10. Se non ora quando

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Quella sera, Roma mi sembrava nuova, illuminata da una luna piena e brillante. Nella mia mente annebbiata dalle poche ore di sonno, la vista dei palazzi sconnessi che sfrecciavano distrattamente oltre il finestrino sembrava uno spettacolo magico. Le luci, anche se sapevo essere sempre le stesse, sembravano più brillanti, come se la città mi desse il miglior bentornata. L'ultimo giorno a Miami, dopo un'intera notte trascorsa con Marcello, era volato via rapidamente e il viaggio in aereo sembrava interminabile. Avevo un disperato bisogno di mettermi comoda e dormire. Fortunatamente, il taxi si stava dirigendo verso l'ultima traversa, avvicinandosi all'appartamento all'Eur. Mi rilassavo tra le sue calde braccia, godendo delle carezze delle sue mani, sentendomi completamente avvolta e coccolata. Il Marcello che avevo conosciuto durante il viaggio a Miami era ancora più freddo, controllato, con la mascella tesa, rispetto a quello verso cui avevo rivolto sguardi dolci dal bancone dello Shekinà.

Una volta arrivati all'appartamento, notai che la casa era stata aerata, il frigo era pieno e la pianta di ficus nel salotto era stata annaffiata. Mi avvicinai alla vetrata, gustando la meravigliosa vista, mentre le luci della città ai piedi del grattacielo sfavillavano in una varietà di tonalità, dal bianco brillante al giallo oro.

«Vuoi qualcosa da mangiare o da bere?» chiese il padrone di casa, avvolgendomi con le braccia intorno alle spalle.

«No, grazie,» risposi debolmente. «Vorrei solo un cuscino su cui sprofondare».

«Vieni». Mi prese per mano e mi condusse al piano di sopra, nella sua camera da letto. Era una stanza ampia, almeno il doppio di una normale camera. Dal terrazzo, c'era un letto matrimoniale distanziato da una sedia Barcelona con poggiapiedi e una serie di tappeti a pelo lungo. Sopra il letto c'era un quadro in stile contemporaneo, con pennellate ampie di grigio e porpora che mi inquietavano. Tutto l'ambiente mi rendeva nervosa, soprattutto perché non sapevo come sarebbero andate le cose una volta tornati a Roma. Era la prima volta che avrei dormito nella sua stanza, dato che in precedenza, quando mi ero fermata per la notte, c'era sempre stata la stanza degli ospiti al piano di sotto.

«Se vuoi puoi rinfrescarti, qui c'è tutto di quello di cui hai bisogno,» disse allontanandosi di qualche passo e accendendo la luce nel bagno. «Se hai bisogno, sarò nello studio, ho un po' di lavoro da sbrigare. Nel frattempo, riposati. Domani andremo allo Shekinà» concluse di fretta, un attimo prima di scomparire e chiudere la porta dietro di sé.

Saremmo andati allo Shekinà per annunciare a tutti la chiusura imminente del locale e avrei rivisto Paolo. Dopo il nostro litigio, non avevo più avuto sue notizie e mi infastidiva il fatto di non poter parlare con lui e chiarire le cose prima di mostrarmi al fianco dell'uomo che lui disprezzava. Paolo e Marta, ognuno a suo modo, mi avevano aiutato a crescere e per me erano più di semplici amici, erano come una famiglia di cui avevo sentito la mancanza fin dall'adolescenza. I miei genitori erano troppo presi dalle loro dispute per occuparsi della figlia che stava crescendo. L'opinione di Paolo era importante per me, quindi mi era difficile accettare il suo totale rifiuto nei confronti dell'uomo di cui, per errore, mi stavo innamorando. Desideravo ardentemente chiarire, tornare sui nostri dissapori. Ero stanca, confusa e i miei pensieri non riuscivano a seguire un filo logico. Avevo solo bisogno di dormire. Dopo una breve doccia, con i capelli ancora umidi e avvolti in un morbido asciugamano, mi sdraiai a letto ripensando a cosa avrei detto al mio caro ragazzo. Provai a convincermi di trovare il coraggio di chiamarlo il giorno successivo, appena sveglia, prima di raggiungere il locale. Avrei costretto Paolo ad ascoltarmi.

* * *

Aprii gli occhi, trasalendo. Il cuore mi batteva forte nel petto, mentre ero avvolta dal caldo della leggera trapunta. Frugai tra le lenzuola alla ricerca di Marcello, ma non c'era accanto a me. Presi il cellulare dal tavolino per controllare l'orario: erano le sei e un quarto. Erano passate solo poche ore da quando eravamo tornati a Roma. Marcello stava continuando a lavorare o forse era andato a dormire in un'altra stanza, considerando che il suo cuscino era intatto. Mi alzai e cercai qualcosa da indossare. Presi lo stesso vestito della sera prima, rinunciando alla biancheria intima. Dovevo passare a casa mia e prendere qualcosa di pulito. A tentoni, mi avvicinai alla maniglia e, aprendo la porta, vidi solo una luce surreale proveniente da una delle stanze all'estremità del corridoio.

Titubante, bussai timidamente alla porta. La mano che la toccò la fece aprire e vidi Marcello in piedi, il suo viso non tradiva alcun segno di una notte insonne. Il display del computer lo illuminava.

«Sei già sveglia?» mi chiese con un debole sorriso.

«Mi sono svegliata e tu non c'eri. Pensavo che avremmo dormito insieme» risposi rimanendo sulla soglia. «Tanto valeva portarmi a casa ieri sera» conclusi lasciando scappare un pensiero ad alta voce.

Restammo immobili, a studiarci reciprocamente, ognuno in attesa del gesto dell'altro.

«Devo passare a casa per prendere qualcosa di pulito» dissi disarmata di fronte al suo ostinato silenzio.

«Vieni qui» mi esortò sedendosi alla scrivania, senza rispondere alla mia richiesta.

Mi avvicinai lentamente, aggirando il grande cristallo ovale su cui erano sistemati penne, fogli e una sottile tastiera wireless. Marcello girò la poltrona per avermi di fronte e mi sedetti a cavalcioni su di lui. Affondai il viso sulla sua spalla, sentendomi piccola e avvolta dal suo abbraccio.

«Da oggi sarò ufficialmente disoccupata» lasciai sfuggire un pensiero ad alta voce. «Non c'è nulla che possa farti cambiare idea?».

«Lo Shekinà è un progetto superato per me. Adesso, ciò che ho in mente è qualcosa che Roma non ha mai visto. È qualcosa che in Italia è stato solo sfiorato, da Milano o da Rimini d'estate» disse con un'aria quasi sognante. «Lavoro su questa idea da anni, quindi non credere che sia un capriccio dell'ultimo momento. Devo passare il testimone dello Shekinà ad altri perché non posso gestire entrambi i progetti. Il Madama diventerà un polo di attrazione di prim'ordine. Ogni sera ospiteremo serate con DJ internazionali, e i PR sanno già che il pubblico selezionato e privilegiato sarà coinvolto. Voglio riportare la dolce vita a Roma».

«Un enorme circo vuoto» ironizzai caustica, ma le mie parole non riuscirono ad interrompere il flusso di pensieri di Marcello.

«Si chiude un capitolo con lo Shekinà, ma solo per fare spazio a qualcosa di ancora più elegante e maestoso. Ho costruito la mia strada mattone dopo mattone, quando le banche mi ridevano dietro, quando Dario neanche c'era... Ma tu non ne sai nulla» rimarcò duramente con le ultime parole.

«Be', hai ragione, non so nulla» ribattei colpita. Non ero a conoscenza di molte cose. Marcello voleva che fossi al suo fianco, ma senza condividere nulla tranne l'interesse di portarmi a letto.

«Posso almeno sapere cosa succederà?» domandai astiosa.

«A cosa ti riferisci?».

«A me, ai miei colleghi, a noi due...» le lacrime iniziarono a scorrermi sulle guance. Non volevo mostrarmi debole e insicura. Mi rimproverai di essere sciocca, ma non riuscivo a trattenere il vortice di emozioni che mi faceva girare lo stomaco.

«Un tuo sorriso rende semplici le cose complicate, ma ami rendere complicata una cosa semplice come stare insieme» disse spostando le mie mani dal viso in fiamme. «Perché pensi che noi non continueremo a vederci?» concluse retoricamente.

«Perderò il mio lavoro da barista e non avrò più la mia indipendenza. Non ho studiato né seguito i corsi nelle ultime settimane. Rischio di perdere l'opportunità di completare la tesi in tempo per non perdere l'anno» piagnucolai. «Invece di girare per la città con te, dovrei trovare un lavoro e recuperare gli studi», finalmente riuscii a dare forma ai disordinati pensieri che mi tormentavano da settimane.

«Innanzitutto, sei stata tu a volermi aiutare ad essere presente agli eventi, ai quali, credimi o no, è necessario che io vada e che tu sia al mio fianco come una donna meravigliosa» disse. L'appellativo "meravigliosa" risuonò nella mia mente come un lampo. Pensava che io fossi meravigliosa, un pensiero che non avevo mai intuito. Mai nulla aveva lasciato trapelare questo affetto che Marcello provava per me. Avrebbe potuto dire bella, simpatica, intelligente, un aggettivo qualsiasi utilizzato per attribuire qualità generiche, ma per me, meravigliosa significava qualcosa di più.

«In secondo luogo,» continuò, «perché hai bisogno di lavorare quando penso io alle tue necessità... E poi eri d'accordo quando hai messo in pausa l'università, sapevi che non era contemplata nell'equazione dei nostri impegni».

«Dei tuoi impegni, vorrai dire» sbuffai ironicamente.

«Lia, se vuoi restare come mi hai detto, devi renderti conto che sei a mia completa disposizione, così come io metto a tua completa disposizione ogni cosa» concluse Marcello con poco garbo.

Accettavo questo ricatto di subordinazione pur di stare al suo fianco. Come se lui fosse il ventriloquo e io una marionetta inerte, senza anima. Desideravo Marcello, forse lo amavo, ma non ero sicura di essere pronta a svendere la mia dignità. Carla mi aveva cresciuto con l'idea che una donna non dovrebbe essere sottoposta a stereotipi. A diciotto anni avevo lottato per dichiarare la mia indipendenza dai miei genitori, e accettare questa condizione di attrazione immorale mi sembrava un regresso rispetto a tutto ciò che ero riuscita a conquistare.

«Chiamo un taxi, devo tornare a casa» dissi ostinata alzandomi di scatto.

Lasciai la stanza sotto lo sguardo attonito di Marcello. Avevo bisogno di mettere a posto le idee, di parlare con Paolo. Sentivo un forte impulso di correre dal mio migliore amico, supplicarlo di cancellare tutto il male che c'era stato tra di noi e darmi la possibilità di ricostruire la nostra amicizia. Recuperai solo la mia borsa dalla stanza in cui avevo dormito e mi precipitai fuori dall'appartamento. Nervosamente picchiettai il pulsante per richiamare l'ascensore al piano. Mi resi conto di essere scappata senza neanche salutare Marcello.

Le porte dell'ascensore continuavano a restare chiuse. Tenevo premuto il pulsante triangolare sperando che l'ascensore arrivasse più velocemente.

«Entra, dove vuoi andare a quest'ora?» sentii la voce di Marcello alle mie spalle, monotona e priva di emozione. Sapevo di averlo innervosito.

«Non voglio darti fastidio. Torno a casa, ho bisogno di prendermi del tempo» risposi alla sua domanda.

«Lia,» il mio nome uscì dalle sue labbra in modo ruvido, «non fare la stupida». Sentii il suo sguardo duro pesare sulle mie spalle. Potevo percepire il suo nervosismo dalla mascella serrata e dal pugno chiuso, tenuto stretto nella mano. I suoi occhi erano fissi su di me in modo spaventoso, e quando le porte dell'ascensore si aprirono, lasciai che si chiudessero da sole. Ero sudata per la paura, mi sentivo piccola e bloccata sul posto.

«Andiamo» mi prese bruscamente per un braccio, senza preoccuparsi che le sue mani stessero lasciando graffi sulla mia pelle pallida. Chiuse la porta d'ingresso con tanta violenza che si ribaltò nonostante il suo peso. Ero terrorizzata, bloccata al centro della stanza mentre Marcello si perdeva nel silenzio del corridoio, dirigendosi verso il suo studio.

Il pomeriggio si trascinò tra le ombre soffuse della casa. Avevo smesso di cercare di chiarire le cose con quell'uomo duro e disinteressato. Ero accovacciata sul divano, continuavo a guardare distrattamente lo schermo del cellulare. Avrei voluto sentire Paolo o almeno scrivergli, ma mi mancava il coraggio. Per tutta la giornata Marcello si era barricato nel suo ufficio, facendo telefonate, e mi aveva messo da parte, dicendomi solo di essere pronta per la serata. Aveva un talento innato nel farmi sentire insignificante. Mi chiedevo cosa significasse per lui tenermi accanto per tutto il giorno, se a malapena mi rivolgeva la parola. Avrei voluto spiegargli che avevo bisogno di mettere in ordine la confusione che avevo dentro di me, tra stomaco e testa. E anche perché pensavo a cosa avrei provato quando avrei rivisto Paolo, come avrei sopportato i suoi sguardi di disapprovazione e i pettegolezzi degli altri.

Uscimmo di casa puntuali e Marcello, concentrato alla guida, continuava a ignorarmi completamente. Quando la Maserati sfrecciò sul parcheggio, ignorò i commenti dello staff che si era già radunato davanti all'ingresso, ritardando l'inizio del turno. Il mio cuore stava per esplodere nel petto. Ci incontrammo con gli altri nel parcheggio e avrei voluto entrare rapidamente nel locale, salutando tutti da lontano, ma Marcello decise di accendersi una sigaretta e di offrirmene una, come al solito.

Ad ogni passo cercavo Paolo nel gruppo. Lo notai poco distante, appoggiato alla Panda nera. Sentivo l'adrenalina crescere dentro di me. Eravamo a pochi passi di distanza e sentivo il suo bisbiglio sottovoce. Volgevo lo sguardo altrove, anche se con la coda dell'occhio cercavo di seguirne i movimenti.

Marcello, invece, con fare sicuro si fermò tra i dipendenti, schierati a semicerchio, e strinse la mano a ognuno di loro, salutando con garbo. Quando fu il mio turno, sentii l'ostilità di tutti nel compiere il medesimo gesto frettoloso. Gli altri parlavano cordialmente di varie cose, mentre io rimanevo in silenzio, continuando a trarre fumo arrabbiato dalla sigaretta. Cominciavo a sentire il peso dello sguardo di Paolo. Mi stava scrutando, probabilmente orripilato dalla gonna corta e dalle gambe scoperte nonostante il freddo pungente.

«Vi aspettiamo dentro» annunciò Marcello, schiacciando la sigaretta nel posacenere cilindrico in acciaio satinato e prendendomi per mano per spostarci dal pavimento asfaltato al lucido linoleum dell'interno. Uno per uno, tutti andarono a cambiarsi, mentre io ancora una volta non sapevo cosa fare. Mi sentivo fuori luogo, nonostante sedie, tavolini e il bancone richiamassero nella mia mente emozioni familiari. Quel locale rappresentava il mio primo stipendio, una pietra miliare per dichiarare la mia indipendenza da Carla. Lì avevo conosciuto Paolo, il mio primo amico in una città nuova e sconosciuta.

«Lia,» il suono del mio nome pronunciato da Paolo fece divampare un fuoco indomabile all'altezza dello stomaco. Mi girai lentamente, come una bambina colta in qualche marachella. Mi sentii un'intrusa. «Continui a fare la segretaria del Presidente» scherzò sarcastico, senza preoccuparsi se Marcello potesse sentire le sue parole, poiché era a pochi passi da noi.

«Se non mi vuoi qui, basta che lo dici... Posso andare in uno dei privé» provai a difendermi.

«Pensavo dovessi chiedere il permesso, poi fai come credi» ribatté, voltandomi le spalle e allontanandosi.

«Mi manca l'aria qui dentro, possiamo uscire? Ho bisogno di parlarti» dissi a Marcello, cercando di distrarlo dai suoi impegni.

«Adesso? Non vedi che sono impegnato» rispose come se cercasse di guardarsi attorno. «Ne parleremo al massimo dopo».

«Come puoi pensare di potermi sempre mettere da parte? Da quando ho accettato di stare al tuo fianco, mi stai chiedendo di diventare un oggetto. Credi davvero che io voglia stare con te a tal punto da accettare tutto questo?» le parole mi sfuggirono dalla bocca in modo ruvido e, in un gesto impulsivo, lo trattenni per il braccio. Ci guardammo a sfida, fissandoci per un istante infinitamente lungo.

«Lasciami» sibilò con le labbra strette, trascinando la parola tra la lingua e le labbra, mentre inspirava profondamente.

«Marcello, dammi la possibilità di chiarire questa situazione» quasi lo supplicai.

«Adesso?» rimarcò, mentre i ragazzi iniziavano a riempire la sala. Nel momento in cui Marcello si allontanò con uno strattone, Paolo apparve improvvisamente davanti a lui, ostruendogli il passaggio. Erano a un millimetro di distanza, sguardo negli occhi, e la tensione si poteva percepire nell'aria.

«Ma chi diavolo credi di essere?» sibilò Paolo, pronunciando la frase con durezza.

«Stai dicendo sul serio?» Marcello chiese, cercando di intimidirlo.

«Ehi!» provai invano ad attirare l'attenzione dei due.

«Stai calmo», dissi rivolgendomi a mio amico. «Non è successo nulla» riuscii a placare la disputa, trascinando Paolo verso di me e allontanandolo così dal faccia a faccia minaccioso.

Marcello si lisciò il rever della giacca come per sistemarlo, quindi si diresse al bancone per versarsi qualcosa da bere. Riempì il bicchiere cilindrico di whisky a metà, bevendo poi alcune sorsate, e ne versò un altro po' lasciandolo nel bicchiere. Mi guardava fisso, con gli occhi stretti e la mascella irrigidita. Era visibilmente fuori di sé, ma cercava di mantenere un certo controllo e una disinvoltura tale da non far sospettare nulla agli altri che conversavano in gruppetti sparsi.

Dario, uscito dall'ufficio, prese la parola dando il benvenuto e iniziando un breve discorso di commiato. Ringraziò tutti i presenti per il lavoro svolto e per la passione con cui avevamo affrontato le sfide degli anni passati. Riempì la bocca di parole ricercate senza un reale contesto.

«Grazie, Dario» intervenne Marcello dal fondo della sala. «Sicuramente sapete che stiamo per vendere lo Shekinà, ma potete scegliere e farci sapere se siete interessati a rimanere con noi...» Sembrava rivolgere direttamente a me l'ultima frase.

«Sulla base di cosa dovremmo decidere? Non sappiamo nulla dei vostri futuri progetti» espresse Paolo come portavoce fulminando il signor Murgia e mostrandosi sicuro di sé.

«Per il resto, avremo trattative riservate e individuali» concluse il capo congedandosi rapidamente per raggiungere l'ufficio. Pochi notarono la sua mascella serrata, gli occhi stretti e quella fredda aura che solo io sapevo riconoscere, segno di una rabbia feroce tenuta a stento sotto controllo.

Intanto, Dario riprese il filo stonato delle sue parole e iniziò a dare indicazioni per la serata. Mentre ascoltavo, ripensavo a Marcello che, a differenza delle altre volte, era stato brusco e sbrigativo, senza i suoi soliti discorsi visionari. Ero consapevole che ero io la causa di quel suo insolito atteggiamento. Non sopportava la mia determinazione a tenergli testa.

«Lia, scusa, questa sera sei dei nostri?» domandò Dario che faceva la conta dei dipendenti con difficoltà per i tanti assenti. In quel momento tutti gli sguardi dei presenti si posarono su di me, mi sentii messa all'angolo. Sembrava interessare a tutti se ero lì quella sera per Marcello o solo per il mio turno al bar.

«Mi sembra ovvio che no, non sono qui per servire al bar» risposi di fretta, mentre mi dirigevi verso lo studio di Marcello. Lo trovai in piedi accanto alla scrivania, il suo volto era una maschera di cera livida.

«Entra e chiudi la porta» quasi non aspettò che la maniglia finisse di scattare per riprendere.

«Non osare mai più avere un atteggiamento così infantile con me. Se ti dico che ne parleremo dopo, ne parleremo dopo. Hai capito?» le sue parole erano dure, intense, piene di rabbia, nonostante il tono rimanesse monocorde per tutto il tempo. I suoi occhi erano come brace che mi fissavano, come se volesse fulminarmi con lo sguardo. Mi spaventò così tanto che non riuscii ad aggiungere una parola, riuscii solo a fare un breve cenno col capo per rispondergli.

A quel punto, si avvicinò a me con un passo deciso. Aveva entrambe le mani strette in un pugno vigoroso che spingeva verso il basso. Quando alzò la mano destra, ero certa che avrei ricevuto uno schiaffo in pieno volto, invece la sua mano si posò con fermezza sulla mia spalla e mi baciò con impeto.

Il fatto di non aver dovuto subire lo schiaffo di quella mano grande quanto il mio viso mi diede un'improvvisa rinvigorita. Con tutte le forze che avevo, spinsi Marcello indietro, avevo il viso solcato dalle lacrime e volevo solo prendermi del tempo per riflettere, la sua vicinanza mi metteva in agitazione. Mi piaceva, forse ero persino innamorata di lui, ma dovevo prima capire se ero disposta ad accettare il suo modo dispotico di volermi. Con il fiato corto, aggiunsi solo una cosa:

«Vado a casa, basta».

«Lia, devi smettere di comportarti come una bambina. Se esci da qui, non puoi tornare indietro sui tuoi passi. Se pensi che io stia qui ad aspettarti, ti sbagli» disse Marcello con freddezza.

Senza nemmeno rendermene conto, mi trovavo già fuori dall'ufficio e stavo camminando veloce sul selciato del parcheggio dello Shekinà. Non sapevo esattamente dove stavo andando né come tornare a casa, ma continuavo a procedere senza voltarmi indietro.

Ero spettinata, il trucco sbavato dalle mani che cercavano di asciugare le lacrime. Non avevo avuto il tempo di chiamare un taxi, ero a piedi, lontana da una fermata dell'autobus o della metropolitana. Mi incamminai lungo un lato della strada senza pensarci troppo. Per la prima volta, ero determinata a non cambiare nemmeno di un millimetro nella mia posizione. Il dolore mi bruciava dentro, non potevo permettere che quell'uomo mi trattasse così crudelmente e con tanta superiorità. Il suo fascino mi aveva ammaliato, il suo profumo mi aveva stordito, ma la sua considerazione per me si fermava al desiderio di avermi a suo piacimento, mentalmente e fisicamente, e nient'altro. Era inaccettabile che mi sottomettessi solo perché era bello e irresistibile. Mi accusai di essere stata una sciocca ad accettare il suo atteggiamento arrogante, sprezzante nei miei confronti e nei confronti di tutto ciò che per me era importante.

Continuavo a camminare senza sapere dove stavo andando, con le macchine che mi sfrecciavano accanto sulla strada provinciale. Una fitta nel basso ventre mi bloccò, mi fermò. Il dolore della consapevolezza e il respiro affannato mi atterrirono.

L'odore dell'erba selvatica era sgradevole e la paura di essere a mercé di chiunque mi assalì. Era notte e mi trovavo su una strada frequentata solo da veicoli e camion, lontana dalle zone abitate della città. Mi guardai indietro, le luci dello Shekinà illuminavano il buio della notte con un bagliore. Mi resi conto che non potevo andare oltre, dovevo tornare indietro sui miei passi. Sarei tornata da Paolo, lo avrei costretto ad ascoltarmi, a darmi una seconda possibilità. Gli avrei ricordato quanto fosse importante la nostra amicizia.

Mi fermai e lentamente tornai indietro, abbattuta nello spirito. Ero infreddolita e con le scarpe piene di fango. Speravo solo di non essere vista da Marcello, che poteva essere ancora nel locale.

Stavo ripercorrendo i pochi metri fatti a passo svelto quando due fari mi illuminarono, lasciandomi impietrita come un randagio sorpreso per strada. La luce mi accecò e istintivamente alzai il braccio per proteggermi da un possibile attacco. L'auto si fermò a meno di mezzo metro da me. Lentamente, feci abituare gli occhi alla luce dei fari e, spostando il braccio, riconobbi Marcello dietro il parabrezza. I suoi occhi erano due braci ardenti. Scese dalla macchina ancora in movimento, quasi sbattendo la portiera.

«Entra in macchina!» mi urlò contro. «Stasera mi stai facendo perdere la ragione!» proseguì strattonandomi violentemente la camicetta.

«Lasciami» gli intimai, trascinando ogni lettera tra i denti e la sua presa si allentò di colpo.

«Cosa vuoi fare? Dove vuoi andare?» chiese impaziente.

«Ovunque... Lontano da te!» urlai, mentre le lacrime offuscavano la mia vista. Superai la sua auto a passo svelto, dirigendomi verso l'ingresso dello Shekinà. Ma lui si frappose davanti a me.

«Entra in macchina» ripeté, abbaiando.

«Vattene» risposi.

La mia voce aveva perso un po' della certezza iniziale, spaventata dai suoi modi minacciosi. Eravamo fermi, muro contro muro, nessuno dei due voleva cedere.

Sentii uno schiaffo forte sferzarmi sulla guancia. Con entrambe le mani mi trattenni la mascella, temendo che si fosse staccata dal cranio. Il dolore fu acuto, le ossa del mio viso sembravano pronte a esplodere. Istintivamente, mi voltai come per parare un secondo colpo.

«Lia» sentii la voce monocorde di Marcello alle mie spalle. Le sue mani mi afferrarono per le spalle, costringendomi a guardarlo. La sua statura, accentuata dalla collera dipinta sul suo volto teso, mi sovrastava. Continuava a stringere con una presa tanto salda da farmi ancora più male, come se volesse schiacciarmi con le sue mani intorno alla mia pelle.

«Lia» ripeté, accarezzando ogni lettera del mio nome con più gentilezza, come se cercasse di convincermi ad arrendermi. Marcello era un despota e stava solo sfruttando chissà quale diritto su di me, come se fossi sua proprietà. Non poteva accettare che fossi io a decidere per me stessa. Sarebbe stato un segno di sconfitta, e lui non perdeva mai.

Per la prima volta mi sembrò di percepire un tremore nelle pupille di Marcello, forse era solo frutto della mia immaginazione, ma quella debolezza, anche solo immaginata nella mia mente, mi diede coraggio.

«È finita. Da domani non mi vedrai più e non ho intenzione nemmeno di tornare al mio vecchio lavoro» annunciai con un tono monocorde, nonostante fosse evidente quanto fossi spaventata ma determinata a allontanarmi. Mi svincolai dalla sua presa e, allontanandomi, continuai a camminare con determinazione. Dopo poco, con l'orecchio teso, sentii la portiera della macchina aprirsi e il motore, lasciato in attesa, ruggì consumando velocemente l'asfalto sotto le ruote.

Potevo dire di aver avuto la meglio, ma a quale prezzo?

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