4 luglio 1676

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«Giovannino! Giovannino! Fermati, ti prego, non respiro più!» strillò Ludovica boccheggiando. I piedini rallentarono la corsa, lei incespicò, sollevò qualche nuvola di sabbia sulla strada che portava al porto. Il ragazzo, che l'aveva superata di qualche metro, si arrestò di colpo, girando sui tacchi con un movimento repentino; batté convulsamente le palpebre sotto il sole a picco del mattino inoltrato e portò una mano alla fronte per schermarsi dalla luce.

«Sbrigati, Vivì. Ormai non manca tanto», la esortò, riprendendo a camminare all'indietro. La bambina, però, piantò le mani sulle ginocchia e, curva su se stessa, riprese un po' di fiato.

«Ma la mamma ha detto che non dobbiamo andare lontano...» si lamentò, da un lato per timore di una punizione e dall'altro per tentare di far desistere l'amico dal condurla al porto. Non sapeva perché si ostinasse tanto a farle vedere le barche, ma da quando l'uomo con la benda, Ferraris, l'aveva portato con sé un giorno Giovannino non parlava d'altro: le vele bianche alte contro il cielo, le bandiere che garrivano al vento tra i voli dei gabbiani, e le pance concave delle navi... tutto appariva meraviglioso nelle descrizioni che le faceva. Aveva suscitato un briciolo di curiosità, ma nulla di più: a Ludovica non interessava poi molto il mare.

Giovannino, di fronte alla sua pigrizia, sbuffò e si batté sulle cosce con disappunto. «Vivì,» ingiunse, indurendo la voce, «se non ti sbrighi, giuro che ti lascio qui.»

La marchesina si rialzò lesta, gli occhi sbarrati, e lo raggiunse con quattro salti, gli prese saldamente la mano e singhiozzò: «Non lo farai, vero? Io ho paura...»

«Su, insomma!» tentennò lui, tirandosela dietro. «L'ho detto così per dire... Tanto casa nostra è in piazza, e la piazza è proprio laggiù, vedi?» indicò con il dito. Ludovica guardò con espressione ansiosa, poi annuì un poco rilassata.

«Ormai che ci siamo, però, andiamo al porto. Torneremo presto, prima di pranzo, e la tua mamma non saprà mai che siamo venuti qui», disse, e subito aggiunse: «Capisci che non dovrai dirglielo, altrimenti lo saprà».

«Non sono stupida!» frignò, per fare la parte della bambina grande e coraggiosa; le costava, però, ammettere di dover dire una bugia. Il suo cuoricino si strinse e il suo corpo tremò impercettibilmente a quella prospettiva, tuttavia non lo diede a vedere. La scelta era fatta: sarebbero andati al porto. Chi avesse desistito sarebbe stato etichettato come pauroso.

Camminarono ancora per qualche minuto, mano nella mano, intimiditi dalla quantità di persone che incrociavano via via che si avvicinavano alla meta: per lo più si trattava di marinai, gente con la faccia abbronzata e piena di rughe, ragazzi di vent'anni che ne dimostravano quaranta, con i capelli impiastricciati di salsedine e i vestiti macchiati e strappati; molti portavano l'orecchino d'oro, altri avevano d'oro qualche dente: tutte assicurazioni per un funerale decente in caso di naufragio e, finché si era vivi, di amuleti contro la sfortuna. Tra la moltitudine si distinguevano raramente individui meglio abbigliati, ma mai di estrazione sociale veramente elevata: si trattava, il più delle volte, di trafficanti arricchiti che ostentavano un'opulenza che non apparteneva loro davvero, un'opulenza mutevole come le maree, sull'onda della ventura.

Tanti dialetti si mescolavano nelle strade del porto; le parlate, spesso, erano così strampalate che Ludovica rimaneva a bocca aperta, sbigottita. E le grida, che grida forti al porto, da una nave con l'altra, dalla banchina ai ponti di comando alle prue. Voci del genere non si erano mai sentite e la loro eco non arrivava nella piazza del mercato o al lavatoio, ma risuonavano chiare e vigorose lì, trasportate dalla brezza insieme ai profumi esotici delle merci o all'odore tremendo degli uomini di mare.

Ludovica era così turbata dalla vista e dai rumori che la circondavano che quasi stentò ad accorgersi delle navi; eppure Giovannino sembrava intento solo a loro e le puntava con l'indice, tirando a indovinare la provenienza di ciascuna imbarcazione dalle bandiere che svettavano sugli alberi.

«Quella è una galea veneziana! La vedi, Vivì?» indicò a un tratto, e poi: «Quella invece è francese, lo vedi il giglio? Quella non lo so, ma mio padre me lo saprebbe dire subito!»

Seguiva distrattamente i suoi discorsi, ancora preoccupata di guardarsi attorno e identificare più cose e persone possibili. Quando la curiosità ebbe vinto la diffidenza, cominciò a fare domande: chiese cosa racchiudessero le grandi casse abbandonate sul molo, chiese chi fosse un signore in divisa, chiese se le cime usate per l'approdo delle imbarcazioni fossero sufficienti. Giovannino fu piuttosto vago nelle risposte e a un certo punto si stancò decisamente di replicare ad ogni osservazione, esasperato dal fatto che la bambina non mostrasse il minimo interesse per ciò che a lui, invece, suscitava forti sentimenti di ammirazione. Dall'alto dei suoi tredici anni, pensava di poter insegnare alla piccola compagna di giochi cosa fosse degno di attenzione e cosa no, cosa valesse la pena approfondire e cosa andasse, al contrario, ignorato. Nella speranza di distrarla, quindi, dai futili oggetti che la incuriosivano, la condusse lungo il molo dimostrandole di conoscere in modo molto minuzioso le caratteristiche di ogni galea, di ogni piccolo vascello, persino delle povere barche dei pescatori.

Ludovica gli andava dietro perché non avrebbe saputo dove andare. La gita si stava rivelando noiosa e quasi rimpiangeva di non essere rimasta a giocare in cortile con gli altri bambini della sua età; per la prima volta trovava che Giovannino non fosse così coinvolgente, che non la capisse e non la assecondasse a dovere. Mise il broncio, cominciò a far resistenza, a insistere per tornare indietro o, almeno, per cambiare strada. L'altro fu irremovibile.

«Voglio andare a casa!» gridò lei all'ennesimo rifiuto. Si sottrasse, incrociò le braccia e fece una brutta smorfia; Giovannino cercò di acciuffarla, ma lei lo scansò muovendo qualche passo di lato. Lui ritentò e Ludovica, agile come un coniglietto, saltò via e cominciò a correre, tuffandosi nella folla di sconosciuti. Il ragazzino le fu subito alle calcagna e solo la ressa, in cui si faceva spazio a fatica, gli impediva di raggiungere la marchesina; nonostante ciò, non la perse mai di vista e questo contribuì a farlo stare abbastanza tranquillo. Ludovica, piccola com'era, sgusciava in fretta tra le gambe dei passanti, voltandosi solo per assicurarsi che Giovannino la inseguisse ancora. Fu proprio in uno di questi frangenti che, distratta, la bambina non si accorse di un uomo che le stava tagliando la strada: non fece in tempo a guardare di nuovo davanti che andò a scontrarsi con lui, cadendo sul lastricato e sbucciandosi i gomiti e i palmi delle mani. Giovannino la afferrò per le spalle e la fece rialzare bruscamente, ragionando già su una spiegazione plausibile per l'incidente.

«Alzati, alzati subito!» le diceva, e intanto le soffiava sulle ferite, le asciugava le lacrime, le ravviava i capelli. Ludovica si tratteneva dal piangere, ma il bruciore le sembrava insopportabile.

«Andiamo a casa, dai! Vieni, ti prendo in spalla», soggiunse Giovannino, voltandosi e chinandosi per afferrarle le ginocchia. La bambina si aiutò come poté, attenta a non usare né le mani né le braccia per evitare altra sofferenza. Si strinse forte a lui tirando su con il naso, tentata di chiedere scusa per la scenata. Non osava sollevare gli occhi da terra perché pensava che lo sconosciuto non aspettasse altro che rimproverarla. Quello, invece, sussurrò tra i denti: «Levatevi dai piedi», e se ne andò.

Gli occhi grandi e lucidi di Ludovica, a quel punto, si alzarono verso il cielo azzurro spruzzato di nuvole. Il mento le tremò, ma le labbra non si socchiusero mai a lasciar sfuggire un gemito o un lamento; pensava di essersi meritata il capitombolo perché, se non fosse mai andata lì, non sarebbe caduta, non si sarebbe fatta male. Girò uno sguardo tutt'intorno, vagando tra i volti, i colori e il movimento. Poi, d'un tratto, si sentì pervadere da un brivido lento e glaciale; le sue dita si chiusero sulle spalle di Giovannino e le sue ginocchia si strinsero attorno alla sua vita, cosicché gli si avvinghiò in modo tanto tenace da affaticarlo. Lui faceva il possibile per dissimulare lo sforzo: aveva già portato la piccola su di sé, ma non per tratti così lunghi e con la medesima pressione emotiva. Era concentrato a escogitare una scusa credibile da presentare agli adulti una volta arrivati e quell'improvvisa stretta non gli fece bene. Si diede una scrollata, prese un respiro profondo e si fece forza, considerando il tutto come la giusta punizione per aver tanto insistito a fare qualcosa di proibito.

Non spiccicò parola finché non fu sul pianerottolo di casa: a quel punto, volente o meno, dovette salutare, se non altro per fingere tranquillità. Galatea, però, non ebbe nemmeno bisogno di girarsi a guardarli per capire e l'intuito materno non la ingannò.

«Vivì! Che cos'è successo?» trasalì, notando immediatamente le braccia rosse. Ludovica evitò di incrociare il suo sguardo e tacque, perciò la domanda si ripeté rivolta a Giovannino, il quale borbottò a bassa voce: «Giocavamo ed è caduta».

Galatea piantò le mani sui fianchi e irrigidì il viso, comunicando attraverso la mimica ciò che le parole non avrebbero saputo dire meglio. Il ragazzino, impallidendo, fece scivolare l'altra giù dalla propria schiena e si affrettò a rimediare alla prima risposta: «La rincorrevo ed è inciampata, non ho potuto evitare che si facesse male...»

Non appena ebbe messo i piedi a terra, Ludovica corse alla gonna della madre, vi si aggrappò e si fece prendere in braccio; nascose il viso nell'incavo del collo di Galatea e cominciò a singhiozzare sommessamente, in un modo che non era il suo. Per questo la marchesa si spaventò e le accarezzò le spalle, per questo prese subito a chiederle che cosa fosse successo.

Giovannino, da pallido divenuto paonazzo per la paura che Ludovica rivelasse dov'erano stati, provò a imbonire la giovane mamma raccontando una versione leggermente diversa dalla prima: «Abbiamo litigato», disse, «e Vivì mi è sfuggita, perciò l'ho inseguita ed è inciampata. È colpa mia, non sua... Sono stato io a farla arrabbiare».

Ma il pianto di Ludovica non accennava a calmarsi, anzi, continuava con la stessa incessante nenia fastidiosa. Poi l'esile corpicino iniziò a rabbrividire. Galatea cercò una sedia, si sedette e si accomodò la bambina in grembo, quindi le parlò sottovoce: «Che cos'è successo, Vivì? Dimmelo, ti prego. Che cos'è successo mentre giocavate?»

Ludovica si ostinava a nascondere il viso in seno alla mamma, prendendo respiri a fatica tra i singhiozzi trattenuti; socchiuse gli occhi per guardare Giovannino, che implorava di mantenere il segreto, quindi li sollevò a cercare quelli di Galatea e un fievole suono sgorgò dalle sue labbra: «L'ho visto, mamma».

«Chi hai visto, tesoro mio?»

Il sorriso della mamma la rassicurava, perché era bello e amorevole e caldo.Strofinò la guancia sulla sua spalla per asciugarsi delle lacrime e al contempo sussurrò: «L'uomo cattivo che ha spinto la balia... l'ho visto...»

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