17 luglio 1676

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Il duca era corrucciato e camminava per il corridoio stringendo forte una mano nell'altra. Certe situazioni lo mettevano in imbarazzo, nonostante l'esperienza accumulata negli anni. Certe situazioni, nella fattispecie la presente, erano particolarmente delicate e lui non aveva propriamente il carattere adeguato nell'affrontarle. Suo fratello minore sarebbe stato ben più all'altezza, ma questo era un pensiero futile, non potendo questi venirgli in aiuto, non allora. Parte dell'imbarazzo gli era attribuibile, ma Antonio aveva smesso di scaricare sugli altri le responsabilità.

Un paggio gli si avvicinò in punta di piedi e parlò a bassa voce quando gli fu dato il permesso. Il duca ascoltò con attenzione, tese le labbra e annuì, acconsentendo a quanto gli veniva proposto. Il paggio si allontanò veloce e Antonio lo seguì a testa alta, il passo disteso e solenne. Raggiunse la sala della musica e le grandi porte si aprirono al suo incedere senza che fosse necessario rallentare l'andatura. Il duca si affacciò accolto dagli inchini dei nuovi venuti, ancora con la mantella da viaggio sulle spalle nonostante le temperature estive.

«Signor Farinacci,» esordì, rivolgendosi all'unico uomo presente, «spero abbiate fatto buon viaggio. Mi duole avervi disturbato in simili circostanze, ma capite le necessità.»

Vincenzo Farinacci, accennando un secondo inchino, portò la mano sul petto e assentì per sé e per la moglie, zitta e composta accanto a lui. «Era anche nostro desiderio», ribatté, «fare visita a nostra figlia dopo l'accaduto.»

A quell'accenno, Antonio si irrigidì e, parlandogli in confidenza, bisbigliò: «Abbiate cura, signori, di considerare la faccenda assolutamente segreta. Qualora sia richiesta una vostra parola, a quanto sapete l'incidente si è svolto in campagna, durante una battuta di caccia fuori stagione».

Vincenzo rivolse uno sguardo allarmato verso il paggio che aveva preceduto il duca, poi verso le guardie che stazionavano agli ingressi, quindi bisbigliò a propria volta: «Quanto alla verità? Ci sarà dato di conoscerla?»

«Più tardi, più tardi», tagliò corto il duca, che si stava guardando attorno con aria tesa. «Dove sono i bambini?» domandò infine, riprendendo un tono più sciolto. Maddalena si volse alla porta da cui erano entrati, che si trovava dietro di lei, e rispose: «Vostra Grazia, mia figlia li sta distraendo in corridoio. Il viaggio li ha molto infastiditi...»

«Vostra figlia?» ripeté Antonio, senza capire. Vincenzo gli rispose: «Sì, nostra figlia Teodora. Venendo qui abbiamo fatto tappa al monastero di Santa Chiara, dove entrerà presto come novizia, e l'abbiamo presa con noi per il suo ultimo periodo da fanciulla. Se permettete, vado a chiamarla».

Prima che potesse mettere in atto il proposito, la grande porta attraverso cui era entrato il duca si aprì nuovamente e sulla soglia apparve una coppia seria e compunta, un uomo e una donna per mano. E una voce: «Madre? Padre?» riecheggiò cristallina tra le pareti. Maddalena, senza trattenersi, si affrettò ad andare incontro a Galatea per stringerla forte, confortarla, scacciare via gli incubi che ancora le adombravano di paura il bel viso. L'uomo che la scortava era quel famoso militare, Alessandro Ferraris, di cui avevano sentito tanto parlare da lei.

«Madre?» chiamò ancora Galatea, quasi non credesse ai propri occhi. «Non credevo che sareste venuti così presto! Ma i bambini? Dove sono i miei bambini?»

«Qui fuori, Tea», intervenne suo padre, appressandosi. «Teodora li sta facendo giocare.»

«Teodora?» fece Galatea, sempre più sorpresa. «E Francesco? Come sta?»

«Lui sta bene, molto bene. Non ha potuto muoversi da casa per via del matrimonio imminente.»

Galatea annuì, picchiettando con la mano sulla spalla della madre mentre se ne stavano abbracciate.

«Voi, signore,» disse dunque Vincenzo a Ferraris, «siete stato un amico prezioso per nostra figlia. Vi saremo sempre grati per ciò che avete fatto e fate per lei...»

In quel mentre, la porta all'altro capo della sala si socchiuse e quattro gambette agili svicolarono all'interno, seguite da una figura quieta e misurata. Galatea si illuminò di gioia alla vista dei gemelli che le correvano incontro ridenti a braccia aperte, superò i genitori e si inginocchiò a terra, pronta a essere investita dall'affetto dei suoi bambini. Costanza e Ippolito la tempestarono di baci, di coccole e carezze, avanzando mille e più domande con le loro vocine limpide e gaie; era tanto commossa che stentò a rispondere a molte richieste, dispensando tanti vezzi a tutt'e due e saziando, così, la loro sete di amore.

«Ludovica?» domandò intanto Maddalena, facendosi più prossima.

«Vivì è a giocare nei giardini, ha bisogno di stare all'aria aperta...» rispose Galatea, quindi si rialzò e si trovò di fronte la sorella minore. Erano tanti anni da che non si vedevano più: Teodora era cresciuta di statura, il suo viso si era fatto aguzzo e proporzionato, bello e ancora un poco adolescenziale. L'abito scuro e castigato che indossava non metteva in risalto le sue forme, ma contribuiva ad accentuare sul suo volto una piega di ribellione appena appena domata. La donna che sarebbe diventata stava pian piano maturando, benché si leggesse nei suoi grandi occhi castani un gran bisogno di svaghi e avventure, ciò che la vita claustrale del monastero in cui era stata educata le aveva tolto.

«Teodora,» la chiamò, invitandola a un abbraccio, «Dio solo sa quanto ho desiderato vederti! Dimmi, come stai? Sei pronta al tuo noviziato?»

Teodora sorrise timidamente e fece spallucce: «Non conosco altro che il monastero, so a che cosa vado incontro». Galatea approvò con un cenno della testa e la prese per mano, conducendola davanti ad Antonio per presentargliela: «Vostra Grazia, costei è Teodora Maria Farinacci, mia sorella minore».

«Lusingato di fare la vostra conoscenza, madamigella», replicò educatamente il duca, e lei ringraziò con un'umile riverenza. Galatea si era già volta verso Ferraris e, quando anche Teodora l'ebbe fatto, ripeté la medesima formula con pochissime variazioni. E lui rispose: «La vostra famiglia è prodiga di bellezza, a quanto vedo. Un gioiello in più per il già ricco monastero di Santa Chiara». E una seconda riverenza chiuse ogni presentazione.

«Vogliamo andare?» domandò a quel punto il duca, le mani dietro la schiena. Galatea incrociò il suo sguardo, prese un profondo respiro e si apprestò ad affiancarlo. Salirono al piano superiore in rigoroso silenzio, gli occhi bassi; solo Teodora si guardava attorno meravigliata, cercando di cogliere più particolari possibili nell'intreccio di decori dorati e affrescati dei soffitti, delle pareti e del mobilio. Una simile ostentazione le era del tutto nuova, non avendo mai messo piede a palazzo: il monastero di Santa Chiara si ispirava a ben altro tenore, il mobilio spartano e gli affreschi, per quanto numerosi e di buona fattura, riproducevano esempi di modestia e umiltà francescani, rifuggendo a priori qualsiasi forma di vanità secolare. Era tanto intenta in questa osservazione che non si avvide degli sguardi che qualcun altro le rivolgeva; era tanto intenta che si accorse di essere giunta alla meta solo quando, inavvertitamente, urtò la schiena di suo padre ormai fermo davanti a lei.

«Vi prego di non far rumore e di parlare a bassa voce», raccomandò il duca, afferrando personalmente la maniglia della porta di fronte. L'abbassò e spinse piano l'uscio, come se volesse evitare qualsiasi cigolio o raschiata sul pavimento, quindi entrò seguito dalla marchesa sua cognata; dietro di loro, Vincenzo Farinacci e Maddalena con i nipoti e in ultimo Ferraris e Teodora, ancora estasiata dalla raffinatezza degli ambienti.

Attraversarono il salotto e raggiunsero un'altra porta, superandola con le medesime cautele. Furono discreti anche grazie alla penombra della camera da letto; non appena entrati, scorsero il letto e, su di esso, una sagoma di uomo coricato di schiena. Galatea si distaccò dal gruppo muovendosi leggera come una farfalla; raggiunse il capezzale e si chinò. Ottavio aveva gli occhi chiusi e un'espressione pacifica in volto. Senza dire una parola, accennò al duca e agli altri di raggiungerla. Maddalena fece particolare attenzione a zittire i gemelli, mentre Ferraris porse il braccio a Teodora per invogliarla ad avvicinarsi.

Galatea, intanto, accarezzava la guancia di suo marito fissandolo languidamente. Se da principio osava a malapena sfiorargli la pelle, via via che i parenti le si appressavano le sue moine prendevano il vigore dato dal grande affetto e diventava impossibile ignorarle. Ottavio, sospirando, schiuse appena gli occhi e, riconosciuta la moglie, abbozzò un sorriso.

«Il medico gli ha somministrato un farmaco per il riposo», spiegò lei, inginocchiandosi e allungando le braccia verso i gemelli. Li pose tra sé e il letto e sussurrò: «Il vostro papà ha tanto bisogno di dormire, ma sta bene. Volete dargli un bacio prima di andare a giocare con Vivì?»

Costanza si sporse per prima, arrampicandosi sul materasso; gattonò finché le sue labbra poterono toccare la fronte di Ottavio e lo baciò, poi si gettò sul suo petto nell'atto di abbracciarlo forte. Ippolito la imitò subito e replicò i medesimi gesti, cosicché il marchese si ritrovò coi due figlioletti sdraiati sul torso. Riuscì a dir loro qualche parola di complimento, qualche raccomandazione, prima che gli venissero sottratti per il suo stesso bene. Si prese il tempo di qualche respiro disteso e chiese ad Antonio di aiutarlo a mettersi seduto. Solo allora rivolse la propria attenzione ai suoceri, che salutò con calore, e alla cognata che non aveva mai conosciuto di persona. A lei, in particolare, indirizzò gli auguri per il prossimo ingresso in monastero; Teodora, intimorita dalle sue condizioni di salute, rispose con un semplice ringraziamento, promettendogli le sue preghiere.

*

Era sera e un servo era appena uscito dalla camera da letto dopo aver acceso alcune candele. Ottavio preferiva stare solo a meditare, ora che aveva la mente un po' più lucida, sgombra dagli effetti del sonnifero. Si guardava attorno con aria distratta, come se non fosse in grado di fissare il pensiero su un oggetto determinato; ma era un'impressione, perché la sua meditazione era profonda e dal contenuto ben delineato. Il turbamento stava lentamente scemando dal suo corpo e dalla sua anima e ora il marchese riusciva a guardarsi i palmi delle mani senza rivederseli davanti insozzati di sangue. Cominciava a crescere la distanza dagli eventi di due giorni prima e la lontananza, oltre che a diluire le passioni, permetteva di vedere in modo più limpido i contorni della vicenda.

Bastiano era morto; i suoi ultimi attimi erano stati convulsi come quelli di un cinghiale ferito. Ferraris aveva sparato all'improvviso, inaspettatamente, colpendolo alla spalla sinistra. Il contraccolpo l'aveva buttato in terra sul fianco e la pietra gli era sfuggita di mano. Ciononostante, aveva ruggito di dolore dimenandosi. Lui, Ottavio, il marchese, aveva stretto il pugnale nella destra e, slanciandosi di peso contro di lui, gli aveva piantato la lama nel cuore. Bastiano, con l'ultimo guizzo di energia, gli aveva sferrato un pugno nel costato, poi aveva cessato di respirare, mandando sangue dalla bocca.

Non ricordava di aver viaggiato fino alla capitale; probabilmente lo strapazzo gli aveva fatto perdere i sensi. Si era risvegliato in quel letto, un medico gli stava steccando il braccio e i suoi assistenti lo osservavano.

"Sua Altezza si è svegliato", aveva detto qualcuno, e un mormorio si era sollevato dall'estremità della camera appena appena percepibile. Il tempo di qualche parola con Galatea e si era riaddormentato con un forte mal di testa. Al risveglio successivo aveva potuto sorbire un po' di brodo caldo e ricevere la visita del fratello duca. Il giorno dopo, la mattina, era stato avvisato del prossimo arrivo dei suoceri e dei gemelli e, per l'agitazione, il mal di testa era tornato a farsi sentire; inghiottito di malavoglia il sonnifero, aveva dormito con poche interruzioni fino all'ora di cena, quando, ad attenderlo, aveva trovato un'altra scodella di brodo caldo.

L'emicrania era passata; gli dolevano, adesso, tutte le membra del corpo. Avrebbe potuto contare gli ematomi che aveva distribuiti sulla propria persona senza nemmeno vederli. Dentro di sé, invece, avvertiva un vuoto, un'apatia che lo confinava dal mondo: aveva bisogno di compagnia e ogni minuto che passava in solitudine lo precipitava in un abisso di frustrazione.

Quasi che le sue preghiere fossero state udite, qualcuno bussò sommessamente alla porta. Prima di invitare a entrare, Ottavio prese un respiro e si accarezzò la fasciatura del braccio.

«Avanti!» intonò nel modo più autoritario concessogli dalle circostanze. La sua speranza era che si trattasse di Galatea, venuta a chiacchierare prima di recarsi a dormire nella camera accanto. Invece un altro viso sbucò dall'uscio e Ottavio roteò istintivamente gli occhi verso il soffitto, adagiandosi sui cuscini.

«Non sembri felice di vedermi», constatò Ferraris, raggiungendo a passi lenti la sedia posta al capezzale del letto. Il marchese sbuffò senza preoccuparsi minimamente di dissimulare la delusione e ribatté: «Mi aspettavo ben altre visite a quest'ora...»

«A che scopo? Per come sei conciato, ciò che ti riesce meglio è parlare... Ed è tutto dire!» disse l'altro, prendendo posto e accavallando le gambe. Ottavio arrossì e: «Parlare è proprio quello che mi serve. E mi capita un compagno come te...»

«Per prima cosa, lascia che ti ringrazi della calorosa accoglienza; in secondo, ti porto i complimenti di tuo suocero per come hai difeso sua figlia e in terzo, Altezza, concedimi di farti un po' di compagnia, benché io non corrisponda esattamente a quanto desideri.»

«Lo concedo», si arrese con un sorrisetto divertito, sistemandosi meglio contro la testiera. «Per quanto mi riguarda, devo ringraziarti per avermi salvato la vita.»

«Mai pallottola fu spesa meglio di quella.»

«Sono d'accordo, anche se ora mi sembra che una morte repentina sia più un premio che un castigo, per un uomo come lui...»

«Forse, ma per lo meno sappiamo che non calcherà più la terra; d'altronde, ce n'è di gente che finirà impiccata.»

Ottavio annuì e, ricordatosi solo allora di un aspetto delicato, domandò: «Notizie di Rosina e dei bambini?»

«Sono stati trasferiti tutti al monastero di Santa Chiara; hai qualche proposito per il loro futuro?»

«Non ora, ma conto di sostenerli personalmente. Potrei far sì che Rosina sia assunta a palazzo come serva... Vorrei che i suoi figli potessero studiare ed emanciparsi dalla miseria...»

«Propositi nobili, degni di te. Non so se i miei sono pari ai tuoi», osservò ambiguamente, distogliendo lo sguardo. Ottavio socchiuse gli occhi sospettoso e gli confidò: «Non mi piace quando parli così».

Ferraris sorrise e confessò: «Ho un pensiero, vedi... Una così buona congiuntura, sembra fatto apposta...»

«Spero non includa Galatea, quel tuo pensiero. Perché, se così fosse, devo metterti in guardia», minacciò il marchese irrigidendosi. Il consigliere scosse il capo: «No, non la include. Ti ho già spiegato che non rubo le mogli degli altri; quel che è stato, è stato. Non tornerò a infastidirla. Certo, ammetto che tra noi rimarrà un legame di sincero affetto, ma del tutto estraneo alla passione. No, mettiti il cuore in pace».

Era una fortuna, per Ferraris, che Ottavio fosse immobilizzato a letto, perché non avrebbe potuto affrontare il discorso con uguale franchezza se lui avesse potuto reggersi in piedi. Dall'espressione del marchese si intuiva una disposizione d'animo molto meno nobile e ponderata di prima.

«No, parlo d'altro questa sera... E visto che sei esperto di conversioni, da buon chierico, sono venuto a parlare proprio della mia conversione.»

Ottavio strabuzzò gli occhi, il sospetto scomparve dal suo viso soppiantato dalla sorpresa più genuina. «Conversione?»

«Non vedo come altro potrei chiamare ciò che mi sta succedendo. E confesso che tutto è cominciato con Galatea; per cinque anni è stato un presentimento, ora ne sono certo. Ormai nulla riesce a distogliermi da quest'idea che ti dirò. Anzi, non te la dirò, te la farò indovinare. Un bel progetto ha già preso forma nella mia testa, ti sto chiedendo di assecondarmi a realizzarlo. Capirai, poi, perché parlo di felice congiuntura quando mi riferisco alla nostra presenza qui.»

Ottavio, sempre più incredulo, pendeva dalle sue labbra. Dopo una breve pausa di silenzio, osò chiedere: «Vuoi forse farti monaco?»

Ferraris scoppiò a ridere: «No! Niente del genere, no!» e, ripreso fiato, continuò: «Non c'è solo quella conversione... E ammettilo, sarebbe un cambiamento troppo radicale, ne soffrirei e potrei addirittura morirne».

«Non ti farebbe così male», sbuffò il marchese, lasciando cadere le braccia in grembo. L'altro gli lanciò un'occhiatina eloquente, ma un movimento nervoso delle mani tradì la sua agitazione. Quando fu sul punto di parlare di nuovo, la voce gli tremò un poco. «Pensavo a un matrimonio, in realtà».

Ottavio sollevò le sopracciglia, più scettico che sorpreso. «Non eri tu a dire che un matrimonio sarebbe stato una condanna per la sventurata fanciulla cui saresti toccato in sorte?»

«Precisamente», convenne, guardando fuori dalla finestra dopo aver scostato le pesanti tende che la chiudevano. «Mi piacciono le sfide. Per questo sono qui: mi serve un po' della tua prudenza.»

«Della mia prudenza o del mio bigottismo?» rise sarcastico, guardando a propria volta da un'altra parte. Ferraris scosse la testa e rispose: «Sono stato avventato a parlarti male due giorni fa. Non meritavi le mie parole e le mie parole erano falsate da una cattiva disposizione d'animo. Io ti ammiro sinceramente; non tutti gli uomini condividono il tuo coraggio e io, di certo, no».

«Non vedo coraggio...»

«Modesto, Monsignore. Parliamo di concretezza: quanti perdonerebbero l'amante della moglie? Quanti gli permetterebbero la confidenza che tu concedi a me facendomi entrare nella tua camera privata?»

Con un gesto di magnanima impazienza, Ottavio pose fine alle lusinghe e prese un respiro profondo. «Torniamo al tuo proposito di conversione. Sai bene che, quanto a stima, la gara è in parità.»

«Metto in dubbio i miei meriti, non i tuoi.»

«Il matrimonio, Alessandro.»

Ferraris si fregò le mani con un'inequivocabile espressione di disagio. «So che sarà difficile; so che potrebbe non darmi tutta la soddisfazione che mi auguro; so che dovremo affrontare le nostre peripezie. Tuttavia, non ho paura. Forse sono solo un po' intimorito dalla responsabilità di marito.»

«Questo è più che naturale, soprattutto per l'età matura...»

«Mi dai del vecchio?»

«Hai trentacinque anni, che tu lo voglia o meno. E a meno che non sposi una zitella o una vedova, devi riconoscere che la differenza d'età sarà considerevole...»

«Diciassette anni e tre mesi per la precisione.»

Ottavio ristette, aggrottò la fronte, quindi riprese: «Hai già trovato un partito che ti aggrada? È forse una tua amante passata? No, troppo giovane... O magari la figlia di un'amante...»

«Questo non importa poi molto, non trovi? Il punto è proporsi come fidanzato ai genitori di lei.»

«Non hai bisogno di me per sapere che ci vuole tatto.»

«Ho bisogno di te perché sei il marchese e una tua raccomandazione pesa sul piatto vuoto della bilancia.»

«La tua carica ti rende uno scapolo molto desiderabile; aggiungici i tuoi possedimenti personali, i palazzi e le ville, e non vedo perché tu debba dubitare... Stai pensando di corteggiare una ragazza già fidanzata, per caso?»

«Si potrebbe dire così», ammise arrossendo. «Mi confronto con un rivale che è ben al di sopra delle mie capacità.»

Ottavio, sempre più sospettoso, arcuò ancora di più le sopracciglia e si passò una mano sulla benda che gli avvolgeva la testa. «Sei ambiguo e questo non mi piace.»

«Assecondo la mia natura, Altezza», rise Ferraris, il cui imbarazzo si faceva via via più evidente.

«Posso sapere il nome di questa fanciulla?»

«Non è così rilevante.»

«A me pare il contrario.»

«Non vedo che differenza potrebbe fare in un discorso così teorico com'è il nostro.»

«Vedi, c'è un nome che non vorrei sentirti dire...»

«Ah, sì? Per quale ragione?»

«Una novizia non è il soggetto adeguato dei nostri discorsi.»

«A quanto so, tua cognata non è ancora una novizia... Posso fantasticarci in tutta innocenza.»

«Quanta insolenza!» sbottò Ottavio, strappandosi le lenzuola di dosso e accingendosi ad alzarsi. «Insidiare una fanciulla costumata, appena appena conosciuta, la sorella di...»

Un capogiro lo fece ricadere sul materasso; Ferraris, per quanto riluttante, lo raggiunse e sedette accanto a lui per poi distendersi. «Non è un'idea così malvagia, devi ammetterlo. Ma dovrai essere convincente per impedire che se ne torni in quel buio monastero.»

«Non ti importa della sua disposizione ai voti sacri?»

«Dubito che sia sincera. Tu non l'hai vista oggi... Ti consiglio di parlarle a quattr'occhi: un uomo della tua sensibilità non avrà difficoltà a stabilire se la sua vocazione sia spontanea o indotta. Mi rimetto al tuo giudizio: se la troverai convinta del monastero, mi farò da parte.»

Ottavio sospirò, giunse le mani sul ventre e chiuse gli occhi. «Domani vedrò. Buona notte.»

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