7 luglio 1676 pt. 3

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«Perché continui a perseguitarmi? Lasciami andare, lasciami...»

«Non basta questo per liberarsi di me.»

Una figura si profilava nell'oscurità. Una figura altrettanto scura, che si distingueva dallo sfondo per una proprietà tutta sua, e al contempo non si distingueva quasi per niente; cosicché Galatea si trovò a pensare, come le capitava da mesi, di essere avvolta da questa figura, o inghiottita, o parte di essa, o sua prigioniera.

Era nera e la sua voce era lamentosa ma ammaliante; ed era una voce familiare. Stava immobile, perché tutto attorno a lei lo era. La prima volta in cui si erano incontrate, Galatea, per intuito, aveva supposto che fosse la Morte, venuta ad accanirsi su di lei dopo la tragedia. Era bastato poco a farle capire che non si trattava della stessa cosa: le sensazioni che aveva provato in sua presenza non erano quelle che era solita provare in presenza della Morte. Aveva percepito un brivido lungo la schiena, un senso di impotenza che avrebbero potuto rassomigliarle; ma la vera differenza era la mancanza di qualsiasi speranza o sollievo. Strano, ma di fronte alla Morte Galatea non aveva mai sperimentato una tale desolazione.

In principio aveva udito solo la sua voce nella mente, un'eco a tratti lamentosa e a tratti estremamente tagliente. Il mostro l'aveva assoggettata in fretta a forza di commenti malevoli, abusando di insulti e mortificazioni. Galatea non aveva potuto evitare di soccombere sotto gli attacchi subdoli e sadici della propria aguzzina e, per quanto cercasse di tenerle testa, finiva inevitabilmente col piegare il capo e sospirare esausta dopo l'ennesimo confronto perso.

Questa volta la figura aveva deciso di usare la tattica del lamento fine a se stesso: era la strategia migliore da contrapporre a un atteggiamento di ostinata resistenza. Galatea si sforzò di non cedere alla nenia del suo piagnucolio, strinse i pugni e si apprestò ad affrontarla con tutta la risolutezza di cui era capace.

«Ti sto cacciando», ribatté piena di astio. «Hai finito di intrometterti tra me e mio marito.»

«Non capisci?» mugolò. «Io devo proteggerti.»

Galatea sbuffò e scosse la testa: «No! Tu vuoi distruggermi!»

«No... No, che non voglio... Sono l'unica che tiene a te, l'unica che sa cos'è meglio per te.»

«Non è vero. Vattene!»

La figura tremolò come la fiamma di una candela, poi, contro ogni previsione, riprese corpo e vigore, si gonfiò di risentimento e parlò con un tono del tutto diverso, stridulo e aspro: «Fa' come vuoi, tanto ti farai solo del male, perché non sai fare altro. Vai, offriti a lui, cedi alle tue voglie se pensi che questo basti a cancellare quello che ti è successo. Ma non cambierà, anzi: pensa se ti dovesse ricapitare. È da questo che voglio salvarti. Perché sai da cosa dipende tutto il tuo dolore; o sbaglio?»

Galatea esitò, i suoi pugni si allentarono un poco, ma non si arrese: «Sta' zitta...»

«Di' da cosa dipende tutto il tuo dolore.»

«Dipende da me...» sibilò.

«Esatto! È colpa tua se adesso ti trovi in questa situazione. E perché?»

Galatea si rese conto di stare, pian piano, scivolando nella trappola. Fece il possibile per trattenersi dal rispondere, ma il suo cuore contrito parlò per lei: «Perché sono stata superba».

La figura parve emergere dal contorno indefinito; si delinearono le sue braccia, le sue spalle. Aveva tratti femminili, la sua costituzione era esile. Galatea non la perse di vista mentre quella avanzava, sempre troppo lontana per permettere di distinguere il suo volto. Dopo un momento, però, intravide le sue mani: non erano mani umane, quanto piuttosto zampe di rapace con cinque dita lunghe e dotate di artigli acuminati. Provò paura e si cinse tra le braccia.

«Non vali niente, Galatea. Puoi essere chi pretendi di essere, ma non sarai mai nessuno. Che cosa sai fare? Qual è lo scopo della tua vita? Quale senso trovi alla tua esistenza? Non vedi che, qualora tu non ci fossi, il mondo andrebbe avanti senza di te?» la incalzò sprezzante. Galatea rabbrividì, sentì le gambe deboli, pronte a cedere sotto il peso di così crudeli affermazioni; non aveva la forza di opporre argomenti contrari, eppure ne avrebbe avuti molti: l'affetto di chi le voleva bene, l'affetto che lei stessa provava per i propri cari e, soprattutto, per i propri bambini. Il timore che la figura nera distruggesse quelle poche certezze che le erano rimaste la spinse a tacere.

Ricordava bene come fosse stato facile, per quel mostro senza pietà, banalizzare l'amore di Ottavio e cambiarlo nei termini di un attaccamento nocivo, costrittivo e limitante. Nei primi tempi aveva usato proprio quell'ancora di salvezza, certa che avrebbe saputo resistere a tutte le mareggiate: aveva scoperto a proprie spese quanto fosse facile rovesciare la visione di un occhio appannato da sentimenti estremi. Quasi intercettando i suoi pensieri e le sue mosse, la figura sussultò, ma solo per affermare sarcastica: «Tuo marito non ti ama; se ti amasse non ti lascerebbe soffrire così, no?»

Un ghigno a malapena udibile seguì la domanda, perché chiaramente si stava prendendo gioco di lei. Imperterrita, continuò: «Tu gli servi per fare figli, per sfornare eredi. Ed è per questo che ti cerca; e se gli piaci, gli piaci perché sei una donna e perché sei sua moglie. Lo conosci: non sarebbe capace di giacere con qualcun'altra nemmeno se fosse obbligato, ma questo non perché ti ami. È debole, è soggetto a tutte quelle regole che gli hanno inculcato quand'era bambino. Non ti ama, non ti ama. Se ti amasse davvero, tu non soffriresti queste pene per causa sua».

«Ma non è stata colpa sua...» tentò una difesa, ma l'altra la aggredì con male parole: «Che cosa dici? Certo che non è stata colpa sua. È stata tua, quella volta».

«Smettila di ripeterlo!» gridò, coprendosi le orecchie con le mani.

«Sei una mercantina, Galatea! Sei e sarai sempre una mercantina, sarai sempre indegna di tuo marito. Ti tiene con sé per compassione e per avere figli legittimi, perché ormai ti ha sposato; qualora morissi, lui si risposerebbe e farebbe altri figli con altre donne, donne diverse da te. Sarebbe miglior sorte morire, a questo punto, piuttosto che continuare a vivere una vita di elemosine come fai tu.»

Galatea cadde in ginocchio nel buio di quello spazio indefinito, le mani ancora premute sulle orecchie, invano. La voce della megera le arrivava nitida e rimbombava tutt'attorno come in un antro infernale. I singhiozzi disperati le affannarono un respiro già appesantito; i brividi cominciarono a scuoterla; le mancava la minima energia per ribattere.

«Lui è un uomo, ha delle esigenze. Non vedere nei suoi gesti niente di più che un istinto animalesco da soddisfare. I bei vecchi tempi sono finiti per te; i giorni in cui vi appartavate soli soletti nel letto a baldacchino, le cortine tirate, la dolce penombra che lascia vedere quanto basta a far crescere smodatamente il desiderio. Dimentica quelle volte in cui ti veniva a cercare con garbo, in cui ti vezzeggiava e ti viziava di attenzioni; dimentica quando, con fare smagato, ti sollevava pian piano l'orlo della camicia da notte o ti scioglieva il corpetto, mentre tu fingevi di fare la ritrosa come sai fare solo tu. Sì, allora lo facevi impazzire, ma ora è semplicemente stanco di aspettarti. E un uomo che non ti aspetta, che pretende, che ti forza, non è un uomo che ti ama.»

«Io, però, l'ho fatto aspettare tanto...» osò replicare con voce rotta. «E lui non è stato insolente a baciarmi, oggi. E...» prese un respiro prima di continuare: «Se non fossi intervenuta tu, io mi sarei concessa e, ci scommetto, con vero piacere».

«E avresti sbagliato, ma per fortuna ti ho fermata appena in tempo», rispose lamentosa la figura, smettendo i toni ruvidi e fastidiosi. «Avresti soltanto svenduto la tua dignità a chi te la stava comprando con le moine da finto innamorato.»

«Chi sei? Perché non mi vuoi dire il tuo nome?»

La figura tacque. Non era la prima volta che glielo domandava: subito, da quando aveva potuto vederla, Galatea aveva posto la questione in modo netto, forte dell'esperienza con le altre entità. Nessuna si era tirata indietro, nemmeno la Morte, dal menzionare il proprio nome. Perché questa, invece, si ostinava a mantenere il segreto? Che cosa intendeva nascondere? O, meglio, che cosa avrebbe rivelato? Di solito, alla domanda non seguiva alcun cenno e la figura si dileguava, accontentandosi di parlarle di tanto in tanto. Ciò non accadde, non allora: essa rimase al proprio posto, immobile, quasi arrogante. E Galatea trasalì di fronte a una reazione imprevista.

«Finché non mi conoscerai, io ti avrò in pugno. Ecco perché non ti rivelerò mai, mai, il mio nome.»

Conl'ultima briciola di caparbietà che le era rimasta, le rispose beffarda: «E iofarò di tutto per cacciarti a calci dalla mia testa».

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