Primi di giugno 1676 pt. 2

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L'abitazione era sprovvista del necessario per pulire: anche la scopa di saggina era stata resa inutilizzabile da termiti e muffe, così Galatea si era rivolta alle vicine di piano. Buone e comprensive, dopo una rapida presentazione furono tutte in casa sua ad aiutarla. Ludovica, invece, fu invitata a giocare in cortile insieme agli altri bambini; al momento di dire il proprio nome ai compagni ebbe una piccola esitazione, poi, ripensando alle raccomandazioni della mamma, rispose con voce limpida: «Mi chiamo Caterina».

Non aveva ben chiaro il motivo per cui il suo vero nome, che le sembrava così bello, non dovesse essere mai pronunciato; si fidava dei propri genitori e obbediva. Gli altri bambini la accolsero tra loro senza nessuna difficoltà e nel giro della mattinata strinse i primi legami di amicizia.

Galatea, che aveva recuperato il nome di Teresa, era stata felice di trovare uno spirito così generoso nelle vicine: l'idea di dover badare da sola a tutti i mestieri, per un attimo, l'aveva atterrita. L'esperienza come serva di Isabella De Spini le tornò comunque utile, dimodoché non passò per una completa incompetente agli occhi delle altre donne.

Ottavio, o meglio Tommaso Ferrarini, si trattenne il tempo di scaricare due piccoli bauli dalla carrozza; una volta che i bauli furono collocati sul pianerottolo di casa, salutò e scappò di nuovo giù, pronto a tuffarsi nell'intrico di vie del borgo con direzione la stamperia. Ferraris gli aveva lasciato un appunto scritto a carboncino su un biglietto: due indicazioni, un'insegna e un nome. Tanto fu sufficiente al marchese per orientarsi senza bisogno di chiedere ai passanti; nonostante volesse ostentare sicurezza, il peso degli sguardi era qualcosa che si avvertiva fisicamente. Camminava e al contempo udiva i mormorii, gli stessi mormorii che una mezz'ora prima l'avevano accolto al suo nuovo domicilio.

Solo la vista di un cigno rosso lo riscosse dallo stato pensieroso in cui era precipitato. Il cigno era dipinto su una pala di legno penzolante da ganci metallici sopra una porta con stipiti e architrave in pietra locale. Quella doveva essere la porta della libreria, ma per il primo incontro sarebbe passato da lì; prima di varcare l'uscio frugò nella giacca e sotto la cintura, poi, quando ebbe trovato la lettera di presentazione, passò oltre. All'interno trovò un banco sul quale erano ben esposti quattro esemplari di rilegatura; alle spalle del libraio, invece, giacevano sul fianco, impilati in modo casuale, volumi di dimensioni diverse, probabilmente in attesa di essere ritirati dai committenti. L'odore di carta e inchiostro era tanto pregnante quanto quello del mare era di fuori. Ottavio lo inalò ad occhi chiusi, inebriandosene.

«Buongiorno, signore. Che cosa cercate?» lo accolse il libraio, mostrandogli il suo miglior sorriso; un sorriso mancante di qualche dente, ma poco importava. Ottavio si presentò al banco e porse garbatamente la lettera dicendo: «Vorrei parlare con il maestro stampatore; ho in sospeso un contratto come correttore di bozze».

Il libraio gli fece intendere di aver capito a cosa si riferisse e, toccandosi il mento, tirò a indovinare: «Siete Ferrarini, giusto? Quello che si è fatto diseredare».

Ottavio, imbarazzato da tanta schiettezza, rispose con una risatina: «Sì, sono proprio io. Tommaso Ferrarini».

«Spero ne sia valsa la pena!» commentò l'altro, voltandosi verso una porticina che comunicava con l'officina di stampa. Ottavio, rimasto solo, non poté fare a meno di pensare al rapporto con Galatea: le parole del libraio, dopotutto, erano un'allusione più che chiara. E se avesse dovuto dare un parere su due piedi, questo non sarebbe stato positivo.

«Passate dal retro!» lo ammonì la voce del libraio, che Ottavio attese invano di vedere rispuntare. Si avviò dunque all'esterno, gettò qualche occhiata attorno e poi, lasciandosi guidare dal lieve rumore ritmico del torchio, riuscì a trovare un vicoletto che passava nella strada parallela. Una volta che fu dall'altra parte, fu facile trovare l'entrata; meno intuitivo fu capire chi fosse il maestro.

Due uomini erano al torchio: uno poneva su un carrello la forma con i caratteri allineati accuratamente, quindi afferrava le mazze e inchiostrava; l'altro, subito dopo, stendeva un foglio sul timpano, lo imbrigliava nella fraschetta e faceva correre il carrello, completo di pagina e forma, sotto la platina che li avrebbe schiacciati uno contro l'altro, effettuando la stampa vera e propria. Un terzo uomo lavorava in disparte, vicino a una finestra: componeva le forme carattere dopo carattere, in piedi di fronte alla cassa tipografica. La stanza, per nulla piccola o stretta, era dotata di aperture piuttosto ampie da cui entrava molta luce; la luminosità dell'ambiente, però, era compromessa dal disordine che regnava sovrano in ogni dove: pacchi di fogli aperti erano abbandonati in un angolo, fascicoli stampati erano raggruppati su un tavolone, divisi per volume e in parte già legati a formare un rudimento di libro; da un lato all'altro, infine, penzolavano ad asciugare fogli impressi di recente.

Ottavio conosceva il funzionamento teorico di una stamperia: i due uomini al torchio erano rispettivamente battitore e torcoliere, mentre l'uomo alla finestra era il compositore; del maestro, però, non c'era neanche l'ombra. Mosse qualche passo all'interno nell'indifferenza generale, finché a un tratto il torcoliere, che aveva appena mollato la barra del torchio dopo due energici tiri, si volse e lo notò.

«Ferrarini!» chiamò forte, come se tra loro ci fosse già una solida confidenza. «Ho saputo del vostro arrivo. La voce corre in un paese così piccolo, sapete? Dunque siete qui per lavorare: è la prima volta che vedete una stamperia?»

Mentre parlava, l'uomo si era avvicinato ad ampie falcate, niente affatto timido.

«Sì, è la prima volta, signor...?» replicò Ottavio, cercando di non sembrare impressionato dai modi del torcoliere. Questi, passandosi il braccio sulla fronte sudaticcia, si scusò della scortesia e scandì bene il proprio nome: «Roberto di Guglielmo Rossi, o solo Robertone». Era lui, era il maestro, il nome che compariva nell'appunto di Ferraris; il soprannome era giustificato dalla sua corporatura massiccia e non necessitava di altre spiegazioni: le spalle erano larghe, il collo robusto ben piazzato tra di esse e la testa ne usciva un po' piccola nell'insieme; il torace era proporzionato al resto del corpo e incuteva timore e rispetto fin dalla prima vista. Ottavio, da parte sua, ribadì di chiamarsi Tommaso Ferrarini e domandò quando avrebbe cominciato a lavorare.

«Anche subito, anche ora! Vedete, il nostro torcoliere si è rotto una gamba e per ora l'ho sostituito io. A voi! Toglietevi la giacca, che vi darà solo fastidio!»

Ottavio si scosse un poco e lo contraddisse: «Vi chiedo perdono, ma io sono correttore di bozze, non torcoliere! Io non...», ma l'altro, con gioviale irruenza, lo interruppe: «Qui siamo come una famiglia: se uno si fa male, gli altri lo sostituiscono. Non ci vuole grande istruzione per tirare forte una barra, non trovate? Ora non avrei nemmeno un testo da darvi da correggere». E parlando lo spinse verso il torchio.

«Vi presento il vostro collega, si chiama Bastiano. È stato un po' girovago da giovane e a volte fa strani discorsi, ma voi non preoccupatevene. È un giovanotto buono. Lui, invece,» continuò Robertone indicando il compositore, «lui è Nicolò, mio nipote, ha venticinque anni e ha appena ricevuto l'attestato. Starà qui ancora qualche mese, poi vuole andare a Milano o, meglio ancora, a Venezia a fare esperienza.»

Nel frattempo, Ottavio aveva tolto la giacca, tirato su le maniche della camicia fin sopra i gomiti e imbracciato la barra. Robertone gli tastò bene i muscoli delle spalle e delle braccia, constatando infine: «Non siete affatto debole, Ferrarini; e pensare che siete magro come uno scricciolo in apparenza! Dite a vostra moglie di farvi mangiare di più!»

Il torchio era già pronto all'uso; Ottavio puntò il piede contro il cuneo fissato a terra e trasse la barra con tutta la forza possibile, per due volte; quindi, spingendo più avanti il carrello, diede altri due colpi; poi, seguendo le direttive del collega, sfilò il foglio e lo appese ad asciugare con gli altri già impressi.

«Avete detto moglie?» domandò il battitore Bastiano, rigirando le mazze sulla lastra di pietra liscia su cui aveva versato dell'inchiostro. Era cosa strana, infatti, per un uomo impiegato nel settore tipografico, sposarsi prima dei trent'anni.

«Non ti ho raccontato la storia del nostro Ferrarini?» ribatté Robertone. «Cinque anni fa ha messo incinta una ragazzina di casa, una serva se non sbaglio, e poi l'ha sposata. Suo padre non ci ha visto più dalla rabbia e ha cacciato marito, moglie e pargolo tutto d'un colpo. È andata così, Ferrarini?»

Ottavio stava ponendo un foglio pulito sul timpano e attese un momento a rispondere. «Non avrei saputo raccontarla meglio di voi», fece in un mezzo bisbiglio. Bastiano percosse sapientemente i caratteri con le mazze inchiostrate, quindi accennò di far scivolare il carrello in posizione. Mentre Ottavio tirava la barra, abbassando la platina sul foglio, Robertone continuò con i commenti: «E come ve la siete cavata finora?»

«Ho fatto da istitutore presso una famiglia di mercanti, ma mi hanno dato il benservito. Se non fosse per mio fratello ora non saprei come mantenermi», e via, altri due secchi colpi di barra.

Robertonesospirò: «Siete capitato bene, qui. Non si diventa ricchi con una stamperia, maalmeno non si muore di fame».


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Angolo Autrice


Se volete vedere come funzionava un torchio manuale vi lascio questo link: https://www.youtube.com/watch?v=yeikqw0kyql&t=6s


Aggiungo anche una cartina di Vallebruna che potrebbe essere utile ad orientarsi

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