Primi di maggio pt. 2

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Ludovica si rigirava nervosamente le mani in grembo, stringendo la presa ora attorno ai piccoli polsi, ora attorno alle dita; talvolta si mordeva il labbro con l'unico incisivo superiore da latte, rannicchiata piuttosto che seduta sulla poltroncina. Di fronte a sé aveva quel monaco nero e serio che la scrutava minuziosamente senza tradire la minima emozione. Più lo fissava, più si chiedeva perché la sua mamma volesse sottoporla a quel supplizio: si chiese se avesse combinato qualcosa di male, se avesse fatto troppi capricci... O se si trattasse di quell'uomo sconosciuto di cui aveva parlato diversi giorni prima.

Il monaco non si muoveva, anche i suoi occhi erano immobili, ostinati. Ludovica respirava come un topolino, ma non distoglieva l'attenzione nemmeno per un istante; era così preoccupata dalla figura del religioso che stentava addirittura a cercare sua madre con rapidi sguardi. Eppure la mamma era lì, alle spalle del monaco, con un viso che avrebbe voluto ispirare tranquillità.

Quello di Galatea, invece, era il viso di chi si consegna interamente nelle mani di qualcuno di cui si fida, rimanendo però titubante. Quella titubanza era l'unica cosa che la sua presenza trasmetteva alla bambina. Galatea, ben intenzionata, aveva deciso di rimanere in disparte, fuori dal campo visivo dell'abate, in modo che lui potesse farsi un'impressione il più imparziale possibile della figlia. Trepidava nell'attesa, voleva sentire che cosa le avrebbe chiesto, che piega avrebbe preso il colloquio, come si sarebbe comportata Ludovica. Il silenzio durava ormai da troppo tempo.

«Ludovica Anna Malancisi», la chiamò tutto d'un tratto il monaco con tono imperioso; la bambina scattò seduta impettita, il visino pallido e stralunato.

«Sì?» bisbigliò con un filo di voce. Lui riprese l'espressione austera e indagatoria, ma con intonazione del tutto diversa la vezzeggiò: «Mi concedete il privilegio di chiamarvi Vivì?»

La bambina, turbata dalla netta incongruenza tra l'apparenza e i modi dell'interlocutore, accondiscese muta.

«Cara Vivì,» riprese l'altro, «sono qui a parlare di quella persona cattiva che avete visto nella dispensa.»

Ludovica annuì, manifestando istintivamente tutta la sua buona volontà: sperava che il monaco apprezzasse e facesse in fretta.

«Ditemi bene com'era questa persona: era un uomo o una donna?»

«Un uomo, reverendissimo padre», rispose puntuale, guardando la madre nel pronunciare le ultime due parole. La marchesa annuì e le accennò di continuare, ma lei preferì tacere, non essendo stata avanzata nessun'altra domanda. L'abate sembrò compiaciuto dalla reverenza della piccola e lasciò passare qualche momento di silenzio.

«E come fate ad esserne tanto sicura?»

Questa volta, Ludovica non fu così pronta a rendere conto della propria affermazione e ristette; poi si fece forza e disse: «Era tanto alto e anche forte e aveva i pantaloni... E la voce da maschio».

«Della voce parleremo dopo. Ditemi, ora: com'erano i suoi vestiti?»

Ludovica si prese del tempo per ricordare con la massima precisione, poi cominciò stentatamente: «Erano scuri, forse erano neri... Ma era buio e io avevo paura, non ho visto bene».

«Non vi viene in mente nulla di particolare?»

«Mi viene in mente solo che puzzava», ammise candidamente.

L'abate, abbassando un sopracciglio con un'espressione di disgusto malamente dissimulata, ripeté: «Puzzava?»

«Sì, tanto!» continuò la bambina, senza vergogna. «L'ho sentito quando mi è passato vicino. Non ho mai sentito una puzza così forte.»

Il monaco si volse leggermente verso la marchesa, come a cercare una conferma; Galatea, trovandosi a propria volta interrogata, fece spallucce e rispose sottovoce: «Quando sono arrivata, non c'era nessun odore strano; come sapete, una dispensa è ricca di profumi, e la porta era aperta...»

Quando si voltò di nuovo verso di lei, Ludovica capì subito che le parole di sua madre non avevano fatto che insospettirlo; invece che rassicurarlo sulla sua sincerità, l'avevano reso ancor più corrucciato e le sopracciglia tese sugli occhi non le ispiravano sensazioni gradevoli. Temeva che la considerasse una bugiarda solo perché sua madre non aveva sentito la puzza, quindi si affrettò a difendersi: «Signore, credetemi! Io sono sicura che puzzasse tanto! L'ho sentito io, sapeva di sudore come uno che non si profuma mai!»

«Non ho dubbi, cara Vivì,» la interruppe alzando leggermente la mano destra, «ora però state attenta e rispondete sincera: quell'uomo portava un mantello nero?»

«Mi pare di no», replicò senza esitare, lasciando intendere che la formula usata fosse un semplice vezzo e non un'espressione di dubbio. Per sentirsi più a proprio agio sotto lo sguardo inquisitore dell'abate cominciò a far penzolare le gambe avanti e indietro impercettibilmente. Sua madre, di solito, le diceva di evitarlo, di stare composta e ferma; pure, in quella circostanza, Ludovica vide gli occhi del monaco farsi un po' più dolci e le sue guance un po' meno inespressive. Non guardò la mamma per timore che la rimproverasse davanti a lui.

«Pensateci bene: lo portava?» domandò di nuovo; anche la sua voce tradì un certo struggimento velato.

«No, non lo portava», scandì, come se si sentisse presa in giro.

«Mi avete detto che avete sentito la sua voce; com'era?»

«Era la voce di un signore cattivo», rispose scontata, arricciando il naso. Lo sguardo dell'altro tornò improvvisamente serissimo e lei, timidamente, aggiunse: «Era scura, sembrava un cane quando ringhia».

Il volto dell'abate non cambiò, questa volta, e i suoi occhi si fecero acuminati come spilli: «Vi ha messo addosso freddo, come di neve tra le spalle?» indagò, nuovamente sospettoso. Attendeva la risposta come se da essa dipendesse l'esito di tutta la conversazione. Ludovica intuì quanto quel frangente fosse importante e, ancora una volta, si prese il tempo necessario a chiarire le idee, prima di sussurrare: «Non ho provato freddo, solo paura. Avevo tutte le braccia con la pelle d'oca, e anche le gambe».

L'abate le diede le spalle e finalmente poté prendere un profondo sospiro di sollievo; guardò la mamma e la vide con le mani strette ai polsi, le guance pallide e lo sguardo lucido di chi sta per piangere. Lei, però, osservava attenta e vigile il monaco, che aveva preso a girare la stanza con passo lento e meditabondo; sul suo viso si leggeva chiaramente il suo essere sospesa su un abisso. Ludovica rabbrividì a quella vista, ricordandosi di un'espressione non tanto diversa, ma fortunatamente assente da qualche tempo dal volto di sua madre. C'era stato un periodo, non molto prima, in cui la marchesa non era uscita dalla camera da letto; piangeva, là dentro, e i suoi singhiozzi superavano la porta chiusa e percorrevano i corridoi come degli spettri.

Con quella memoria stretta intorno al cuoricino, Ludovica scattò in piedi senza permesso e si precipitò dalla mamma, cingendole la vita e baciandole il grembo, perché più su, da sola, non riusciva ad arrivare. Percepì le carezze sui capelli, sulle guance, sulla fronte; quindi si sentì sollevare, allargò le gambe e con quelle si avvinghiò ai fianchi della mamma, dove cominciava la gonna vaporosa. Nascose il viso nell'incavo del collo e provò un piacere indescrivibile alle carezze che la madre le faceva sulla schiena.

«Non abbiate paura, mamma», la rincuorò, temendo che la sua malinconia fosse dovuta a qualcosa che aveva detto.

Galatea non cessò di accarezzarla delicatamente; ma percepiva un vuoto incolmabile attorno a sé: scorrendo gli occhi intorno, incontrò il volto del l'abate e vi scorse tante emozioni cupe. Lui, da parte sua, intuì, con la grande sensibilità di cui era dotato, lo sconforto e la paura che aleggiavano nell'aria.

«Non succederà nulla dimale, ve lo prometto», disse piano. «Finché Ottavio non sarà qui, ci sarò io.»

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