Fine maggio 1676 pt. 2

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I bambini avevano già addosso le loro camicie da notte; Ippolito, ginocchioni sul tappeto davanti alla pediera del letto, faceva galoppare un cavallino di legno sul tessuto vellutato; Costanza, non molto discosta dal gemello, accarezzava la guancia di una bambola di pezza e cercava, con buone parole e modi un po' bruschi, di farla stare seduta a tutti i costi; Ludovica, invece, sedeva alla toeletta di sua madre e ne imitava i gesti familiari, spazzolandosi i capelli davanti allo specchio. Galatea rimase a guardarli dalla soglia, poi, per chiamarli, intonò un: «Cucù?» che li fece sobbalzare e sorridere in un colpo solo.

Tutti e tre insieme si alzarono dai loro posti e le corsero incontro: chi chiedeva un bacio, chi afferrava una gamba, chi supplicava un buffetto. Galatea era prodiga di affetto per ognuna delle sue creature e colmò ogni loro richiesta; quando furono sazi di coccole, pian piano tornarono ai loro giochi tranquilli. Anche Ludovica avrebbe fatto altrettanto, non fosse che la marchesa la trattenne per la mano e la portò con sé in corridoio.

Un uomo sconosciuto le attendeva lì e la bambina, timida per natura, si nascose dietro l'ampia gonna della madre. Inutile insistere per farla mostrare, e Galatea fu costretta a scusarla dicendo: «La nostra Vivì si vergogna della sua ombra; figuratevi di voi, signor Ferraris».

Ludovica non si mostrò nemmeno allora, nonostante l'accenno alla vergogna la indispettisse non poco. Udì quell'uomo, Ferraris, ridere sommessamente; ridere di lei, dunque, come se la sua timidezza fosse qualcosa di sciocco. Il suo nome non le diceva niente e il suo volto, per quel che aveva potuto vedere, la spaventava.

«La marchesina vorrà andare a giocare, immagino, piuttosto che fare la mia conoscenza», constatò lui, inclinando il capo sulla spalla per individuare la bambina.

Galatea afferrò la mano della figlia, la mano con cui lei si aggrappava alla sua vita, e cercò invano di trarla accanto a sé; arrendendosi, concluse: «Potrete vederla domani insieme ai fratellini; adesso è tardi».

«Certamente, signora,» disse Ferraris, «per non dire che la marchesina ha tutte le ragioni di volermi evitare: ha già avuto modo di conoscermi tempo fa».

A quelle parole, Ludovica scattò sulle punte e protese il viso sotto il braccio della madre, per spiare pensando di non essere vista: eppure no, Ferraris non era l'uomo della dispensa; troppo diverso nell'aspetto, troppo diverso nella voce e nell'atteggiamento. Tuttavia, quella frase misteriosa l'aveva incuriosita al punto da spingerla a uscire, a mostrarsi sebbene titubasse sotto lo sguardo penetrante dell'unico occhio.

«Mamma...?» balbettò, fissando la benda.

«Il signor Ferraris era a corte quando sei nata: ti ha visto prima che partissimo per venire qui», rispose pacatamente, accompagnando le parole con una lunga carezza sui capelli della bambina. Fatto ciò, la sospinse teneramente verso la porta, dandole appuntamento più tardi, quando sarebbe andata a dormire. La piccola sgattaiolò dalla porta come un leprotto spaventato e in meno di un attimo sparì nel silenzio del corridoio.

La luce era poca perché il sole cominciava a calare, mentre i lampadari erano ancora spenti. Ferraris attese che la marchesa lo affiancasse prima di avviarsi a propria volta verso la scalinata per cui avrebbero raggiunto la sala da pranzo. Una buona cena li stava aspettando.

Nonostante i morsi della fame avessero cominciato a farsi sentire, il consigliere ducale aveva altro per la testa; viveva quasi un déjà-vu di cinque anni prima accanto alla medesima giovane donna in una situazione indubbiamente simile alla precedente. La tentazione di approfittare dell'atmosfera intima lo spinse ad avvicinarsi a lei, a far scivolare delicatamente la mano sotto il suo gomito, prendendola a braccetto. La accarezzò risalendo fino al polso cinto di bracciali, insinuò le proprie dita tra le sue e si sorprese di trovarla accondiscendente. Allora si fermò, si volse verso di lei e le afferrò d'un colpo anche la sinistra, chinando la fronte per incontrare la sua, nella speranza di riuscire a baciarla. Lei gli negò solo quest'ultima soddisfazione; per il resto, rimase in sua balia come una bambola, lo sguardo vacuo e inespressivo rivolto alla parte di corridoio già percorso, temendo forse che la porta della camera si aprisse nuovamente e qualcuno potesse sorprenderli. Ferraris poté sfiorarle la guancia con la punta del naso, anelando scendere più in basso, al collo e alle spalle in parte scoperte dal vestito. Il suo respiro si era fatto quasi affannoso e il suo petto sussultava per i battiti del cuore infuocato di passione.

«Galatea...» sussurrò; la sua voce era alterata dalla forte emozione. Lei rispose con un mugolio stentato, quasi un lamento, e chiuse gli occhi appoggiandosi a lui. Passò un istante di interminabile silenzio, poi: «Siete un caro amico, Alessandro. Non rovinate tutto per qualche desiderio proibito», mormorò.

Ferraris spostò le mani sui suoi fianchi, come a misurare l'ampiezza del suo ventre: «Quando un sogno diventa ricorrente, non lo si dimentica più. E voi siete stato il sogno ricorrente per cinque anni».

La marchesa sorrise smagata: «Credete che le notizie delle vostre avventure non giungano anche qui?» domandò, provando a scostarsi con delicatezza.

«Le avventure sono avventure; voi siete un'impresa, madama», la corresse, lasciandola libera di muovere un passo indietro, quanto bastava a farla sentire a proprio agio in sua presenza.

«Evitate le galanterie, non hanno presa.»

Galatea riprese a camminare, le mani giunte sul grembo e l'andatura tranquilla e modesta; Ferraris le tenne dietro come se una corda lo assicurasse a lei; la seguì, la rincorse e la raggiunse, ma non riuscì a guardarla negli occhi per via del suo ostinato sguardo basso. Avrebbe voluto cambiare atteggiamento, mostrarle il lato più umano e sensibile della propria anima, ma gli parve di percepire nell'aria una certa tensione contraria; evitò di tediarla con argomenti troppo pesanti, argomenti che avrebbero davvero peggiorato il suo umore. Meglio continuare con un gioco di corteggiamento ben congeniato, tale da non offendere ma nemmeno da essere preso alla leggera.

«Nemmeno una vostra lettera in tutti questi anni...» disse, dondolando un poco sui tacchi delle scarpe. Notò, con la coda del suo occhio buono, che il colorito delle sue guance si era acceso di pudico rossore, segno che la freccia aveva colpito il bersaglio.

«Credevate che vi avrei risposto? » ribatté infatti, tradendo nel tono stizzito una vena di divertimento innocente.

«Francamente», ammise, «speravo che non rimaneste fredda alle mie parole.»

L'accentuarsi del suo rossore gli diede ulteriore conferma; il fremere delle sue labbra gli provocò un piacevole brivido di vittoria. Tuttavia, il suo volto era ancora eccessivamente serio e il suo portamento troppo rigido.

«E lui?»

«Lui?»

«Non vi nascondete dietro tanto candore, madama: lui le ha lette, vero, le mie lettere?»

Fu Galatea, questa volta, ad arrestarsi nel bel mezzo del corridoio, a volgere uno sguardo smarrito al proprio accompagnatore: da quei grandi occhi grigi carichi di timore, Ferraris carpì ogni cosa.

«Dovrò regolare qualche conto con vostro marito, quando sarà tornato», constatò con un sospiro.

«Conto? Quale conto?» balbettò.

«Oh, via!» l'esclamazione gli sfuggì spontaneamente dalle labbra. «Sapete benissimo di cosa parlo; spero solo che abbiate passato momenti piacevoli tanto voi quanto lui.»

La marchesa, rossa scarlatta in viso, si affrettò verso la scalinata, ormai distante solo pochi passi; Ferraris rise sommessamente e si mosse con calma,senza l'ardire di raggiungerla di nuovo. Gli piaceva scherzare con lei, perché la trovava un'interlocutrice al contempo sveglia e pudica: comprendeva ogni allusione e si sdegnava per quelle più spinte, senza però cadere nel gretto moralismo di certe altre conoscenze. Dopo l'accaduto, però, l'equilibrio poteva essersi rotto; e la distanza aveva frapposto un muro difficile da scavalcare,persa ormai la confidenza dei primi tempi. Il sorriso beffardo scomparve dalle labbra di Ferraris e una mano risalì a sfiorarle, tardivo pentimento per aver pronunciato parole inopportune; e i denti morsero un poco le dita che avevano osato scrivere tante volte frasi dall'aspetto raffinato ma dal succo ben più aspro e mordace. Che cosa ne fosse stato di quelle idee, in fondo, non era affar suo: tutto ciò era stato prima di molti fatti importanti; nessuno avrebbe potuto garantirgli che la marchesa con cui aveva parlato fosse la stessa donna di tre mesi prima.

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