Fine maggio 1676 pt. 4

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Dalle poche parole che si erano scambiati nel corso della mattinata, Ottavio aveva solo intuito la profondità dell'abisso in cui Galatea era precipitata con l'andare dei giorni: durante la sua assenza la situazione era imprevedibilmente peggiorata, quando invece, aveva pensato partendo, avrebbe dovuto ricomporsi. Gli era parso di non essere una presenza rassicurante per lei, gli era sembrato meglio per tutti prendere un respiro, separarsi, ritrovarsi rigenerati e sollevati. Invece nessuno dei due aveva guadagnato granché dalla lontananza, se non un acuirsi di quel fastidio, di quella noia. Era come se si fossero disabituati alla reciproca compagnia, come se un mese senza vedersi avesse cancellato cinque anni di convivenza più o meno continua. Aveva incontrato un'estranea sulla soglia di casa; e Galatea aveva dato il benvenuto a uno straniero. Avevano diviso un letto che pareva non essere il loro, avevano cenato a una tavola fredda e insignificante.

Era accanto a Ferraris mentre ci rimuginava e questo non lo aiutava. Di tanto in tanto guardava di sottecchi il nobiluomo con fare indagatore, la mascella rigida e le sopracciglia basse. Erano di fronte a un davanzale e aspettavano. Avevano discusso ancora, sottovoce, e alla fine se ne erano rimasti lì, zitti.

Aspettavano due cose diverse: uno aspettava l'arrivo dell'abate, l'altro aspettava l'arrivo di Galatea. Tacendo, evitavano di rivelare il motivo che li tratteneva vicini nonostante la comune antipatia. Trovandosi quella finestra proprio dirimpetto alla scalinata principale, avevano creduto entrambi che fosse il luogo migliore dove fissare l'appuntamento.

Fu la marchesa ad arrivare per prima: dopo un riposo breve e poco ristoratore, si era rifatta il trucco ed era pronta a mostrarsi nuovamente agli ospiti. Ferraris la vide e si impettì; Ottavio, incuriosito dal suo movimento, aveva volto il viso nella sua direzione, quindi verso le scale. Il suo respiro si era mozzato, esattamente come la sera precedente. Galatea, vedendolo, abbassò gli occhi, sebbene fosse stato proprio suo marito a invitarla: non sapeva perché l'avesse fatta chiamare, ma trovarlo insieme a Ferraris la indusse a credere che si sarebbe parlato di quel carteggio lungo cinque anni. Arrossì, non seppe se di stizza o di pudore, ma non si fermò e arrivò al loro cospetto con la faccia dura e il portamento compunto di una condannata a morte.

«Signori», esordì, come tenesse il suo ultimo discorso; ma non continuò, piuttosto contemplò le espressioni dei due uomini che parevano pendere dalle sue labbra. Ristette, deglutì; d'improvviso si ritrovava al centro dell'attenzione in un modo nuovo, ormai dimenticato. Non avrebbe mai pensato, fino a un attimo prima, di poter suscitare ancora quegli sguardi gelosi e anelanti: si sentiva ormai sfiorita, appassita come una rosa lasciata seccare al sole di un pomeriggio troppo caldo.

«Madama?» la imboccò Ferraris, cui subito si associò Ottavio dicendo: «Parlate pure senza riserve».

D'un tratto, Galatea non aveva più nulla da dire. Era ammutolita, i suoi argomenti le apparivano ora privi di ogni senso. Esporli come avrebbe voluto non sarebbe valso più a nulla, sarebbe stato un inutile ripetere qualcosa di già superato. E poi, proprio in quel frangente, l'abate spuntò in cima alle scale, le scese agile e scattante come un ragazzino e raggiunse lo strano trio alla finestra.

«Signori,» cominciò, «avete richiesto la mia presenza, non sbaglio?»

«Non sbagliate, Reverendissimo padre», rispose Ferraris con un inchino. E il marchese aggiunse: «Vorrei mostrarvi il mio studio; non credo vi siate già stati in mia assenza».

Galatea, confusa, seguì i tre uomini lungo il corridoio con l'intenzione di accompagnarli alla meta e nel frattempo capire perché Ottavio l'avesse mandata a chiamare senza spiegazioni. Il timore che volessero giudicarla per qualche fatto del passato, per qualche leggerezza o qualche concessione di troppo al piacere dei sensi, la fece avvampare una seconda volta. Per istinto, non per altro, cercò gli occhi del marito, che però stava parlando con l'abate suo amico e quindi non poté notarla. Si sentì piccola, Galatea, si sentì fragile e invisibile; rallentò, presto si distaccò dal gruppetto che, tra una risata sommessa e un'osservazione arguta, percorreva il corridoio con estrema naturalezza. E lei aveva piedi di marmo al loro confronto, e i suoi movimenti erano pesanti, il suo umore strisciava a terra insieme allo strascico. A impensierirla di più furono i servitori che incontrò nella sua mesta passeggiata: anche loro la giudicavano, ora che suo marito era ritornato a casa e non era più lei a reggere il palazzo. I loro occhi bruciavano la sua pelle come marchi d'infamia; ma non era una ladra, lei, né un'assassina... Un'assassina?

Una risata infantile le trapassò l'anima, non meno affilata di una spada. Si volse di scatto, muta e pallida, e Costanza le si gettò nella gonna, affondandoci divertita. Dopo di lei arrivò Ippolito, sfuggito come la gemella alla presa della balia Caterina. Al vedere passare la mamma, cosa inusitata a quell'ora del pomeriggio, non avevano resistito al desiderio di farle festa. Per un breve frangente il sorriso rianimò di colore le guance della marchesa, dopo che si fu inginocchiata per farsi baciare dai suoi bambini.

«Mamma! Mamma!» chiamavano in coro, senza nemmeno immaginare quanto quel nome significasse per lei. Ottavio, che probabilmente lo sapeva, diede ordine che li si lasciasse giocare; alle occhiate dei due ospiti, che comprendevano la tenerezza paterna, ma esigevano anche una certa rapidità, il marchese rispose con pochi cenni risoluti: che avessero pazienza, non ci sarebbe voluto poi molto. Galatea aveva bisogno di quelle attenzioni pure, scevre, ai suoi occhi, da qualsiasi interesse meschino; solo i suoi bambini avrebbero potuto darle prova di quanto affetto potesse ancora ricevere gratuitamente.

«Madama,» la chiamò dolcemente, prendendole con delicatezza il braccio, «siamo quasi arrivati.»

Galatea sollevò lo sguardo su di lui: la scintilla della felicità illuminava le sue pupille, ma era ancora così minuta da minacciare di spegnersi. Perciò Ottavio si permise di inginocchiarsi come lei, di sottrarle piano i bambini e di attirare su di sé tutta la sua attenzione. «Lo studiolo è qui, a pochi passi», disse. «Venite, per favore.»

«Andate pure, e scusate la mia maleducazione...» rispose. «Vorrei passare questo tempo con i miei figli.»

Tuttavia, si rialzò insieme a lui e non smise un solo momento di guardarlo intensamente. Al che Ottavio, che le aveva stretto la mano per aiutarla, la prese a braccetto e le mostrò la strada.

«Si discuterà di cose importanti, madama», disse allora l'abate con aria molto seria.

«Importanti?» tremò Galatea, e quel piccolo lume nei suoi occhi sussultò come se un freddo alito di vento vi avesse soffiato contro.

«Siamo qui per questo, madama, per parlare di cose importanti», spiegò Ottavio, e aggiunse sottovoce: «Per il bene dei nostri bambini.»

La marchesa si riscosse, comprendendo finalmente quale sarebbe stato l'argomento da dibattere. Ciononostante, o forse proprio per questo, strabuzzò gli occhi e si puntò l'indice sul petto: «Anch'io?» sussurrò.

Erano giunti davanti alla porta dello studiolo: non vi era mai entrata se non come moglie del marchese; non aveva mai preso parte a nessuna riunione, a nessun consulto. Quando varcava quella soglia, di solito, lo faceva per trarne fuori il marito ad ore tarde o in occasione di eventi eccezionali.

Ferrari e l'abate aspettavano, entrambi con le mani dietro la schiena e un sorriso complice sul volto; volgendosi a Ottavio, Galatea trovò che avesse la stessa espressione arguta dei due compagni.

«Anch'io?» ripeté a voce un po' più alta.

«Senza di voi, madama, sarebbe una discussione a metà», osservò l'abate per primo, con un'occhiata incoraggiante. Ferraris gli fece eco dicendole con tono fermo e conciliante: «La vostra presenza è assolutamente necessaria».

*

«Dunque», cominciò Ottavio, facendo spazio sulla scrivania e indicando uno scaffale a Ferraris, «le cose sono ancora piuttosto confuse, ma, trovato il bandolo, la matassa si scioglierà.»

Galatea, in piedi ad un'estremità del tavolo, poggiava le mani sul piano per frenare la propria irrequietezza e non farla trasparire in modo troppo evidente. L'abate, intanto, serrava la porta con diversi giri di chiave. Ferraris, di fronte alla libreria, scorreva rapidamente i dorsi dei libri dello scaffale indicatogli dal marchese, attendendo un suo cenno.

«Quello, proprio quello!» gli disse questi a un tratto, andandogli incontro. Si trattava di un volume di grandi dimensioni, rivestito in un cuoio lucido e resistente; lo adagiarono sulla scrivania e cominciarono a sfogliarlo: erano carte, sufficientemente dettagliate, delle varie regioni del ducato. I colori vivaci di fiumi e boschi contrastavano con i tratti neri e fini degli appunti che comparivano ai margini o in corrispondenza di luoghi di una certa importanza.

«Non c'è una carta del ducato per intero?» domandò Ferraris a mezza voce. Ottavio lo accontentò senza proferire parola, spalancando con sicurezza il volume in corrispondenza di un disegno che occupava due facciate. Il ducato vi era rappresentato quasi come un'isola: solo la differenza tra l'azzurro vivo del mare e il marroncino delle terre confinanti aiutava ad orientarsi. Galatea, che non aveva mai prestato grande attenzione allo studio e alla lettura delle carte geografiche, faticò non poco a riconoscere la Marca stellata: per farlo risalì il corso delle montagne, stilizzate lungo il confine di nord-est. Incontrò presto il monastero della Vergine stellata e da lì, indovinando la direzione sulla base del paesaggio che le era familiare, trovò la strada per il proprio palazzo. Sulla carta era ancora indicato come un casino di caccia di secondaria importanza e l'antico nome, "Fonte smeraldo", era tracciato in piccolissime lettere. Ora il palazzo non si chiamava più così, aveva assunto il nome dei proprietari e suonava "Villa Malancisi della Stella", poiché la stella era entrata a far parte dello stemma di famiglia e designava il ramo cadetto di cui Ottavio era capostipite. Galatea vi passò un dito mordendosi le labbra, ripensando a quante cose, in pochi anni, erano cambiate; il marchese si accorse immediatamente dell'espressione assorta di lei e avrebbe voluto dirle qualcosa, ma Ferraris, alla vista del ducato intero di fronte a sé, si rianimò e prese a parlare velocemente, come un condottiero che si accinga a spiegare un piano di battaglia.

«Noi siamo qui», indicò da principio, puntando il dito verso la mano di Galatea. Tutti vi guardarono e la marchesa si scostò d'impulso, scusandosi sottovoce. L'indice di Ferraris scivolò sulla pagina in direzione del sud, fermandosi in una valle su cui risaltava in caratteri maiuscoli il nome Avella, la capitale; l'indice guizzò allora ad ovest, verso la costa, e si sovrappose a un piccolo golfo molto vicino al confine. Le sue parole, proferite con lucida rapidità, avevano già localizzato questi e altri luoghi strategici, ma, giunto che fu a quel piccolo golfo, la voce si spense e il dito si fermò. Tutti, dunque, si aspettavano che dicesse qualcosa riguardo a quel punto preciso; Ferraris, invece, tornò un poco indietro, vagò per un istante e quindi picchiettò l'indice su un nome: «Qui è stata prodotta la carta», bisbigliò, lanciando un'occhiata al marchese, che intuì immediatamente e tacque annuendo.

«Carta?» domandò Galatea con un tono squillante. «Di quale carta parlate?»

I due uomini ristettero, si scambiarono un altro paio di sguardi, quindi Ottavio ammise: «Una lettera che ho ricevuto quand'ero a corte».

«E che cosa significa questa lettera?»

«È legata al tentato rapimento del marchesino, madama», disse Ferraris, continuando a fissare la mappa sul tavolo. Galatea avrebbe voluto chiedere di più, ma la prontezza del nobiluomo fece sì che la sua attenzione si spostasse su quanto stava per esporre: «È su questa zona», proseguì infatti, senza darle tempo di parlare, «che dobbiamo concentrarci. La filigrana è molto particolare, da quanto ho visto; nessun'altra cartiera del ducato ne usa di simili. E la cartiera in questione è per giunta molto piccola: ho scoperto che se ne servono solo le stamperie di queste tre cittadine: Ponte San Giulio, Vallebruna e Trestalli. Altrove non viene adoperata».

Vallebruna corrispondeva a un minuscolo centro abitato situato proprio sul golfo a ridosso del confine. Galatea corrugò la fronte e fu sul punto di domandare di più, ma l'abate la anticipò: «Non è possibile che la carta circoli comunque per via marittima?» domandò, indicando a propria volta il golfo. «Vedo che qui c'è un porto: chiunque potrebbe essere sbarcato lì, potrebbe aver acquistato la carta ed essersene servito in un secondo momento, altrove.»

«Certo», convenne Ferraris. «Ma da qualche lato bisogna pur cominciare. La filigrana è in uso da un anno soltanto ed è improbabile che la carta abbia circolato in largo, date le dimensioni della cartiera e il bacino di acquirenti. Tendo a pensare che il nostro rapitore sia di quelle parti; in ogni caso, sempre per via delle caratteristiche delle tre cittadine, non sarà difficile scoprire se qualche straniero abbia acquistato dei pacchi di fogli.»

L'abate chinò il capo pensieroso, forse non del tutto convinto. Galatea, cogliendo l'attimo, si protese per segnalare il medesimo punto; notò che, mentre lo faceva, Ottavio e Ferraris, in un certo senso, la accarezzavano con gli occhi e quasi percepì, sulla pelle, quella sensazione. Questo non la imbarazzò e, restituendo sguardi altrettanto intensi, disse: «Perché poco fa avete indicato quel luogo, Vallebruna?»

«Ora mi spiego, madama», rispose prontamente, sistemandosi la cintura in vita. Dopo un respiro, riprese: «Trovo che, per scovare i nostri rapitori, sia necessario agire sul posto. È evidente che qualcuno, qui, intenda servirsi di voi per i propri scopi; ma non sappiamo perché e, soprattutto, chi. Vi ho detto che si tratta di tre piccoli centri e questo è ciò che mi lascia perplesso...»

«Vi recherete voi laggiù?» chiese ancora la marchesa, giungendo le mani sul grembo.

Ferraris si zittì, tese le labbra e replicò: «In verità, mi proponevo di mandare vostro marito in incognito».

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