Aprile 1676 pt. 3

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Era da poco rientrata dalla sua passeggiata; i bambini si erano appena svegliati dal riposino pomeridiano; le cucine si rimettevano, pian piano, al lavoro. Tutto scorreva come al solito, al placido modo delle cose regolate su ritmi sempre uguali. Aveva tanto rimproverato alla corte la piattezza delle sue giornate e ora, all'apparenza, si crogiolava nella monotonia; ma in primavera, tra le colline, Galatea non percepiva alcunché di monotono: benché a prima vista non cambiasse quasi nulla, il tempo non passava mai senza apportare mutamenti impercettibili. Seduta fuori, nel giardino all'italiana curato da servitori esperti, ogni profumo, ogni suono le ricordava che nulla restava immobile per più di un secondo.

Un brivido, improvviso e straziante, la spinse a portarsi le mani sulle spalle; la testa china, il labbro tremante e gli occhi in un colpo umidi di lacrime.

«Signora?» la chiamò una donna della servitù, avvicinandosi con una tazzina di infuso di erbe, «Signora, state bene?»

Galatea annuì con un cenno impercettibile del capo e si asciugò le guance con un gesto quasi violento; la donna abbassò lo sguardo e le tese la tazzina senza aggiungere altro.

«Andate pure, Rita» le ingiunse con voce fragile, senza guardarla, anzi eludendo il contatto visivo. Quando fu nuovamente sola tra i cespugli di piante ornamentali, posò il piattino di ceramica in grembo e assaporò l'infuso ancora caldo. Quindi si appoggiò allo schienale della seggiola di vimini e mosse gli occhi attorno, gli occhi vacui di quando non aveva nessuno al proprio fianco. Sorseggiò nuovamente la bevanda, trovandola amara più del solito; non metteva più miele da quando ogni dolcezza sembrava essersi dileguata dalla sua anima, come se anche il corpo dovesse essere condannato alla medesima aridità dello spirito.

«Signora», la sorprese, d'un tratto, la balia mezzana. La marchesa fu colta tanto alla sprovvista che, nell'atto di voltarsi, si fece scivolare il piattino dal grembo; un suono di cocci la fece piagnucolare: «No! Proprio questo dovevo rompere...»

Quel servizio era infatti un dono di compleanno da parte del duca e portava lo stemma su ogni singolo elemento; averlo rotto significava che Ottavio non avrebbe più potuto sfoggiarlo con gli ospiti più importanti. Sicuramente sarebbe rimasto contrariato: già sentiva le sue lamentele borbottate a mezza voce con il sopracciglio destro leggermente aggrottato.

«Perdonate il disturbo, Vostra Altezza», si affrettò a scusarsi la balia, «I bambini vorrebbero uscire nei giardini per godere della bella giornata».

«È giusto, piccoli tesori,» convenne, «Ultimamente hanno poche occasioni di divertirsi».

«Marianna ed io crediamo che possano arrecarvi disturbo.» la contraddisse l'altra con garbo. «Sapete, con gli schiamazzi dei bambini, e voi ancora così provata...»

Galatea, raccolti i cocci del piattino, sbuffò sonoramente e si sfiorò la fronte con il dorso della mano libera: «Non credete che potrebbe farmi bene qualche distrazione?»

«Signora, potrebbero farvi venire la malinconia...»

«Non vedete che ce l'ho già addosso?» replicò acida, tendendole i cocci e la tazzina.

La balia, ricevendoli con cautela, altrettanto cautamente rispose: «Per questo vi sconsiglio di restare a guardarli giocare...»

La marchesa si arrese con un sospiro sofferto e rettificò l'ordine: «Portateli all'aperto dietro le cucine. Liberate le chiocce e fateli giocare con i pulcini».

Era scocciante dover sottostare alle precauzioni imposte dagli altri, ma Ottavio le aveva raccomandato di ascoltare i consigli di chi aveva più esperienza; nonostante non nutrisse la stessa fiducia per l'esperienza altrui, Galatea si era adattata a quel comando di marito. Il suo umore, però, era ormai guasto; né il canto dei passerotti né il ronzare delle api né i tiepidi raggi del sole l'avrebbero rasserenata. Il suo cuore ferito non le avrebbe dato pace nemmeno quel giorno.

Si alzò di scatto dalla sedia, il corpo snello di una giovinetta fremente di insoddisfazione. Tratto lo scialle dallo schienale, se lo avvolse attorno alle spalle, dirigendosi a passo spedito verso il palazzo. Appena entrata, una coppia di serve fu pronta a seguirla, pedinandola per corridoi e stanze fino alla camera da letto. Giunta lì, la marchesa serrò la porta senza permettere a nessuno di accompagnarla oltre la soglia e rivolse uno sguardo alla parete opposta, su cui campeggiava un ritratto di suo marito. Era stato commissionato due anni prima e, a lavoro ultimato, era risultato molto somigliante. Ne avevano commissionato un secondo, dedicato a lei, ma non si era andati oltre le prime sedute di posa... Un singhiozzo le mozzò il respiro e chiuse istintivamente i pugni, come se dovesse lottare contro qualcuno.

"Perché sei così lontano?" avrebbe voluto chiedergli; ma lei non parlava con i fantasmi o con i quadri. Abbassò gli occhi per togliersi il suo viso dalla mente, per scacciare gli incubi che da troppo tempo la turbavano nelle notti passate in solitaria. E se anche fosse stato lì, sarebbe stato capace di alleggerirle un poco il macigno che portava sulle spalle? Aveva già dato prova di non essere in grado di lenire la sua sofferenza, dunque perché invocarlo? Perché ricorrere sempre a lui, quasi non potesse affrontare le difficoltà facendosi forza e coraggio con la propria volontà di sopravvivere? In passato aveva avuto a che fare con eventi altrettanto drammatici e si era cavata d'impaccio autonomamente, nonostante gli uomini che la circondavano volessero ad ogni costo intromettersi.

Avrebbe fatto così, avrebbe fatto così anche allora: era vittima di una situazione che non era dipesa da lei... di una congiuntura che, prima o poi, tutte le famiglie devono sperimentare... Ma queste erano ancora le parole di Ottavio, le parole con cui aveva sperato di chiudere rapidamente la questione al capezzale di un letto. Gliele aveva inculcate con convinzione, con il risultato di dissipare i dubbi, ma al contempo di far germinare lo stelo sottile del senso di colpa. Perché, infatti, avrebbe dovuto insistere sull'ineluttabilità di quell'evento, se non per nascondere la cagione da cui era derivato? Questi e altri pensieri la tormentavano, ora che lui era lontano: diffidava del suo appoggio, diffidava del suo amore, ma più di tutto diffidava della sua compassione.

Era ferma in mezzo alla stanza, ai piedi del ritratto del marchese della Marca Stellata, le mani giunte in grembo e la testa di nuovo china, come se si trovasse di fronte al giudice, pronta a udire da lui una sentenza di condanna. Non aveva paura; il peso che gravava sulla sua anima soffocava qualsiasi sentimento, compresa la paura. Era fredda come una statua, dura come una statua.

La riscossero alcuni colpi alla porta; non si mosse. Non aveva intenzione di aprire la porta. Dopo una brevissima pausa, i colpi si ripeterono un po' più forti, probabilmente perché la persona dall'altra parte aveva creduto di aver fatto troppo piano all'inizio. La marchesa sospirò, incurvando le spalle come una debole vecchina, quindi volse il viso in un movimento aggraziato ma disperato e rispose: «Cosa volete?»

L'uscio si socchiuse e una serva comparve nello spiraglio: era giovane, bionda e rosea, appena uscita dall'adolescenza. Galatea la conosceva bene, perché l'aveva assunta personalmente sei mesi prima, credendo che ci sarebbe stato bisogno di una servitù più numerosa; non era stato così, ma non aveva avuto cuore di licenziarla, sapendo che, con il proprio stipendio, la ragazza riusciva a mantenere i fratelli minori ancora a casa dei genitori poverissimi. Si chiamava Giulietta ed era proprio una bella fanciulla.

«Vieni, entra pure», le disse accomodante, incoraggiandola con un cenno. La giovane entrò, tendendole una lettera molto semplice: «Questa è per voi, signora», spiegò con un sorriso modesto e un leggero inchino. Galatea ricevette la missiva e la osservò sospettosa, perché era una missiva diversa dal consueto. La grafia, per cominciare, era molto incerta, e l'inchiostro troppo denso.

«Chi l'ha portata?» domandò diffidente, apprestandosi a rompere la chiusura sigillata con la ceralacca.

«L'ho trovata per terra nel corridoio della dispensa. Se non sbaglio, c'è scritto il vostro nome.»

«Sì, sì. Ti ringrazio tanto, ma ti sarei ancora più grata se riuscissi a scoprire chi l'ha mandata. Manca il mittente...»

Le sue parole furono troncate di netto da un grido acutissimo che si levò improvviso dall'esterno. Giulietta sobbalzò immediatamente, allargando i grandi occhi celesti in un'espressione di spaesamento. Galatea, invece, scattò come una pantera: afferrò a due mani la gonna dell'abito e, sebbene la vita fosse costretta dal corpetto, si affrettò verso la porta incitando la giovane serva a starle dietro. Il cuore le batteva nelle orecchie, nelle tempie, nel collo: in un colpo le era mancato il respiro e le si era annebbiata la vista; aveva mosso i primi passi nel vuoto, affidandosi all'energia che quel grido aveva risvegliato dai meandri più tenebrosi del suo spirito. Un solo pensiero vorticava frenetico nella sua testa: i suoi bambini erano in pericolo.

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