Fine maggio 1676

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Dopo una fredda lettera di risposta, Galatea non aveva più avuto notizie da suo marito e nemmeno l'aveva visto arrivare nei tempi previsti. Anche l'abate aveva ricevuto una lettera, ma non ne aveva condiviso il contenuto con lei, facendo quasi finta di non saperne nulla.

Se non altro, la presenza dei tre monaci aveva incuriosito i marchesini e, benché fossero figure piuttosto schive, tuttavia capitavano occasioni di conoscenza reciproca; Matteo, soprattutto, traeva piacere dalla compagnia giocosa dei bambini e, con il pretesto di essere un buon ospite per la signora, non mancava mai di passare qualche ora con loro. Galatea, il più delle volte, se ne stava alla finestra a guardarli: dopo le prime diffidenze, Ippolito aveva manifestato tutta la sua simpatia, mentre Costanza si guardava ancora dall'estraneo in abito nero. Era stata la prima persona di fronte alla quale sua madre si fosse inchinata e questo aveva tanto turbato la bambina da renderla oltremodo sospettosa e guardinga. Ludovica, da ultimo, impressionata dal suo primo incontro con l'abate, lo trattava con timidezza e faceva il possibile per evitarlo senza risultare scortese; il più delle volte gli sorrideva senza spiccicare parola.

Matteo viveva spensierato i momenti di gioco, come spogliandosi della tonaca e assumendo le vesti del padre amorevole; gli spiaceva che la marchesa non partecipasse. Di tanto in tanto alzava gli occhi e la scorgeva dietro i vetri della sua camera, le tende appena scostate. Lei sorrideva, ma era un sorriso intriso di malinconia. E quella malinconia risvegliava un'altra tristezza, una tristezza che il monaco pensava di aver seppellito sotto un buono strato di rassegnazione cristiana.

A più di una settimana dall'arrivo, l'abate era diventato una figura di riferimento per tutto il palazzo. Galatea gli lasciava volentieri questa parte, mentre si occupava della gestione delle attività quotidiane: l'essere impegnata la distraeva dai tanti pensieri e, allo stesso tempo, avere al proprio fianco un sostegno così energico come Matteo non poteva che giovarle. Quest'ultimo, però, si rendeva conto, con il passare dei giorni, della cappa d'ombra che aleggiava attorno alla marchesa: quasi inavvicinabile, insospettabilmente schiva, stentava a riconoscerla per la giovane donna che ricordava. Perciò, approfittando di una felice congiuntura che li vide entrambi nei giardini a passeggiare, le chiese l'onore di poterla accompagnare da solo. Lei, dopo un momento di titubanza, congedò le dame che la seguivano e gli accennò di farle strada lungo il suo cammino preferito. Imboccarono un sentiero di ghiaia che si perdeva tra i cespugli ornamentali; il silenzio, in principio, regnava sovrano tra loro. Poi, tra un'avemaria e l'altra, l'abate cominciò a dire: «I vostri bambini sono belli come voi, sapete?»

Galatea sorrise impercettibilmente senza rispondere; chinò la testa e chiuse gli occhi, continuando a camminare lenta. Matteo, tenendo il suo passo, si abbassò un poco per guardarla in viso e trovò che quel tenue sorriso di poco prima si era già spento; le sue labbra erano languidamente imbronciate.

«Ludovica è il vostro ritratto», riprese allora nel medesimo tono gaio di prima. «Ha preso i colori di suo padre, ma è tutta uguale a voi».

«Anche il carattere è quello di Ottavio», ammise lei, ma la sua voce era spenta.

L'abate annuì energicamente: «Sì,» disse, «quando la guardo negli occhi, mi sembra di guardare lui!»

Galatea si rialzò e prese un profondo respiro: «Capita la stessa cosa anche a me».

«Il musino di Costanza, invece, non so da che parte arrivi. Il piglio è quello della madre.»

«Solo un po' più viziata.»

La marchesa si fermò e si volse indietro, risalendo con uno sguardo la strada percorsa fino ad arrivare alle finestre del primo piano: a quell'ora i bambini cenavano nella loro stanza; a breve si sarebbero messi a giocare.

«E Ippolito...» concluse il monaco, un poco discosto. «Ippolito è un francesino, ha i capelli di sua nonna Anne Louise... Ma ha i vostri occhi.»

Galatea era immobile, ancora voltata verso il palazzo; il suo viso era il ritratto dell'apprensione.

«Non sono proprio i miei...» disse, aguzzando la vista all'udire un lontanissimo, quasi immaginario rumore di zoccoli. Anche l'abate si fece attento, mentre una piccola speranza si affacciava al cuore di entrambi, segretamente.

La marchesa fu la prima a riprendere a camminare; stringeva la gonna nelle mani e la teneva sollevata più del dovuto, per guadagnare velocità. Non diversamente Matteo reggeva la tunica nera e si affrettava al suo fianco. La ghiaia dei giardini non assecondava la loro premura e il leggero tacco delle scarpette di lei affaticava le sue caviglie. L'abate, a un tratto, le offrì il braccio come appoggio, ma lei lo ricevette sovrappensiero e non si preoccupò nemmeno di ringraziare. Casomai, invece, lo incitava a tenere un passo serrato che lei per prima non era in grado di reggere. La verità era che quel rumore di zoccoli si era già spento e con esso la flebile speranza che aveva suscitato. Erano due assetati che rincorrevano un miraggio: più si avvicinavano, più la fonte desiderata sfuggiva loro tra le dita.

Galatea si gettò oltre la porticina a vetri e risalì il corridoio, libera, all'improvviso, dall'impaccio dello sterrato. L'abate, scrollandosi la tunica per ripulirla dalla polvere, faticava a starle dietro e perdeva, nell'affannarsi, tutta l'autorevolezza della propria figura. Quando furono prossimi all'atrio dell'ingresso cominciarono a distinguere un piccolo gruppo di persone ancora ammantate; la servitù ronzava loro attorno come le api attorno all'alveare; le loro voci, soprattutto maschili, suonavano allegre e rilassate nel rimbombo del soffitto a volta.

All'apparire della marchesa, tutto tornò silenzioso; le serve si fermarono a capo chino, il maggiordomo si impettì e gli ospiti appena arrivati fecero cenni di riverenza, cappelli piumati alla mano. Galatea esaminava i volti di ciascuno di loro nella speranza di riconoscerne uno; ma al suo posto ne trovò un altro e il suo cuore perse un battito.

«Signore?» bisbigliò sorpresa.

Ferraris parve non aver aspettato altro che quella precisa interrogazione per farsi avanti; si trasse dal gruppo dei suoi accompagnatori e raggiunse la padrona di casa, le prese rispettosamente la mano e gliela baciò sotto lo sguardo curioso dei presenti: nessuno, infatti, aveva dimenticato la vicenda del loro fidanzamento, benché fossero ormai trascorsi cinque anni da allora.

«Vostra Altezza, perdonate la visita inattesa», disse rialzatosi. «Ho creduto bene, trovandomi da queste parti, di venire a contemplare la vostra bellezza dopo tanto tempo.»

Galatea ristette, ma quando fu sul punto di rispondere al complimento, Ferraris la anticipò, presentandosi al cospetto dell'abate: «Reverendo padre,» e gli baciò l'anello, «considero un grande onore poter fare la vostra conoscenza».

«La vostra fama vi precede di un buon tratto, signor Ferraris», ribatté Matteo con un tono piuttosto diffidente. «Per questo posso dire di conoscervi già.»

Il gentiluomo lasciò intendere con un'occhiata di aver molto più da corrispondere che non quel sorrisetto ossequioso, ma che le circostanze limitavano il numero e il tenore delle parole. Ad altre condizioni avrebbe sciorinato con piacere tutto il necessario.

«Venite dalla capitale?» domandò la marchesa, interrompendo il muto confronto tra i due uomini. Ferraris fu felice di potersi rivolgere nuovamente a lei, sebbene l'abate non gli incutesse nessun timore e, anzi, stuzzicasse il suo carattere di attaccabrighe.

«Giustappunto,» disse sollevato, «vostro marito mi ha chiesto di comunicarvi che nel giro di qualche giorno sarà qui».

«Sia ringraziato il Cielo!» sussurrò lei, giungendo le mani. Quindi, avviandosi verso il centro dell'atrio, aggiunse a voce più alta: «Vi prego di aver pazienza, cari ospiti: troveremo a ciascuno una sistemazione conveniente. Purtroppo, alcune stanze sono già occupate dal reverendo abate, ma entro sera tutto sarà accomodato. Nel frattempo, vi invito a riposarvi dal viaggio e a prepararvi per la cena che verrà servita tra poco. Sarò deliziata di cenare con voi».

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