2. Caro ragazzo

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Quasi ogni mattina mi concedevo qualche minuto per osservare distrattamente il paesaggio dal terrazzo di casa, mentre sorseggiavo lentamente un tè di mirtillo rosso e tenevo tra le dita la prima sigaretta. In quel freddo giorno d'inverno la città era immobile e silenziosa, il sole sorgeva sbiadito facendosi strada tra i lembi di nebbia ancora fluttuante tra le case addormentate; la luce opaca si espandeva, sottolineando i profili duri e irrigiditi dei palazzi più alti, giganti che controllavano il quartiere. La nebbia inondava le strade, sfilacciandosi lentamente come un filo di cotone che lasciava a vista gli orditi. I pochi alberi spogli sembravano fantasmi, oscillando ad un palmo da terra. La città pian piano cominciava a svegliarsi, si vedevano le prime macchine, le prime finestre aprirsi, come un invito al sole ad entrare.

Nonostante fosse ancora molto presto, ero già vestita e pronta per incontrare Paolo per andare al centro commerciale, un banale pretesto per aggiornarlo sulla sera precedente. Mi ammonivo cercando di convincermi ad essere astuta ed eliminare la parte dei baci dal resoconto, sapendo che non l'avrebbe presa bene.

Rientrando in casa, diedi l'ultimo sorso alla tazza prima di poggiarla nel lavello, poi decisi di scendere nonostante fossi in anticipo di un'ora rispetto al nostro appuntamento, poiché non riuscivo più a stare sola con me stessa. Dopo un paio di isolati, mi trovai sotto casa sua, avevo percorso quella strada mille volte e conoscevo ogni tombino e ogni buca. Quando arrivavo al palazzo vecchio con scale strette, i muri alti, sporchi e rovinati, sbuffavo sapendo che avrei dovuto fare le scale a piedi a causa dell'ascensore sempre guasto. Paolo abitava al quinto piano di quel decrepito palazzo e quando arrivavo al suo pianerottolo, avevo sempre il fiato corto.

«Già sei qui?» mi accolse con un abbraccio stropicciato dal sonno. «Entra, il caffè sta salendo».

Chiuse la porta alle mie spalle, mentre Enrichetta faceva capolino dalla cucina. Paolo viveva con la nonna, l'unico parente rimasto dopo che il padre lo aveva abbandonato a soli cinque anni e la madre era morta alcuni anni dopo a causa di un tumore. L'anziana signora aveva un'aria pacata, quella tranquillità che si acquisisce dopo aver pianto tutte le lacrime e gridato tutto il dolore tenuto dentro per gli ostacoli della vita. Tra le rughe spuntavano come zirconi due piccoli occhi castani, quasi dorati, che ricordavano una bellezza sfumata. Gli stessi occhi chiari e profondi ereditati dal nipote, ai quali si sommavano un fisico asciutto e delle spalle larghe, facendolo apparire come un ragazzo poco più che ventenne molto attraente. Infatti, le ragazze non gli mancavano e forse anche per questo non riusciva a stabilire mai con nessuna una vera relazione. Le sue storie non riuscivano per un motivo o per un altro a decollare. A quel tempo non sapevo che Paolo teneva tutte lontane perché aspettava l'occasione giusta con me.

«Buon giorno» mi venne incontro Enrichetta, baciandomi affettuosamente su entrambe le gote, con una luce negli occhi da fare invidia a un bambino. Avevo sempre saputo che mi vedeva come la ragazza del nipote, nonostante tra noi ci fosse sempre stato solo un tenero affetto. Mai nulla di compromettente, proprio per non rovinare quella sincera amicizia, quella profonda complicità che ci legava in modo speciale. Eravamo come fratelli, entrambi figli unici e con le famiglie in frantumi.

«Entra, ti taglio una fetta di torta. L'ho infornata ieri sera, aspettando questo qua che non tornava», disse la cara signora in un romanesco di borgata, stringendo il braccio del nipote alto quasi due volte lei.

Ricambiai i suoi modi gentili con un largo sorriso, mostrando così in fila i denti bianchi. L'atmosfera di quella casa mi faceva sentire subito a mio agio. Era l'unico posto dove provavo l'energia del calore familiare. Paolo, con la camicia abbottonata male e i capelli arruffati, riprese i suoi passi verso il corridoio, perdendosi nel buio della sua stanza, ancora immersa nel silenzio del risveglio. Il tempo trascorso in casa di Paolo mi faceva tornare in mente i colli verdi della cascina dove ero cresciuta anch'io, quasi sempre sola con una anziana prozia, mentre i miei genitori disintegravano il loro matrimonio. Carla e Alberto divorziarono quando ero poco più che adolescente. Dopo la morte di sua zia, mia madre decise di trasformare la cascina in un bellissimo albergo fuori città, perché come diceva sempre, voleva prendersi cura della sua vita. Amavo tornare lì di tanto in tanto, soprattutto quando non riuscivo più a gestire il ritmo di studio o lavoro, o quando dovevo ricomporre i miei pensieri.

Sono cresciuta in una casa dalle forti tendenze femministe, tanto da portare il cognome di mia madre, Valente. Carla aveva insistito affinché lo avessi, perché non accettava la convenzione maschilista della nostra società che prevede che i figli e le mogli siano proprietà del padre. Mia madre rifiutava il concetto di donna sottomessa al marito, tanto da odiare quando mio padre Alberto notava una bambina in cerca di affetto. Mia madre considerava le parole del marito come un ammonimento, urlando giorno e notte per delegittimare le sue mancanze "come se la madre dovesse soddisfare ogni necessità!" Questo era il suo mantra.

Con me, Carla aveva sempre avuto un atteggiamento da caporale. Crescendo non ho mai avuto una carezza, una parola di incoraggiamento o un po' di attenzione. Quando ero bambina, trascorrevo tutte le estati nella cascina da sola con mia zia anziana e malata, e mi sentivo indesiderata. In fondo, ero stata la ragione della separazione di mia mamma dall'amore della sua vita: il lavoro. Quando avevo dodici anni, decise di portarmi in campagna, il che significò la fine della mia stabilità emotiva e dell'affetto incondizionato di mio padre. Iniziai a tagliarmi di nascosto e in alcune occasioni finii all'ospedale.

«Mangiala tutta» raccomandò Enrichetta piazzandomi davanti una fetta di pandolce che avrebbe potuto sfamarmi per due giorni. «Non fare quella faccia, sei tutta pelle e ossa. Devi mettere su carne, altrimenti gli uomini dove si appoggiano per baciarti?».

«Va bene» dissi arrossendo per la schietta genuinità delle parole di Enrichetta.

«Raccoglila in un fazzoletto così la mangi strada facendo» suggerì invece Paolo, appena rientrato in cucina abbottonando l'ultimo bottone della camicia, sapendo che il cibo non mi metteva a mio agio più di tanto.

«Già andate via?» si rammaricò la nonnina. «Mi raccomando, fate attenzione», concluse con la sua frase di repertorio mentre noi prendevamo le scale. A mente, annoverava una serie di preghiere tra il sacro e il profano.

«Allora racconta» disse Paolo non perdendo tempo. Mentre metteva in moto la Panda nera, sgangherata, mal messa, ma che ci aveva tenuto buona compagnia in molti viaggi e qualche folle disavventura, iniziò a interrogarmi. «Come è andata ieri sera la cena?»

«La cena è andata molto bene...» trattenni il respiro incerta se continuare o meno la frase. «Il dopo cena è stato disastroso», non volevo mentirgli, ma neppure tradire le sue raccomandazioni di mettermi in guardia da Marcello.

«Cosa è successo?» la seconda domanda fu caricata di un disappunto mal celato, tanto da inchiodare i suoi occhi su di me, allo stesso modo in cui frenò impilandosi nel traffico del raccordo.

«Nulla di che» provai a mediare cercando di non tradire la fiducia che il mio amico confidava in me. «Ci siamo solo baciati» minimizzai.

«Solo baciati».

«Sì, solo baciati, non mi credi?».

«Ci sei andata a letto?» tirò fuori la domanda che avrebbe voluto farmi da subito.

«No, non ci sono andata a letto» puntualizzai quasi risentita, «ma ci siamo andati vicino. Però...», feci una pausa.

«Però...» fece come per incalzarmi a chiarire.

«Be'... Però avrei voluto» le parole mi scivolarono via come una verità tenuta nascosta troppo a lungo.

«Figuriamoci» disse Paolo ad alta voce, dimostrando quanto fosse contrariato. Poi mi guardò negli occhi e chiese: «Adesso cosa hai deciso di fare?».

«Assolutamente niente. Quando lo vedrò stasera al lavoro, gli riporterò il vestito e farò finta che non sia successo nulla. In fondo, non è successo nulla», risposi veloce per chiarire anche a me stessa. «Ci siamo solo baciati, qualche mano fuggita un po' più del dovuto. Niente di che. Riflettendoci, non c'è stato proprio nulla di male in quello che abbiamo fatto. Anzi, è stato anche bello», sospirai. «Uno o due baci appassionati e delle carezze dovute a qualche bicchiere di troppo non significano nulla. Ci rideremo su», mentii cercando di farmi coraggio.

«Chi ci riderà su, tu?» chiese ironicamente.

«Sì, perché dici così?» chiesi io a mia volta.

«Lia, stai serena» riprese con tono ironico. «Forse ti confonderà con qualcun'altra stasera, non preoccuparti». La sua affermazione mi fece male come un pizzicotto sul braccio.

Dopo qualche istante di silenzio, Paolo mitigò la situazione. «Lo sai quanta poca fiducia mi dà Marcello. Ha le mani in pasta in troppe situazioni e non credo affatto che sia quello giusto per te».

«E chi sarebbe quello giusto?» sbottai retorica senza credere realmente in una risposta.

«Chissà, forse io». Aggiunse riprendendo un discorso iniziato solo tra i suoi pensieri. «Hai mai pensato che forse sono io quello giusto per te?»

Specchiai il suo sorriso credendo che non facesse sul serio e mi andai ad appollaiare sotto la sua spalla mentre il traffico scivolava lentamente.

«Non pensi che forse sarebbe tutto più facile?» riprese Paolo sottraendo lo sguardo alla strada per cercare il mio perso tra le auto che ad intermittenza si muovevano intorno. «Hai mai pensato che tra noi non ci sarebbero mai quelle cose non dette, sappiamo tutto l'uno dell'altro e conosco ogni tuo difetto?» scherzò.

«Già, perché tu di difetti non ne hai» risposi sorridendo, cercando di chiudere la conversazione che ormai aveva preso una strana piega.

«No!» rispose Paolo dopo qualche momento di pausa. «Davvero non ne ho».

«Paolo, tu per me sei importante, lo sai. Mi fai stare bene. Sei il mio migliore amico e questa cosa non la vorrei mai perdere» conclusi.

Lo guardai di sbieco e poi lo baciai affettuosamente sulla guancia, come per aggiungere che nulla era cambiato. Poi scesi dall'auto, appena parcheggiata.

«E chi ti dice che la perderesti?».

«Ma sei serio?» risposi, dando una pacca sulla spalla. La sua risposta fu una fragorosa risata e cambiò completamente argomento, raccontandomi il finale del film che la sera precedente non ero riuscita a seguire, addormentandomi con la testa tra i cuscini del divano. Avevo conosciuto Paolo le prime sere allo Shekinà. Era stato incaricato da Dario di farmi da mentore. Stando dietro ai suoi passi, cercando di capire cosa fare dietro il bancone, come ricordare e capire tutte le ordinazioni che arrivavano più veloci dei proiettili, fui stregata dalla sua disinvoltura e simpatia. Sera dopo sera, lavorando l'uno accanto all'altro, capii quanto eravamo simili, con le nostre famiglie distrutte alle spalle. La vita con Paolo, più che con me, si era divertita a mettergli tra i piedi ostacoli difficili da superare, ma lui piuttosto che piangersi addosso e darsi per vinto, aveva costruito un sano senso di rivalsa, una voglia di emergere. Le sue radici erano modeste, ma desiderava, restando integro ad una morale d'altri tempi, scalare la sua condizione sociale attraverso prima gli studi e poi una carriera. Per il momento, la vita sentimentale era lontana dalle sue priorità. Per entrambi, la parola "Ti amo" era un tabù impronunciabile. Tra di noi, invece, era tutto diverso. Eravamo sinceri, certi di poterci essere sempre l'uno per l'altro. Paolo c'era sempre stato per me ed io per lui. Telefonate ad orari impensabili, serate interminabili per preparare esami, giornate trascorse a superare piccole difficoltà domestiche o inconvenienti burocratici. Vacanze estive trascorse in avventure da raccontare agli amici davanti ad una birra al bar. L'abbraccio di Paolo era un rifugio comodo e sicuro, dove tante volte avevo pianto.

«La novità della settimana è che il mio relatore ha accettato la tesi. Tra qualche giorno avrò finalmente l'occasione di discuterla davanti alla commissione». Paolo disse mentre eravamo seduti sul cofano della Panda, mangiando una fetta di pizza insieme.

«Che bella notizia, quindi presto sarai ufficialmente laureato» esclamai entusiasta.

«Dipende, se il professor Tancredi non ha un altro infarto» disse con un tono ironico.

«Dobbiamo organizzare una festa assolutamente».

«Sai che queste cose non mi piacciono molto, preferisco solo una birra con pochi amici».

«Cavolo, sai sempre come distruggere il mio entusiasmo» dissi guardando le punte delle mie Convers ormai consumate.

«Paolo,» chiamai il suo nome cercando di cambiare argomento. «Ho paura di aver fatto qualcosa di cui potrei pentirmi. Ho paura di aver dato a Marcello una strana voglia di caccia e di diventare un trofeo per lui».

«Se avessi ascoltato attentamente le sue parole, senza farti abbindolare dai suoi modi educati, avresti visto anche tu la persona subdola che vedo io. In realtà, è interessato solo ai suoi soldi e niente altro» disse il mio caro amico che a differenza mia sapeva guardare oltre le apparenze.

«Marcello è un tipo poco raccomandabile, disposto a fare qualsiasi cosa per ottenere ciò che vuole. Non rispetta le regole, o forse si basa solo sul codice barbaricino, una sorta di legge folcloristica basata sul motto occhio per occhio, dente per dente. È insensibile, indifferente e concentrato solo sui suoi obiettivi. Se scopre un punto debole del suo avversario, lo sfrutterà a suo vantaggio e sono sicuro che troverà il modo migliore per sconfiggerlo, anche solo per il gusto di vincere e vedere i suoi avversari soffrire. Nasconde la sua cattiveria con modi gentili e vestiti eleganti, ma dentro è una persona malvagia. Inoltre, ha il doppio della tua età. Cosa direbbe tuo padre se gli portassi a casa un uomo solo un paio di anni più giovane di lui».

Avevo sempre dato l'idea di non essere interessata ad amori impetuosi, ma Paolo – come mio padre – preferiva vedermi molto più mansueta di quanto mi sentissi in realtà. Continuamente mi sentivo inadatta, come se fossi sempre al posto sbagliato e inopportuna. Provavo sempre a reprimere i miei sentimenti, in continua lotta tra ciò che desideravo e la realtà delle cose. Dentro di me, c'era una marea di malumori contrastanti che non riuscivo a esprimere.

Alberto credeva che prima o poi sarei stata capace di costruire una relazione proficua e matura con qualcuno che fosse attento alle mie necessità. Forse, come Enrichetta, credeva che Paolo fosse quella persona. Forse, lo avrei voluto anche io, ma non ero in grado di lasciarmi andare e di esprimere i miei sentimenti. Spesso, per codardia o per timidezza, preferivo il silenzio alle parole, dietro il quale celavo voli pindarici, machiavelliche congetture e mille frustrazioni. Fino a quel momento, solo Paolo era stato in grado di incrinare in parte la campana di ostinato mutismo in cui mi rifugiavo quando ero preoccupata o messa alle corde dai problemi, dalle piccole o grandi difficoltà. Solo Paolo era stato sempre pronto ad aiutarmi e a spronarmi quando volevo lasciare le cose a metà per pigrizia o per apparente convenienza.

«Non mi interessa avere una relazione adesso o un'avventura con Marcello,» mentii. «Sicuramente, per lui è più facile e soddisfacente essere amato che innamorarsi e struggersi. Ma non ho il tempo per giocare a fare la sua bambola». Fui caustica, anche se sapevo che le mie parole servivano più a convincere me stessa che Paolo. Pensavo che, nella migliore delle ipotesi, io e Marcello avremmo consumato tutta la nostra storia in un travolgente e passionale amplesso. Forse, secondo una visione più auspicabile, sarebbe potuta durare anche un paio di settimane, ma alla fine avrei dovuto rinunciare al lavoro, se non mi avesse prima licenziato lui.

Con quale faccia avrei dovuto chiedere ad Alberto di mantenermi a Roma per completare l'università? Di sicuro per mio padre sarebbe stato un piacere, essendo io la sua unica figlia. Mi aveva sempre appoggiata quando avevo provato ad intraprendere una nuova sfida e quando non ero riuscita ad ottenere ciò che volevo, mi aveva dato una pacca sulla spalla e mi avevo detto: "Vedrai la prossima volta andrà meglio".

Mio padre aveva insistito per tenermi a casa sua a Latina dopo che ero finita all'ospedale un paio di volte. Sapeva della mia adolescenza turbolenta e certamente accusava Carla di tutto. Odiavo i loro litigi e mi sentivo la causa del loro divorzio. Avevo creato un algoritmo che declinavo a mente, un assioma generale sul quale volevo costruire la mia vita: lavoro, famiglia e amore dovevano essere tenuti in barattoli ben etichettati e distinti.

«La mia indipendenza è l'unica cosa importante in questo momento e il lavoro allo Shekinà è l'unico modo per mantenermi casa e università» sentenziai mentre i lampioni della strada iniziavano a illuminare la strada e la sera colorava d'arancione il tramonto.

«Hai centrato il punto. Giocare con Marcello sarebbe come scherzare col fuoco e la cosa non è da te» mi disse Paolo sorridendo e accompagnando una carezza gentile sui capelli. Entrammo in macchina, diretti al locale. «Metti da parte quel broncio che non ti si addice».

Ricambiai la sua dolcezza con un sorriso sincero ma non molto soddisfacente. Mettere tutto in discussione per provare l'ebbrezza di un'avventura non era certo in linea con il mio solito comportamento. Ero sempre stata riconosciuta come una studentessa modello e avevo sempre ottenuto voti decisamente più alti della media. Avevo imparato bene a nascondere a tutti i maremoti che sentivo dentro. Mostravo agli amici e alla mia famiglia una me più cauta, più posata di quello che veramente sentivo dentro.

«Ehi,» mi risvegliò dai miei turbamenti Paolo, «ma hai sentito quello che ti stavo dicendo?» si sincerò, quando ormai eravamo arrivati al locale per iniziare il turno serale, abbottonandosi la camicia aderente e nera della divisa.

«No, scusami, stavo solo ricordando l'ordine che dovevamo ricevere l'altra sera» mentii mentre Paolo riprese a dirmi chissà cosa.

Quella sera, quando avrei rivisto Marcello al locale, avrei voluto mettere le cose in chiaro con lui, assicurandomi che nulla fosse cambiato così da poter tornare alla mia solita monotonia. Avrei voluto restituire il vestito a Marcello per chiudere quella storia sul nascere e rientrare nella routine delle mie certezze. L'idea di tenere ancora quello sfavillante vestito senza poterlo restituire a Marcello mi appariva come l'emblema della mia continua incapacità nel gestire le relazioni, sia professionali che personali. Mi rinchiusi in bagno per cercare di riprendere a respirare e togliere lo spillo che mi trapassava lo stomaco. Chiusi gli occhi, mi concentrai e nascosi dietro una porta immaginaria l'inadeguatezza, la paura, il senso di sconforto. Era un esercizio che avevo ripetuto molte volte e che sapevo fare molto bene in tanti anni di esperienza, utilizzandolo per mentire agli altri, ma soprattutto a me stessa. Cancellare ogni distrazione era molto più sicuro e confortevole, ridurre ogni cosa ad una frase breve, facile e mandata giù a forza: "Va tutto bene".

Uscii dal bagno con un lungo e finto sorriso, presi ad armeggiare con i bicchieri dietro al bancone. Fu in quel momento che vidi per la prima volta Valerio, un ragazzo sbarbato, smilzo, con un bel sorriso genuino. Si avvicinò al bancone stringendo con entusiasmo la mano a Paolo, che ricambiò il sorriso aggiungendo una stretta della mano forte e sincera. Mi soffermai a guardarli mentre allineavo i bicchieri.

«Scusami» fece cenno di azzittire Paolo, intento a dargli il benvenuto, «ma stasera il bar è ancora più interessante». Mi fissò con i suoi occhi color ghiaccio. «Ciao, mi chiamo Valerio». Mi allungò la mano e notai subito i due piccoli tatuaggi sulla mano. Senza esitazione, gli allungai la mia.

«Ciao,» dissi imbarazzata, mostrando appena i denti bianchi. «Mi chiamo Lia».

«Stasera penso di fare parecchie soste al bar tra un pezzo e un altro» disse con uno sgrammaticato accento romano mentre continuava a fissarmi, allungandomi un sorriso magnetico, quasi contagioso, «e tu non ci provare nemmeno a servirmi!» riprese Valerio, abbassando sulla punta del naso gli occhiali scuri Wayfarer come se volesse osservarmi meglio. Con un sorriso magnetico, quasi contagioso, continuava a fissarmi. «Stasera penso di fare parecchie soste al bar tra un pezzo e l'altro». Poi si rivolse a Paolo, con tono divertito, prima di voltarsi e allontanarsi, sorridendo tra sé perso in chissà quale pensiero.

«Ma chi è?» chiesi stupefatta a Paolo.

«Si è già esibito qui qualche sera, ma tu non c'eri,» sottolineò con una vena amara. «È uno dei nuovi DJ».

Senza dare troppo peso alla cosa, ripresi le mie mansioni e continuai a tenere d'occhio la porta dell'ufficio di Marcello. La serata si trascinò lenta, soprattutto nella prima parte. Decisi allora di allontanarmi qualche minuto per cercare di parlare con Marcello, ancora rintanato nel suo ufficio. Mi avvicinai alla porta senza dare nell'occhio e bussai debolmente. Nessuna risposta. Riprovai dopo qualche minuto. Ancora nulla.

«Marcello è in sala» disse alle mie spalle la voce stridula di una delle cameriere. La guardai confusa come se non avessi capito il suono delle sue parole.

«Lia, cercavi Marcello?» ripeté retorica, senza neppure aspettare la mia risposta. «Guarda, è in una delle salette private». Indicò la direzione con un gesto della mano.

«Grazie» risposi con un sorriso di circostanza e mi allontanai per cercare di avere una visuale migliore, anche se le tende e i paraventi messi per isolare l'ambiente limitavano il mio campo visivo. Ci misi un po' per individuare Marcello, che con disinvoltura teneva sulle ginocchia una delle ragazze in abiti succinti. Vidi la sua mano soffermata sulla coscia della ragazza. Ero senza parole e i pensieri si affollavano disordinatamente. Stava già accadendo tutto quello che Paolo e io stessa avevamo previsto. Non aveva ritegno, nessun riguardo nei miei confronti. Sapeva che sarei restata lì quella sera, mi aveva chiesto lui di esserci e si comportava candidamente come il farabutto che era. Avrei voluto lanciarmi in quella sala, prenderlo per il bavero e fargli una scenata alla Anna Magnani, ma mi mancò il sangue nelle vene. Decisi, allora, di lavorare d'ingegno. Ero curiosa di vedere la sua espressione nell'essere preso in flagrante.

«Appena il tavolo dieci fa un'ordinazione, passamela». Intimai a Paolo, che rispose con un silenzioso sguardo, pronto a capire cosa avessi in mente. Seguii i suoi occhi puntare al tavolo. Dal bar non si poteva scorgere chi ci fosse dentro, ma sapevo che aveva intuito. «Capito». Sottolineai cercando il suo consenso.

Il locale cominciava a riempirsi e Valerio prese a caricare la platea. Luci colorate sullo sfondo, laser e neon intermittenti si muovevano seguendo il ritmo incalzante sparato forte dalle casse alte di quasi un metro. La serata si stava animando. Le ordinazioni fioccavano, e insieme a Paolo tenevamo testa alle persone accalcate davanti a noi, muovendoci in maniera sinergica. Caricati dalla musica, giocavamo con lo shaker; soprattutto Paolo si spingeva in acrobatiche rotazioni, lanci di bottiglie e bicchieri strusciati sul bancone senza versare una goccia.

Arrivò l'ordinazione attesa del tavolo dieci da una delle ragazze in sala. La preparai velocemente, con il cuore in gola che pulsava spasmodicamente. Sotto lo sguardo attonito di Paolo, mi allontanai dal bancone lasciandolo in preda alla folla. Avevo fatto quella stessa cosa milioni di volte, ma in quel momento il vassoio sembrava pesare almeno il doppio, avevo le gambe molli e tremanti. Entrai nella saletta cercando lo sguardo di Marcello. Vidi il suo sorriso finto abbassarsi e trasformarsi in una smorfia, i muscoli del volto si tesero nella sua solita mascella contratta, dando come risultato un ghigno a denti stretti.

Poggiai i drink sul tavolino mantenendo alta la sfida nel fissarlo. Nessuno dei commensali diede peso alle immaginarie scimitarre che scintillavano tra me e il mio capo. Continuavano a chiacchierare con leggerezza, lasciandosi sfuggire risate grossolane. Non dissi nulla, ma i silenzi e le occhiatacce che ci eravamo scambiati furono molto più eloquenti di tante parole. Come ero entrata discretamente, così me ne andai. Ne uscii mentalmente soddisfatta, non sapevo se avevo vinto quel round, ma sicuramente ero stata in grado di tenergli testa.

«Stronzo!» rimuginai tra me.

«Ehi,» Valerio mi cinse la vita travolgendomi con un sorriso ampio e raggiante, «ti stavo cercando».

«Ehi!» echeggiai sobbalzando, sentendomi presa alle spalle all'improvviso. Ci misi un po' prima di essere conscia che non stavo facendo nulla di male, allora rilassai le spalle irrigidite e ricambiai con un debole sorriso.

«Posso sperare che dopo, quando si sarà allentato il lavoro al bar, mi raggiungi sulla console?» Il suo naso fino e le labbra corte, sempre rivolte in un sorriso, si accostavano male alla vena triste dei suoi occhi. C'era qualcosa in Valerio che mi colpì, ma ero troppo arrabbiata per accorgermene.

«Non saprei dirti».

«Ci conto!» mi baciò appena sulla guancia, dileguandosi velocemente, così come era comparso.

Ritornai al bar sotto lo sguardo vigile di Paolo, che sapevo essere febbricitante per la voglia di sapere cosa fosse successo.

«Allora?».

«Allora che?» gli feci il verso.

«Che sta succedendo tra te e quello lì?».

«Ma chi, Valerio?» cercai di deviare.

«Che c'entra Valerio?» inchiodò furente. «Che sta succedendo tra te e Marcello?»

«Nulla». Cercai di prendere tempo. Non mi andava di dirgli che aveva pienamente ragione sul suo conto. Riversai tutta la mia attenzione nelle ordinazioni, tanto sapevamo entrambi che al momento opportuno gli avrei raccontato tutto, fin nei minimi dettagli. Paolo non era un tipo impaziente. Quella discussione era solo rimandata. Continuammo a lavorare intensamente, senza farne parola per quella sera.

Ripensai alla richiesta di Valerio quando il bar iniziò a sfollarsi e la pista invece pulsava sotto le note dance. Volevo fare qualcosa per dimostrare a Marcello quanto si sbagliava nel pensare di avermi ferito, anche se ci era riuscito mettendomi da parte. Ero adirata e mi aveva lanciato un guanto di sfida, con il suo atteggiamento lascivo con quella ragazza, venuta da chissà dove, aveva superato tutti i limiti che potevo sopportare.

Versai in un bicchiere da long drink poco più di tre dita di vodka e lo deglutii in due sorsate profonde, sotto lo sguardo attonito di Paolo. Sentii la gola bruciare per l'alcool, slacciai il grembiule corto e il primo bottone della camicia, lasciando quasi completamente visibile il push-up nero impreziosito da ricami in tinta. La musica che vibrava nell'aria mi si insinuò nelle vene e, senza pensarci su più di tanto, mi lancai nella sala piena di persone esaltate dal ritmo incalzante. Sentii il cuore battere senza controllo, avvicinandomi alle casse gestite con maestria dal DJ. Mi avvicinai a Valerio, soddisfatto di essere stato accontentato, e mi porse un paio di cuffie per seguire i passaggi della traccia. Era eccitante stare lì, al di sopra di tutta la platea. Valerio cercava di mantenere alta l'euforia di tutti attraverso le note cadenzate della playlist progettata per la serata. Ballavo spingendo il mio corpo contro il suo, mettendo alla prova la sua concentrazione. L'adrenalina nel sangue mi faceva girare la testa, galvanizzata dall'alcool e dalla musica che mi pulsava nelle orecchie. Ero euforica e mi sentivo leggera come non mi era capitato da troppo tempo. Non c'erano complicazioni, etichette da rispettare: potevo indossare le mie vecchie Converse e saltare.

Restai in uno stato di estasi per un tempo indefinito, non sapendo se fosse trascorsa un'ora o un minuto, né avevo tenuto il conto delle tracce passate nella console. Avrei continuato per tutta la notte, ma la mia attenzione fu richiamata dalla figura di Marcello, che era stato scagliato nel fondo della sala e che sapevo essere furioso, anche se non potevo leggere la sua espressione. Lo vidi avvicinarsi al bar con grandi passi, parlare con Paolo e indicare nella mia direzione. Paolo restò saldo al suo posto, ma poco dopo lessi una risposta audace nel suo movimento del corpo, smussata dalla presenza di altre persone al banco.

Preoccupata per loro due, non sapendo cosa si stavano dicendo e se erano in grado di mantenere la calma, mi allontanai rapidamente dalla cabina DJ. Scesi gli scalini e mi immersi di nuovo nella densa folla della sala. Seguivo i loro gesti, ma loro mi avevano perso di vista. Marcello continuava a guardarsi attorno ansiosamente per trovarmi. Quando mi trovai di fronte a lui, i suoi occhi si congelarono su di me. Non c'era più nessuno intorno a noi. Con lo sguardo fisso l'uno sull'altro, entrambi eravamo furiosi di collera ed ira. Marcello mi prese con forza per un braccio e mi trascinò fuori, nel parcheggio.

«Dimmi cosa cazzo ti è preso oggi». Imprecò scrollandosi di dosso la finta gentilezza e savoir-faire. Restai in silenzio per qualche istante, cercando le parole giuste per rispondere con fermezza ma anche fargli capire come mi aveva fatto sentire vedendolo con quella ragazzetta sulle gambe. Volevo lasciargli intendere che non poteva trattarmi come una bambola, spostandomi qua e là come se fossi un oggetto.

«Ieri sera mi hai baciato e mi hai chiesto di stare a casa tua, ma oggi non mi hai neanche salutato» gli dissi, trattenendo il respiro per lasciare il posto alle sensazioni che avevo dentro. Restò in piedi in silenzio, in attesa delle mie parole.

«Non accetto di essere trattata come le altre,» continuai, cercando di riordinare i pensieri. «Visto che ieri non ci sono stata, oggi mi hai sostituito con quella lì?»

Marcello sbuffò e scosse il capo, come se fosse annoiato dalla mia riprensione.

«Quella chi, Cristin o come cavolo si chiama?» mi bloccò estenuato dal mio indugiare.

«Non me ne frega nulla di quella,» dissi con un sospiro. «Ma non accetto di essere trattata come una delle tue bambole.»

«Potrai non crederci, ma solo a te ho chiesto di restare,» disse, facendo un passo verso di me per ridurre il distacco che si era creato. «Ma a te questo non basta».

«Cosa vuol dire?» chiesi esasperata. «Io non sono una puttana a cui regalare contentini», ripresi oltraggiata.

«Cosa vuoi, cosa vuoi di più?» alzò la voce, prendendo una ciocca dei miei capelli dietro la nuca per portarmi a un passo dal suo volto.

«Voglio che non mi tratti come una puttana, che non mi usi e poi te ne vai». Risposi graffiando ogni parola, cercando di sostenere il faccia a faccia. Marcello sospirò profondamente, prese il mio volto nella sua mano e lo avvicinò alle sue labbra, stringendo con forza. Strinse finché non mi fece male.

«Se vuoi parlare con me, usa un tono diverso. Hai capito?» disse con un fare severo quando le nostre labbra furono vicine. Si prese un bacio violento, quasi come un morso dato a una mela.

«No». dissi, porgendo la mano sul suo petto per respingerlo.

«Sono stufo di questo tira e molla. È durato fin troppo. Dimmi cosa vuoi e facciamola finita». Ringhiò, allontanandosi e prendendo dalla tasca interna della giacca il portasigarette Bulgari. Estrasse una sigaretta e inspirò con ardore un paio di tiri. «Vuoi sapere cosa penso di te?» Mi guardò per cercare il mio assenso. «Pensavo fossi diversa dalle altre ragazze che avevo sempre frequentato. Pensavo che tu non mi avresti chiesto nulla. Mi sbagliavo. Loro sono contente con poco», fece verso di me, «tu invece, a che cosa miri? Quanto dovrei pagare per un tuo bacio?» Concluse amaro.

Le sue parole mi ferirono. Mi voltai per nascondere le lacrime che mi segnavano il volto. Non volevo mostrargli la mia debolezza.

«Lia...» lasciò a mezz'aria il mio nome per qualche istante prima di riprendere. «Stai ingigantendo la cosa. Prenditi il tempo che ti serve, poi ritorna al tuo posto». Si girò dandomi le spalle e ritornando all'interno del locale, come se la nostra discussione non fosse mai avvenuta.

Mi accusai di essere stata stupida ad accettare il suo comportamento altezzoso. Non riuscivo a fare neanche un passo. Mi sentivo atterrita per quanto era stato facile mettermi da parte. Piangevo senza riuscire a fermarmi. Sembrò avessi commosso anche gli dei, perché la mia faccia iniziò a bagnarsi anche con la pioggia. Non volevo farmi vedere da nessuno, soprattutto da Paolo. Si sarebbe allarmato per quanto ero sporca dal fango, stropicciata dal gesto violento di Marcello e bagnata dalla pioggia che non accennava a finire.

Nel parcheggio vidi un vecchio Fiorino. Aveva i fari sporchi di ruggine, la vernice agli angoli scrostata e la porta del bagagliaio era aperta per metà. Pensai di nascondermi lì dentro per un po', ma capii che la serata stava volgendo a termine, con Valerio che dal microfono incitava ancora una volta la platea. Stava per lanciare l'ultimo mix di brani. La dolce prospettiva di rintanarmi nel mio letto mi rincuorò.

Speravo che nessuno ci avesse visti, mi vergognavo per la scenata che avevo fatto a Marcello. Mi chiedevo se avessi il diritto di farlo, ma l'urgenza di chiarire le cose mi aveva scosso e provocato una rabbia incontrollata. Pensavo se ci fosse un modo per rimediare alla situazione.

«Ehi». Il volto preoccupato di Valerio mi trovò mentre ero rannicchiata, con il trucco sbavato dalle lacrime e dalla pioggia. Non dovevo avere un bell'aspetto. «Cosa ti è successo?», chiese con un sorriso cordiale e confortante.

«Nulla». Cercai di sviare la domanda, senza successo.

«A chi devo menare?» disse deciso, mentre si avvicinava lentamente, come per non rompere il delicato equilibrio che mi ero creata. «Stai bene?» Alzò il mio volto macchiato di mascara sciolto con la mano destra, notando il graffio sulla guancia. Il contatto con la sua mano lunga e affusolata mi riempì di un urgente bisogno di affetto. «Hai bisogno di un passaggio?», chiese premuroso.

«Be'...» Ero tentata dall'idea, era tardi e volevo solo tornare a casa, ma soprattutto volevo evitare Paolo. Valerio mi aveva fatto la corte tutta la sera e per far dispetto a Marcello sembravo più che disponibile. «Solo se mi porti direttamente a casa», decisi cercando di mantenere uno sguardo duro e impassibile.

«Certo». Allargò il suo sorriso, strappando anche a me uno sorriso. La sua ilarità genuina era contagiosa. «Tieni», mi porse i suoi Ray-Ban. «Così non spaventi gli altri».

Pensai di avere un aspetto pessimo e accettai senza battere ciglio il suo gesto spontaneo. Presi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e, appena sbloccai il display, un pop-up mi avvisò che la batteria stava per esaurirsi. Scrissi velocemente un messaggio a Paolo, dicendogli di stare tranquillo perché stavo già tornando a casa, ma restai vaga, augurandogli buona notte e promettendo di farmi sentire il giorno dopo.

Una volta entrati in auto, Valerio, zuppo d'acqua, mi aiutò a spostarmi dal retro per prendere posto accanto a lui. Mise in moto dimostrandoci che quel rottame poteva andare per strada. Pioveva ininterrottamente e i tergicristalli facevano fatica a tenere il passo con l'acqua scrosciante. Avevo tanto freddo da iniziare a tremare. Quando Valerio decise di muovere alcune manopole spaccate avvolte da un nastro nero, dai bocchettoni dell'aria venne fuori una zaffata pesante di polvere e un acre odore di bruciato.

«Dovrebbe uscire dell'aria calda,» fece con un'aria colpevole. Ma quell'aria, poco più che tiepida al contatto con la maglietta bagnata, peggiorò i miei brividi.

«Va bene,» mentii, «voglio solo andare a casa». Mi tenevo saldamente a quell'idea, certa che sarebbe finita tutto di lì a mezz'ora al massimo. Dovremmo superare la provinciale, immetterci sul raccordo e prendere la quarta uscita. Anche se non c'era traffico, stavamo procedendo piano per la pioggia, evitando le buche nascoste per l'acqua a filo. Era difficile cercare di non sbandare e la tenuta di quel catorcio era decisamente labile. Improvvisamente sentimmo degli strani rumori dal motore, come tre o quattro forti colpi di tosse.

«Attento!» urlai.

Valerio tenne salda la presa, ma l'auto iniziò a sobbalzare come se stesse per strozzarsi. Ci trovammo sul ciglio della strada immobili e spaventati. La vettura si era fermata dopo un paio di sbandate irregolari a destra e sinistra.

«Ehi, tutto a posto?» chiese Valerio mentre dava tempo alla macchina di riprendere fiato. Annuii senza aggiungere altro. Valerio girò la chiave nel cruscotto, la macchina ruggì ai primi due tentativi, ma poi tacque definitivamente.

«Non va?» chiesi terrorizzata.

«È andata». Sospirò profondamente, prima di aggiungere un po' sconfitto. «Resta qui, non muoverti». Disse con tono duro, ma lasciandosi scivolare un altro lungo sorriso sul viso. Lo vidi attraverso il parabrezza alzare il cofano e perdersi nella contemplazione del motore morto.

«Prova a metterla in moto,» gridò dall'esterno.

Saltai sul suo posto, abbassai la frizione, girai la chiave, ma non ci fu risposta. Continuavano a tremare senza sosta. Valerio toccò qualcosa all'interno delle membra ancora calde del paziente e mi invitò nuovamente a riprovare, ma ancora una volta senza successo. Abbassò il cofano lasciandolo cadere con un sordo tonfo. Si pulì le mani alla meglio sfregandole tra loro, sfruttando la pioggia, per poi strusciarle sulla parte bassa dei jeans scuri.

«E adesso?» domandai sconvolta a Valerio, mentre gli facevo spazio al posto di guida. Non riuscivo a credere a quello che stava succedendo. Tornare a casa sembrava essere diventato impossibile ed io non volevo altro che mettermi a letto e dimenticare. Presi il cellulare scarico, provai inutilmente ad accenderlo. Non potevo chiamare Paolo, un taxi o un carro attrezzi.

«Chiama qualcuno. Non posso farlo, il mio cellulare è scarico,» gli dissi mostrandogli il telefono tra le mani tremanti.

«Non verrà nessuno,» disse con un tono profetico. «È troppo tardi o troppo presto». Si spostò indietro per far cadere una delle ciocche gocciolanti che gli segnavano il viso. «Mi è già successo», confidò abbassando lo sguardo. «Non è la prima volta che devo dormire in macchina».

«Voglio tornare a casa».

Valerio si spostò tra i sedili posteriori, facendosi spazio tra la valigia nera dei suoi strumenti e alcuni teloni.

«Vieni» mi esortò, battendosi la spalla, indicandomi uno strano giaciglio al quale non potevo resistere a causa della stanchezza che mi pervadeva tutto il corpo.

«Appena smette di piovere, cercheremo un distributore di benzina,» mi rassicurò. «Vuoi provare a chiamare Paolo?».

Sul suo volto si dipinse uno sguardo serio e preoccupato. Il sorriso si era dissolto e il suo naso fine e lungo gli conferiva un'aria grave, come quella del cattivo di un cartone animato.

«Non ricordo il numero del suo cellulare a memoria, è inutile» dissi abbandonando ogni speranza di riuscire a tornare a casa quella sera. Ero affranta e distrutta. M'infilai tra i sedili, seguendo i passi compiuti poco prima da Valerio ma gli sbattetti addosso, facendolo cadere. Ci ritrovammo uno sopra l'altro, stretti in un leggero abbraccio, visibilmente imbarazzati. Il sorriso di Valerio si allargò mettendo in mostra le sue guance piccole e rotonde. I suoi denti imperfetti e le labbra sottili erano contagiosi e il senso di inadeguatezza svanì rapidamente. Nonostante i vestiti completamente bagnati, la sua pelle era piacevolmente calda, intrisa di un profumo familiare e rassicurante.

«Spogliati» mi incitò, lasciandomi allibita.

«Ehi, che aspetti... Spogliati, se no ti prendi un colpo!». Aprì una sacca da viaggio di un azzurro sbiadito, dalla quale fece scivolare e svolgere due grandi coperte. Si tolse la maglia a scollo rotondo, mettendo a vista la canotta e un paio di bretelle in cuoio sottili. Nonostante fino a quel momento mi fosse sembrato esile, notai che sui suoi larghi muscoli delle spalle annodavano muscoli asciutti, di quelli non costruiti in palestra, ma di chi è sempre in movimento. Usò una delle due coperte per coprirci entrambi come se fosse un hijab, mentre nell'altra ci infilò le gambe, aspettando che io mi togliessi la camicia dello Shekinà completamente bagnata, restando così solo con il reggiseno. Mi strinse forte a sé, non lo vidi, ma sentii annusarmi e baciarmi i capelli. In qualsiasi altro momento sarei montata su tutte le furie se qualcuno del tutto sconosciuto mi avesse tenuto in quel modo, ma mi sentivo stranamente bene, anche se avevo paura. Stavamo per strada, era notte fonda, ero mezza nuda tra le braccia di un ragazzo che avevo conosciuto solo un paio di ore prima, cercavo invano di stare tranquilla. Mi lasciai avvolgere dalle braccia lunghe e salde di Valerio. Istintivamente mi strinsi ancora un po' al suo corpo caldo e confortevole.

«Ho paura» gli confessai.

«Non devi preoccuparti». Disse con un tono dolce e rassicurante. «Ci penso io». Allungò le braccia davanti e dietro di me per mostrarmi che le serrature delle porte erano ben salde.

«Come mai hai detto che ti è già capitato di dormire per strada?» chiesi incuriosita, sperando di non essere troppo invadente.

«C'è stato un periodo della mia vita, direi, difficile». Cercò di prendersi qualche minuto prima di continuare. «I miei genitori erano tossici e sono cresciuto un po' da solo, un po' passando da una casa famiglia all'altra. Poi uno o due riformatori». Raccontò con un'aria grave. «Lì ho conosciuto uno che mi ha fatto scoprire il mondo della musica e me ne sono innamorato. Ora cerco di camparci, anche se non con grandi risultati. Le serate pagano poco».

Non sapevo cosa aggiungere. Non mi aspettavo un racconto così crudo e veloce della sua vita, probabilmente con risvolti molto più gravi di quanto fosse opportuno approfondire in quel momento. Mi voltai per cercare i suoi occhi sinceri, erano chiari in modo quasi irreale, sembravano brillare per il flebile barlume della strada. Notai per la prima volta i suoi tatuaggi. Ne aveva diversi: uno sulla spalla, un paio sugli avambracci e due sulla mano destra.

«E tu?» chiese lui.

«Cosa?».

«Raccontami qualcosa di te».

«Boh, cosa vuoi che ti dica? Non c'è molto da raccontare». Presi tempo, sperando di riuscire a cambiare discorso.

«Dimmi perché ti ho trovata nascosta dentro al furgone».

«Ho avuto una brutta discussione con qualcuno stasera, ma non mi va di parlarne».

«Non sei una tipa che comunica molto, eh...» Sorrise e mi abbracciò stringendo le sue braccia intorno a me. Valerio riuscì a trovare le mie mani incrociate sul petto e s'infilò tra le mie dita. I suoi braccialetti di metallo e il polsino in cuoio mi fecero trasalire per il contatto freddo con il corpo che stava riprendendo qualche grado. Le nostre labbra erano distanti un soffio.

«Se adesso ti do un bacio, mi meni?» chiese con cautela, iniziando a lasciare brevi tocchi con le labbra sulle guance.

«Esattamente».

«È un rischio che sono disposto a prendere». Lentamente si fece strada con la lingua nella mia bocca, indagando ogni anfratto e lasciandomi appena respirare. Mi irrigidii, non riuscendo a liberarmi facilmente dalla sua presa. Volevo resistere e restare inerme, lasciandogli intendere di non essere interessata, ma il suo massaggio sulla mia lingua accese tutte le mie terminazioni nervose. Mi ritrovai a corrispondere al suo bacio e deliziandomi con le sue mani che cercavano la schiena nuda, per poi farsi strada tra i miei slip.

«Okay, okay». Cercai di riprendere in mano la situazione. «Non andiamo oltre». Mi allontanai dalle sue labbra e poggiando una mano sul suo petto glabro e dritto. Mi voltai e gli diedi nuovamente le spalle.

«Mi dispiace averti trascinato in questo casino,» disse con un filo di voce. «Volevo fare lo splendido e ho finito per fare solo una gran figura di merda. Hai ragione, stai pensando "chi cazzo me l'ha fatto fare di venire con sto tipo, stasera!"». Sottolineò prendendomi il mento tra le mani e volgendo il mio volto verso il suo. «Sei un angelo, con questi capelli biondi», prese una ciocca tra le dita, «questi occhi grandi e questa bocca». Trattenne un respiro. «Ci morirei».

«No!» sbottai all'improvviso.

«No che?!» chiese confuso.

«Non farlo!» quasi lo supplicai con un tono di voce rotto dalle lacrime.

«Non fare che?».

«Non ci provare, non adesso». Sobbalzai dal suo abbraccio e mi allontanai come per cercare un po' d'aria. Uscii dall'abitacolo e risalii nella parte anteriore. Aprii la portiera e un vento gelido su vestiti bagnati mi travolse. Mi sforzai di resistere. Feci meno di un passo, richiudendo con fervore la portiera. Ero arrabbiata con me stessa, come una stupida mi ero ritrovata a pensare ancora a Marcello, a rivedere nei miei occhi i suoi gesti calcolati ma irresistibili, i tratti del suo profilo deciso ed inaccessibile. Mi accesi una sigaretta, le mani tremavano e i tiri erano incerti per il vento. Sentii il calore del plaid poggiarsi sulle spalle, Valerio mi aveva raggiunto.

«Scusami, non volevo innervosirti. Ma a me raramente capita di incontrare persone così belle come te, ed essere qui con te stasera mi fa parlare troppo. Tu non dici una parola». Stava sorridendo, anche se non potevo vederlo, ma potevo percepire il suo stato d'animo leggero e privo di costrizioni e non potevo fare a meno di farmi contagiare. «Mi sento uno stupido».

Mi girai e mi misi sulle punte dei piedi cercando di raggiungere la sua altezza, per portare le braccia al collo.

«Non lo sei». Cercai lo sguardo più gentile che potessi trovare nei suoi occhi cristallini. «È colpa mia, sono i pensieri che non mi danno tregua». Sussurrai dandogli un leggero bacio.

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