Aprile 1676

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In una stanza ampia e dalle grandi finestre serrate da tende grigie, si udiva la vocina di una bimba che balbettava qualche parola. Un'altra voce, sempre di bambina, le rispondeva, raccomandando di stare zitta, di chiudere gli occhi e far finta di dormire. Tutto taceva per un istante, poi una risata sommessa si insinuava tra le lenzuola e un'altra le faceva eco. La seconda, però, si acquietava subito, ripetendo un po' più perentoria gli ordini di poco prima. Questa volta, la bimba sembrava essersi resa conto di aver rischiato, in un colpo solo, di rovinare il divertimento a tutt'e due. Uno sguardo fugace al letto sistemato contro la parete di fronte e si premette una mano sulla bocca, perché in quel medesimo istante la maniglia della porta si abbassò con uno schiocco.

La prima balia sporse la testa oltre l'uscio, guardando alternativamente da una parte all'altra.

«Dormono ancora», sussurrò alla seconda, che entrò subito dopo di lei. Si divisero, una verso il lettino del maschietto, una verso il lettone delle due sorelline. La terza, la più anziana del gruppo, si affrettò verso la finestra centrale, brandendo le tende con un gesto energico.

«Bu!» esclamarono all'unisono le bambine, scattando sedute sul materasso. La balia urlò di sorpresa, l'urlo svegliò il marchesino, il marchesino strillò e la balia alla finestra trasse bruscamente le tende, inondando la stanza della luce del sole. Una cascata di pulviscolo indorò le risate delle sorelle che, vittoriose, si ersero sul letto e cominciarono a saltare trionfanti, i pugni chiusi e le braccia tese verso l'alto, mentre il loro fratellino, ancora frastornato, le guardava interrogativo senza osare muoversi. La sua balia, una ragazza giovane di famiglia povera, sorrise del gioco delle piccole figlie del marchese e, senza volerlo, le inorgoglì ancora di più; vedendola complice, il bambino approfittò per alzarsi traballante sul materasso e, strattonando la camicia da notte troppo lunga da sotto i piedi, si accinse a prendere parte ai festeggiamenti.

«Signorini!» tuonò la voce alterata della balia più anziana, già pronta con le mani sui fianchi. «Sono questi i modi che vi ho insegnato?!»

Era fiato sprecato, il suo, perché, per quanto fosse capace di essere severa all'occorrenza, i bambini sapevano far breccia nel suo cuore amorevole e conquistarsi, se non il perdono, per lo meno un poco di comprensione. Per questo Ludovica, la maggiore, scosse forte la testa in segno di sfida: i suoi boccoli scuri, tenuti insieme da nastri annodati e arrotolati ciocca per ciocca, vorticarono tutt'attorno alla sua graziosa testolina, per poi ricadere sulle spalle coperte dal pizzo della camicia. Aveva la stessa camicia da anni, perché finché fosse stata integra e sufficientemente lunga sua madre non avrebbe avuto ragione di cambiargliela; la alternava con un'altra del tutto uguale, così da avere sempre indosso un indumento pulito. Ora, però, le caviglie erano del tutto scoperte e le spalle cominciavano a stringere, segno che era ormai tempo di confezionarne una nuova, adatta non più a una bambina infante, ma quasi a una signorina: era orgogliosa di aver compiuto, l'ottobre passato, i suoi cinque anni.

«Signorina Vivì! Orsù, sedetevi bene composta, fatevi mettere le calzine», la redarguì bonariamente la balia mezzana, cui era affidata in particolare la cura delle femminucce di casa. Che fosse il fiato corto dopo tanto ridere, che fosse la consapevolezza di non poter chiedere troppo, Ludovica cessò di saltare e, con l'ultima caduta, atterrò seduta in mezzo al materasso e si trascinò fino al bordo, facendo penzolare le gambette agili, tendendo poi i piedi alla balia affinché li calzasse.

Costanza, vedendo la sorella maggiore piegarsi agli ordini delle serve, lì per lì rimase contrariata; smise anche lei di saltare, sedette anche lei al centro del materasso, ma incrociò le braccia e corrucciò il viso paffuto in una graziosa espressione di malcontento e non si mosse dal proprio posto nemmeno quando la balia cominciò a chiamarla spazientita. Tre anni, eppure il suo caratterino si era già fatto conoscere e più di uno aveva avuto il suo daffare a imporsi su di lei. Non era una cattiva bambina: era semplicemente una bambina che sapeva il fatto suo e a cui piaceva il rispetto della gerarchia. I suoi genitori non erano tipi da ostentare la nobiltà di nascita, ma era stato subito chiaro che non erano genitori comuni. Costanza esigeva solo ciò che sentiva appartenerle di diritto: se suo padre e sua madre erano persone così importanti, lo stesso si sarebbe dovuto dire di lei. Non concepiva il motivo per cui lei dovesse assecondare i moniti di chi, un attimo dopo, si sarebbe inchinato al passaggio dei suoi genitori. Viziata, forse sì, ma anche tanto dolce e affettuosa; se Ludovica era la sorella ponderata, simile al marchese per il temperamento pacato e riflessivo, Costanza era la piccola peste, la ribelle di famiglia, il capetto della situazione.

E, sull'altro letto, Ippolito, il bambino dagli occhi magici che faceva innamorare a prima vista chiunque lo guardasse. I capelli chiari, ereditati dagli antenati francesi, incorniciavano un volto a tratti malinconico e a tratti geniale; ma tutti i geni sono un po' malinconici anche nei loro momenti di vivacità. E Ippolito, al pari della gemella, era vivace e sveglio, non si lasciava bagnare il naso da chicchessia e, anzi, da quando aveva cominciato a parlare – comunque in ritardo rispetto alla pigolante Costanza – prometteva di riuscire un fior di oratore. Ma era nello sguardo che il marchesino, erede piccolissimo del prestigioso titolo paterno, affascinava anche l'animo più tenebroso: l'iride sinistra era grigia, tale e quale agli occhi di sua madre, mentre la destra era d'un colore verde acceso mescolato a dell'azzurro e a del castano. Quel bambino sembrava racchiudere in sé tutti gli elementi del creato. Così nel carattere: certamente meno esuberante della sorellina, ma comunque curioso e chiacchierone con chi sapeva trattarlo, non temeva gli estranei e non lasciava sala senza aver fatto qualche osservazione. In famiglia lo avevano già soprannominato il leoncino, con quei capelli folti e lunghi fino alle spalle e quel non so che di magnanimità che si intravede nel modo di fare dei bambini che non interrompono mai chi gli sta parlando, anche quando la loro faccia farebbe intendere un gran desiderio di farlo.

Ippolito il leoncino, Costanza il pavoncino e Ludovica l'agnellino. Un grazioso trio da veder avanzare lungo il corridoio verso il salottino dove avrebbero consumato la colazione con la mamma. Si facevano precedere dal loro vociare acuto ed entusiasta e, quando l'eco le arrivava alle orecchie, Galatea si alzava dal proprio posto e si posizionava di fronte alla porta, per accogliere i suoi tre gioielli proprio all'ingresso. Era un rito tutto loro, non incluso nell'etichetta di nessun palazzo e di nessuna corte, ma senza il quale si sarebbe fatto un grosso torto. Quando Ottavio era a casa, lì con lei, aspettava in piedi accanto alla tavola imbandita e contemplava il saluto del mattino. Quando la rocambolesca presentazione alla marchesa si fosse conclusa tra baci, abbracci e qualche pizzicotto, lo stesso trattamento, solo all'apparenza attenuato dall'aura di autorità che lo rivestiva in quanto padre e marchese, sarebbe toccato a lui.

Ma non c'era. Erano ormai due settimane che il posto a capotavola rimaneva vuoto e Galatea, prendendo posizione davanti alla porta, non poté fare a meno di lanciargli un'occhiata impensierita. Le ante si spalancarono all'improvviso, rapendola ai pensieri negativi e restituendole il sorriso che si era spento la sera precedente, subito dopo il bacio della buona notte. I bambini le vennero incontro irruenti, la strattonarono da ogni parte per guadagnare la sua attenzione per il racconto delle eroiche gesta del risveglio. Ippolito, che da buon figlio maschio si rivelava il più coccolone, si sistemò sul suo grembo, balbettando di fretta qualcosa che rimase confuso dalla sua smania di dire tante cose tutte insieme. Ludovica tradusse e arricchì di dettagli il suo resoconto, mentre Costanza approvava battendo le mani e facendo buffe espressioni di trionfo.

Galatea accarezzava a turno la fronte di ciascuno dei suoi bambini e con la voce tremante li apostrofava dolcemente: «I miei tesori, le mie bellezze...» ma i suoi occhi ricadevano là, sulla sedia vuota. Le parole dell'ultima lettera le bruciavano dentro, impresse nel cuore.



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Ben ritrovati, miei cari lettori! 

Vi sono mancata? Se non io, spero almeno Galatea! E' bello ritrovarvi qui.

Comincio subito con un'informazione di servizio: questa volta non ho nulla di pronto, e quando dico nulla intendo nulla. Non ho nemmeno idea di dove andrà a finire questa storia... Vedrò dove mi porteranno i miei personaggi. Dopotutto, è la loro storia...

Questo per avvisarvi fin da ora che le pubblicazioni non saranno regolari e che mi è impossibile prevedere quando pubblicherò il prossimo capitolo. Appena avrò il tempo di respirare un po', vedrete che gli aggiornamenti torneranno con frequenza crescente.

A presto!

Lucille

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