farebbe differenza.»

Galatea, a forza di rintanarsi, si era trovata con le spalle al muro. Bastiano la vide indifesa e, con le mani stese avanti, la afferrò per il collo per strangolarla. Lei non ebbe né il tempo né la forza di urlare, quasi fosse un agnellino al macello. Le mancò subito il respiro e si aggrappò come poté alle braccia di chi la stava uccidendo.

Il randagio si affacciò in quel mentre nella stanza; accanto a lui si ergeva Fortuna. Con un'impassibilità disarmante, ella accarezzò il randagio per qualche istante. Galatea si dimenava, mentre Bastiano dominava la situazione senza scomporsi minimamente. Il randagio alternava ringhi e guaiti, avanzando e indietreggiando. Fortuna pose la mano sul suo dorso, si volse a guardare l'esterno, poi si accucciò e si protese all'orecchio del cane. Sussurrò solo: «Attacca!» e l'animale, d'impulso, fece quattro salti e balzò sulle spalle di Bastiano, azzannandolo alla spalla. Lui lasciò la presa, Galatea barcollò e cadde a terra; il sangue le gocciolò sul viso e sul vestito, ma la testa le girava talmente forte che non se ne rese conto. Il cane, scivolato dalla schiena di Bastiano, gli aveva morso la caviglia e non accennava a mollare, nemmeno dopo i calci, nemmeno dopo i pugni. Galatea si passò una mano sulla fronte e respirò a pieni polmoni, quindi, rialzatasi carponi, urlò, e urlò come poté, nonostante l'acuto dolore alla gola e il rimbombo che le investì le tempie.

Dopo il primo grido non si fermò più; il cane aveva cambiato la caviglia con la gamba di Bastiano e questi lo colpiva furiosamente senza ottenere nulla. A un tratto, caduto a terra, arrancò con le mani e si ritrovò con il coltello tra le dita; non esitò un momento di più. Un guaito straziò il cuore di Galatea mentre il randagio si accasciava al suolo.

Bastiano, invece, si rimise in piedi scrollandosi di dosso foglie secche e polvere. Galatea rabbrividì a vedere il suo viso macchiato di sangue, l'espressione ferina che vi era impressa. Brandiva ancora il coltello e, cacciato un urlo, le si avventò contro con l'intento di trafiggerla, ma il dolore alla gamba lo fece incespicare, permettendo alla vittima di schivare il colpo. In quel frangente terribile, una sagoma nera si affacciò alla porta e Galatea temette il peggio.

*

Mentre Ottavio si allontanava come un condannato votato al sacrificio, Ferraris infilò in tasca gran parte delle cartucce, tenendone una soltanto. Imbracciò il moschetto, ritrasse il cane e, con la mano sinistra, abbassò la martellina per scoprire il bacinetto. Portò la cartuccia alla bocca e ne strappò un lembo con i denti per poi sputarlo tra l'erba. La mano gli tremava, ma questo non gli impedì di versare la giusta quantità di polvere nel bacinetto. Sistemata di nuovo la martellina, posò a terra il calcio del fucile e incastrò la cartuccia nella bocca da fuoco: polvere, pallottola e stoppa, senza risparmiare nulla. Sfilò il calcatoio e diede tre colpi forti giù per la canna, quindi lo rimise al posto e si preparò con il moschetto appoggiato alla spalla.

Non impugnava un'arma da fuoco dal giorno dell'incidente: tale prova di virilità gli veniva risparmiata anche durante le battute di caccia poiché, con il solo occhio sinistro, avrebbe avuto ben poche possibilità di centrare il bersaglio. In ogni caso, non era la mancanza di esercizio a spaventarlo, quanto altre paure, più recondite e infide.

Era vero, quel moschetto era funzionante, sottoposto a continuo uso e manutenzione; l'archibugio, invece, era stato un esemplare datato, mal tenuto e difettoso. Non avrebbe dovuto temere un nuovo incidente, pure temeva; e temeva, d'altro canto, che quell'occhio in meno gli costasse la vita di un amico o di un'amata. In entrambi i casi, un incubo da cui non si sarebbe più svegliato.

Ma se lui avesse ceduto alla paura di fallire o alla paura di soffrire, le conseguenze sarebbero state comunque terribili e le avrebbe percepite come una propria responsabilità. Strinse la presa sulla canna, aggiustò la mira guardando alla porta buia in cui Ottavio era sparito e attese.

*

Ottavio si gettò senza riflettere su Bastiano, approfittando del fatto che stesse dando le spalle alla porta. Lo sentì bestemmiare il Cielo mentre franava sotto il suo peso e udì, contemporaneamente, il grido spaventato di Galatea. Il repentino passaggio dalla luce alla penombra gli costò la prontezza di disarmare la mano di Bastiano e questi, con un colpo di reni, riuscì a girarsi sulla schiena benché l'avversario gli stesse sopra a cavalcioni. Menò avanti il coltello e Ottavio poté schivarlo solo traendosi indietro. La risposta, però, non si fece attendere, e il pugnale di Ferraris incrociò la lama sguainata dell'altro con uno scivolio inquietante. Galatea, che si stava riprendendo dallo spavento, adocchiò in un angolo un ramo piuttosto robusto e pensò immediatamente di procurarselo. Non teneva in considerazione la quantità di sporcizia che l'avrebbe ostacolata e, risoluta nella disperazione, mosse il primo passo alla cieca, affondando in un cumulo di foglie marce. Trasalì, si poggiò al muro e ritrasse il piede, tastando il terreno.

In quel frangente, Ottavio disarmò Bastiano e sollevò il pugnale sopra la testa per tempestarlo di fendenti mortali, ma quello fu pronto a sollevare le braccia e ad afferrargli il polso. Nello slancio, Ottavio si sbilanciò in avanti e Bastiano lo soverchiò tentando di sottrargli l'arma dalla mano. Il marchese serrò le dita attorno all'elsa e scalciò fino a liberarsi dell'ingombrante nemico; con l'ennesimo calcio, poi, gli impedì di recuperare il coltello, ma lui, infuriato, lo afferrò per la caviglia e lo trascinò verso la porta, sperando che magari, nel frattempo, picchiasse la testa e perdesse i sensi.

Galatea, intanto, si era fatta largo tra la spazzatura e il marciume; distava ancora qualche passo dal bastone e si gettava spesso occhiate alle spalle per tener d'occhio la situazione. A un tratto, quando sporgendosi avrebbe potuto sfiorare la corteccia ruvida del ramo, vide il marito strisciare di schiena sul pavimento urlando di dolore e temette il peggio. Non fece in tempo a chiamare il suo nome, che Ottavio districò la gamba dalla presa di Bastiano e, raccogliendo le energie, balzò contro di lui, sbattendolo fuori dalla porta. Incerta sul da farsi, fu quasi sul punto di abbandonare l'intento di raggiungere il ramo, ma si trattenne non appena udì Bastiano gridare: «Vigliacco! Vi sistemo, tutt'e due!»

Non avrebbe saputo dire se la spingesse la paura o piuttosto la rabbia. Si protese, brandì il ramo e lo sradicò dal putridume che l'aveva avvolto con il tempo, quindi lo soppesò a due mani e si precipitò all'esterno, pronta a difendere se stessa e suo marito a costo della vita.

*

Ferraris era pronto in posizione di tiro: avrebbe premuto il grilletto al primo apparire di Bastiano, ma la vista di Ottavio lo raggelò. Tenne il bersaglio sotto tiro, imprecando tra i denti nella speranza che il marchese si levasse di mezzo, che si tenesse da parte per quel momento in cui avrebbe fatto fuoco. Poi si accorse che ciò gli sarebbe stato impossibile, finché Bastiano avesse stretto la manica destra della sua giacca nel tentativo di annullare i suoi attacchi con il pugnale.

Si trovava in campo aperto, senza nascondigli in cui potersi appostare, e aveva messo in conto che il rapitore lo avrebbe visto: si aspettava, dunque, che si sarebbe dileguato e lui, per colpirlo, avrebbe dovuto indovinare la direzione della sua fuga. Invece, inaspettatamente, quando Bastiano lo scorse alla propria sinistra a una distanza troppo breve, lo apostrofò col titolo di vigliacco e minacciò vendetta. Ferraris sistemò con foga di battaglia il calcio del moschetto sulla spalla, divaricò bene le gambe e digrignò i denti. Se solo Ottavio fosse riuscito a divincolarsi...

Il marchese lasciò cadere il pugnale a terra: forse era stanco, forse il peso della paura vinceva l'eccitamento della lotta. Ferraris trattenne il respiro, vedendoselo già morto davanti agli occhi; e Galatea, affacciatasi allora sulla soglia, assistette alla medesima scena arricchita di particolari tragici. La Morte Violenta da un lato, la Fortuna dall'altro a scrutarsi ostili. Temette il peggio e si portò una mano alle labbra, sgranando gli occhi.

Ottavio, come intontito, si ritrasse ora che Bastiano gli aveva mollato il braccio; questi, al contrario, si abbassava, la mano aperta verso l'elsa; e con perfetto tempismo il marchese lo colpì in pieno volto con una ginocchiata, ribaltandolo al suolo. Nello stesso momento, la Morte e la Fortuna diedero avvio al loro personale confronto: furiose come due rapaci che litigano per un boccone di carne insanguinata, non risparmiarono affondi e non si dimostrarono alcuna pietà. Lo stesso i due avversari, che, dopo un attimo di spaesamento dato dalla fatica, ripresero la rissa con spirito ancor più battagliero. Bastiano sembrava essere molto debilitato dalla ginocchiata e perdeva sangue dal naso, dalla bocca e da un ematoma esteso sulla fronte; Ottavio, insanguinato a propria volta per via di contusioni di minore importanza, soffriva un taglio dietro la nuca e qualche graffio sulle tempie. Aveva perso il vantaggio guadagnato con l'ultimo trucco, nonostante Ferraris lo incitasse a concludere con una stoccata dritta al cuore: la realtà era che Ottavio non era un assassino, aborriva la violenza e più di tutto l'omicidio. Si trovava però di fronte un uomo senza scrupoli, macchiato di delitti abominevoli, e una parte di lui giustificava la sua morte. Perciò raccolse il pugnale e lo incalzò, sempre troppo vicino per permettere a Ferraris di sparare senza temere conseguenze fatali. E a nulla valsero le urla di lui affinché si spostasse.

Bastiano indietreggiava sulle mani, ma Ottavio incombeva e, dall'espressione del suo volto, era facile intendere che l'avrebbe ucciso. Lì per lì, Bastiano avvertì qualcosa di duro sotto la mano destra e non perse altro tempo: afferrò la pietra e la scagliò alla cieca davanti a sé; un gemito strozzato fu tutto ciò che udì e ne fu entusiasta. Il marchese stringeva nella mano sinistra il braccio destro, che aveva sollevato per ripararsi e a cui era stato colpito. Il dolore lo prostrava, eppure resisteva in piedi con il pugnale stretto al petto. Bastiano ebbe tutto l'agio di rialzarsi con la solita andatura appesantita, un'altra pietra in mano, e già pregustava il dolce sapore della morte attraverso gli occhi del suo avversario, ormai di fatto impotente a reagire. Era sordo alle urla della giovane donna poco distante, era sordo alle minacce del loro amico sfregiato: quale che dovesse essere l'esito di quel giorno, l'avrebbe ammazzato per saziare i suoi istinti. Avrebbe preferito, certo, che si trattasse di una femmina, com'era abituato, ma non gli dispiaceva la prospettiva di sopprimere il vecchio collega. Alzò il braccio, pronto a percuotere con la pietra la sua fronte.

Fortuna e la Morte violenta duellavano ancora furiosamente. Galatea le teneva d'occhio con apprensione, consapevole che, finché loro fossero state impegnate, Ottavio non avrebbe rischiato la vita. Si auspicava che continuassero soprattutto allora, data la pericolosità della situazione, ma le sue speranze vennero disattese del tutto: la Morte riuscì a divincolarsi da Fortuna e si volse minacciosa, pronta a sopraffare lo sconfitto. Galatea urlò più forte che mai. Avrebbe voluto scagliare il ramo che brandiva in mano, avrebbe voluto frapporsi... non avrebbe fatto in tempo. All'ultimo momento Fortuna le parlò in un sussurro esausto, le disse solo: «Ordinagli di sparare».

«Spara! Alessandro, spara, per l'amor del Cielo!»

Ferraris, pallido come un cencio, chiuse gli occhi e premette il grilletto.




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