7 luglio 1676 pt. 2

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Come aveva stabilito, Ottavio passò in stamperia a recuperare il materiale da correggere, quindi, congedatosi, si incamminò verso casa con il faldone sotto il braccio. Se da un lato l'idea di rimanere finalmente solo con Galatea lo faceva sentire leggero, dall'altro il timore di intavolare un determinato discorso gli faceva tremare i polsi. Non esitò per questo a bussare alla porta e a entrare lasciandola di stucco sulla soglia.

«Revisione», disse, forzando un tono entusiasta, poi, una volta poggiato il faldone sul tavolo, riprese: «Se non disturbo, starò qui oggi».

Ferraris, che sedeva a quel tavolo, finse di non sapere niente; si levò in piedi, si guardò attorno e domandò come potesse essere d'aiuto. Ancora prima che Ottavio gli dicesse cosa fare, Galatea gli consigliò di portare i bambini a passeggiare. Tra i due uomini balenò uno sguardo di intesa talmente rapido che lei non se ne accorse, intenta com'era a chiamare Giovannino e Ludovica dalla camera dove stavano giocando.

«Niente riposino, oggi?» domandò Ferraris, come per indugiare nell'obbedire. Galatea rispose prontamente che, per quel giorno, ne avrebbero fatto a meno, così da aver più sonno la sera. I due bambini corsero a rotta di collo giù per le scale, mentre il loro tutore li seguiva con passo indolente, stringendo la corda che faceva funzione di corrimano.

Rimasti immobili nel silenzio di una casa pressoché vuota, marito e moglie evitarono di guardarsi: il primo sedette quasi subito di fronte alle bozze che gli erano state affidate, pronto a segnalare con un pennino dalla punta fine tutti gli errori e i passaggi poco chiari nel testo; la seconda, indecisa su cosa fosse meglio fare, restò semplicemente in piedi poco distante a osservare incuriosita. Poi, uscendo dalla timidezza, domandò sottovoce: «Sono tante pagine... quanto tempo ti hanno dato?»

Ottavio sorrise sarcastico: «Non me ne hanno dato», disse facendo spallucce. «Robertone lo vuole il prima possibile. Nei suoi piani, la stampa dovrebbe cominciare tra tre giorni; e contando che Antonio produce due pagine in un giorno, per permettere la stampa dovrei riportare il tutto corretto domani».

Galatea si morse il labbro e inspirò profondamente. «Credi di farcela?»

«No, certo che no! Ho insistito e mi sono stati concessi altri due giorni: quindi, al posto che cominciare a stampare, cominceranno a mettere in forma; di meglio non posso fare.»

«Posso aiutarti?»

Aveva parlato spinta da un impulso istintivo, senza realmente riflettere sulla proposta. Le sembrava gentile offrirsi di dividere il carico di lavoro; o forse le sembrava doveroso, come moglie, trascorrere del tempo accanto al proprio marito. Ottavio, in ogni caso, non parve dare peso eccessivo alla questione e si limitò a indicarle la sedia. Galatea sedette e si vide assegnare la seconda metà del manoscritto, facilmente smembrabile in quanto composto da fascicoli sciolti. Le fu passato un pennino e il calamaio scivolò un po' più in mezzo, affinché entrambi potessero attingerne.

«Se hai dubbi, non esitare a chiedere, lo sai», concluse Ottavio, infondendo nella voce tutta l'amorevolezza che poté. Lei sedeva alla sua sinistra, cosa che gli permetteva di guardarla di sottecchi e di accarezzarla di quando in quando. Galatea mostrava una vanità ritrosa ad ogni suo gesto tenero, invogliandolo a continuare senza sosta anche a costo di distrarsi dall'incarico.

Lei stava giocando e lui ne era perfettamente conscio. Il loro, in fondo, era un tentativo di ammorbidire le reciproche posizioni: quale miglior momento avrebbero potuto trovare se non quello in cui la loro cucina era deserta, priva di ostacoli ingombranti come Ferraris o di delicati intrusi come Ludovica? La sola cosa che li teneva separati come i lembi di una ferita infetta era quell'avvenimento di sei mesi prima, una spada di Damocle sospesa sopra di loro, una minaccia all'equilibrio precario che, giorno dopo giorno, stavano provando a ricostruire.

Tra una mezza parola e un buffetto, tra una risata sommessa e un sorriso solo accennato, Ottavio finì col posare il pennino da una parte per potersi voltare del tutto verso Galatea; lei non aspettò nemmeno un istante a fare lo stesso. I loro respiri divennero flebili, gli occhi intenti e fissi, profondi all'inverosimile; le labbra, un poco dischiuse, abbozzavano espressioni di beato stupore, quasi che nemmeno loro stessi credessero alla naturalezza con cui tutto stava accadendo.

Ottavio, che da tanto tempo evitava persino di toccarla, non volendo offenderla, osò premere una mano sulla sua coscia, poi anche l'altra. Sotto la spessa gonna, Galatea avvertì il suo ardore e ne rimase sopraffatta: le sovvenne un pensiero, che però subito ricacciò, riguardo a un'intesa tra i due uomini che vivevano con lei; sospettò, per un breve frangente, che le attenzioni di Ferraris non fossero banali e mediocri tentativi di corteggiamento, quanto piuttosto un astuto piano per attizzare in lei le voglie più carnali. La sua incredulità la distolse da un'idea che le era parsa fin troppo contorta e artificiosa e, come se non fosse bastato questo, la presa di Ottavio sulle sue cosce la richiamò alla realtà. Avvicinando la sedia, il marchese era riuscito a spingere più in su le mani, a risalire fin quasi alle anche strette dalla cintura. Galatea guardò le sue dita affondare tra le pieghe del vestito e provò una sensazione di morsa alla gola; d'altra parte, le sue attenzioni, al contrario di quelle di Ferraris, non la indisponevano, perché le conosceva. Dopo cinque anni poteva ben dire di conoscere i modi, le abitudini e le fantasie del proprio marito; l'aveva addomesticato secondo il proprio gusto, lasciandosi addomesticare a propria volta in tanti altri casi. Ormai parlavano lo stesso linguaggio amoroso: le mani sulle cosce preludevano a un ben preciso sviluppo; gli occhi di Ottavio, le pupille leggermente dilatate e lo sguardo espressivo, confermavano la sua gestualità.

Il corpo di Galatea fremeva dalla voglia di rispondergli con i gesti canonici: si sarebbe dovuta alzare, dirigere a passi concitati in camera, lasciarlo entrare e chiudere la porta a chiave, dopodiché sollevare la gonna e lasciar fare all'istinto. La sua volontà, però, era un'altra. O meglio, non tanto la volontà, piuttosto un'impressione di volontà, uno spettro confuso e tenebroso, si opponeva alla soluzione anelata da entrambi. Galatea se ne accorse e il suo viso assunse un'espressione mortificata, i suoi occhi si illanguidirono; Ottavio, le cui mani, ormai, avevano raggiunto il suo inguine, notò la sua titubanza, ma decise di andare oltre, di non desistere alla prima difficoltà. Si inginocchiò a terra così da poter sfiorare la sua schiena e scendere giù di nuovo, facendole capire che senza dubbio la desiderava, e tanto; non era capitato spesso, in precedenza, di dover arrivare a quel punto per intendersi, poiché di solito lei cedeva o, perlomeno, controbatteva in altri modi per solleticare le sue brame. Lei, però, si aggrappò con una mano allo schienale della seggiola, con l'altra al bordo del tavolo, si impettì e si fece dura come una statua, abbassò lo sguardo e storse la bocca.

Ottavio si vide sul punto di perderla e, senza pensarci due volte, ritrasse le mani e si rialzò in un attimo, cercando le sue labbra; e le incontrò, con grande sollievo, non così sdegnose come volevano apparire. Anche lui si appoggiò al tavolo da un lato e allo schienale dall'altro, anche lui si assestò in una posizione rigidamente scomoda, ma il bacio continuò a tenerli vivi. Lui con più animo, lei più passiva, si baciarono e godettero di quel momento. Poi, ripiombati nella realtà, si sollevarono in piedi, uno di fronte all'altra, e si guardarono. Galatea, più malinconica di prima, tentò un ultimo sorriso, quindi si avviò verso la camera, ci entrò e chiuse la porta. Contro ogni fraintendimento si premurò di dare due mandate alla serratura. Sedette sul letto, si coricò, chiuse gli occhi.

E il mostro fu subito lì con lei.

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