1. La Cena

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

La cena a casa di Marcello si era appena conclusa e finalmente potevo tirare un sospiro di sollievo. Ripetevo a me stessa che era andato tutto per il meglio, mentre i ragazzi del catering si muovevano freneticamente intorno a me per riporre porcellane e bicchieri di cristallo lasciati vuoti sul tavolo. Io, nel frattempo, restavo imbambolata al centro della stanza senza sapere né cosa fare né dove stare. Fu allora che mi persi a guardare per la prima volta il profilo morbido di Roma, un caleidoscopio di scintillanti gemme ambra e zirconi bianchi. In quel riflesso di luci, ritrovai la silhouette di una nuova me che quasi non riconoscevo. Una serata davvero ben riuscita, dissi al mio riflesso nella porta vetrata. Raramente mi era capitato di sentirmi bella come in quell'occasione. Continuavo a specchiarmi nel buio della notte, compiacendomi nel vestito sfumato d'argento. Mi sentivo bella come una ragazza copertina di Vogue. Quella sera mi sembrava di sognare ad occhi aperti, tutto mi appariva surreale e stupendo.

Era stata una giornata speciale, diversa dalla mia routine molto più ruvida e monotona. Avevo indossato un vestito ricco, impreziosito da pietre e paillettes, di sicuro costava molto più di quanto guadagnassi in un mese. Vedevo una figura che riconoscevo poco a causa del trucco, dei tacchi alti e dei capelli perfettamente in piega. Erano tutte cose a cui non ero abituata. Quella sera a casa di Marcello stavo interpretando la parte di un personaggio lontano dalla Lia che portava i capelli raccolti male in code improvvisate, jeans scoloriti e scarpe vecchie ma comode per saltare in metro o correre da una parte all'altra della città. Il comportamento mondano sostenuto per tutto il tempo della cena, i rituali forzati fatti di frasi finte e tutti gli atteggiamenti innaturali per apparire perfetta, non mi appartenevano. La mia quotidianità era molto più spartana; le cene con i miei amici Paolo e Marta avevano il sapore dei fast food, non dei ristoranti stellati. Ero abituata a ridere usando tutti i denti.

Stavo iniziando a chiedermi se l'atteggiamento e le poche parole dette a cena fossero riuscite a nascondere l'imbarazzo delle mie gote rosse e il senso di inadeguatezza provato per tutto il tempo. Continuavo a sudare nonostante fuori quasi fioccasse.

Il rumore dei passi dei mocassini di Marcello sul parquet richiamò la mia attenzione dal debriefing che Ansia ed Insicurezza stavano facendo nella mia testa. Lo cercai, aspettando che apparisse nel riflesso della vetrata. Stava per entrare nella grande sala, proveniente dall'ingresso dove aveva salutato l'avvocato Girardi, presentatomi quella sera come candidato alle prossime elezioni europee. La cena era infatti un celato ed informale incontro di lavoro. Marcello, che fino a quella sera era stato solo il mio capo, mi aveva voluto a casa sua per coordinare i ragazzi del catering e studiare con lo chef il menù. Avevo passato tutta la settimana a programmare, scegliere e rivedere l'ordine del menù, stabilendo ogni dettaglio senza lasciare nulla al caso. Di solito lavoravo al bar dello Shekinà, un locale notturno che gestiva da anni con successo con Dario; ma in quell'occasione il mio compito era quello di intrattenere le altre ragazze che avevano accompagnato gli ospiti.

Durante la cena, seguendo solo in parte i discorsi fatti al tavolo, avevo capito che entrambi i gestori, con l'aiuto e l'influenza politica dello studio Girardi, stavano mettendo a punto i dettagli per una compravendita di un immobile in centro. L'unica difficoltà era cancellare la valenza storica del palazzo scelto.

«Come è andata?» provai a chiedere, ansiosa di ricevere un voto positivo alla mia performance.

«Beh, di sicuro abbiamo chiarito alcuni punti,» rispose distratto mentre guardava fisso il display del suo cellulare. Marcello, come sempre, era certo di aver stabilito le regole del gioco. Esisteva un unico punto di vista, ed era il suo. Il patto era semplice: se volevi la sua presenza, era necessario sottostare alle sue condizioni, e in quel periodo sembrava che tutta Roma fosse ai suoi piedi. Attirava come un magnete politici, imprenditori, personaggi di spicco della televisione e del cinema. Marcello non era bello nel senso comune, aveva un naso poco lineare e gli occhi più distanti del necessario, ma il suo fascino era dettato dalla sua sicurezza, dal modo in cui si muoveva senza sbagliare mai il passo, e se qualcosa non andava come voleva, usava i soldi affinché ciò avvenisse. Si occupava di finanza, gestiva capitali come mediatore, poi la sera gestiva lo Shekinà: una sorta di ufficio alternativo dove stringere affari. Ogni sera, incontrava qualcuno che gli chiedeva un favore, piccolo o grande. Come il Diavolo, esaudiva i desideri degli altri in cambio dell'anima. Dal bancone del bar, avevo visto politici senza distinzione di schieramento, agenzie dello spettacolo grandi o piccole, produttori musicali, atelier di moda e tutti i professionisti dello star system chiedere il suo aiuto.

«Non ho seguito molto i vostri discorsi» dissi, «ero troppo impegnata a guidare i ragazzi del catering, ma ho capito che la settimana prossima avrete il rogito dal notaio». Cercai di dire qualcosa di interessante per farmi ascoltare, mentre torcevo le dita delle mani.

«Domani sei di turno allo Shekinà?» chiese, come se stesse programmando altro e non avesse nemmeno ascoltato le mie parole.

«No, ma non avrei problemi a fare cambio turno con Claudia se mi vuoi al bar».

Nonostante cercassi di fare conversazione, le mie parole non catturavano l'attenzione di Marcello, che era impegnato a rispondere a qualche messaggio o ad appuntare qualcosa sul suo smartphone. In quel momento, pensai di andare via, non aveva più senso la mia presenza in quella casa.

«A questo punto, andrei» dissi girandomi con la porcellana che stavo mettendo via. «Tanto, credo non ci sia più bisogno di me». Abbozzai un sorriso, riponendo in modo maldestro il piatto sul tavolo. La fine porcellana dondolò per un momento sul bordo prima di cadere a terra, frantumandosi e lasciando un segno vistoso sul parquet smaltato. Restai impietrita per il gesto distratto. Ero stata goffa ed avevo causato, a mio giudizio, un disastro irrimediabile. Istintivamente portai le mani alla fronte, sentendomi travolta da un treno di vergogna e mortificazione. Le gote si infuocarono mentre Marcello, con un semplice gesto della mano tesa, già mi stava aiutando ad oltrepassare le schegge che minacciavano i piedi nudi nei sandali Albano.

«Vieni. Lascia stare, ci penseranno i ragazzi» disse facendo intanto cenno ad uno dei camerieri. Provai allora a fare un passo lungo per superare le schegge di porcellana sparse ovunque ma la limitata agilità per il vestito stretto, fasciato sui fianchi ed i tacchi vertiginosamente alti, mi fecero ricadere sul suo corpo rimasto immobile all'impatto. Le sue braccia, due fasci di nervi e muscoli ben annodati, mi sostennero senza difficoltà. In un istante ero in estasi, avvertivo con piacere il tessuto liscio, quasi rasato, della camicia chiara; sentii al tatto la muscolatura asciutta e definita dei pettorali larghi. Un gesto banale, ma per me era un sogno che si avverava. Anche se non lo avevo mai detto a nessuno, ero pazza di Marcello, ossessionata dal suo sguardo, dai suoi gesti e dalla sua voce.

«Scusami, vado di là a prendere degli stracci». Dopo un passo, mi sentii trattenere nuovamente dalla sua salda presa. «Lia, lascia stare gli stracci. Ci stanno già pensando i ragazzi. Va tutto bene», sentenziò mentre le nostre labbra erano tanto vicine da permettermi di sentire il suo alito fatto di tabacco e alcool.

«Certo» feci senza senso, persa ormai dallo charme dei suoi gesti controllati, sicuri e confortanti. «Stai con me un altro po'. La sera è lunga e mi annoierei da solo» abbassò di un tono la sua voce, quasi mi volesse sussurrare un segreto. Le gambe si fecero molli, la pancia mi tremava. Ero allo stesso tempo estasiata e terrorizzata. Mi teneva sottobraccio, come una bambola, e mi portò nell'altra stanza, lontana dai camerieri. Eravamo a quel punto pericolosamente soli. Troppe volte ero stata spettatrice di come intercambiava con facilità le sue ragazze, ogni sera diversa e ogni sera più bella della precedente. Io alta meno di un metro e cinquanta, con un seno tanto piccolo da perdersi anche nella celebre coppa di champagne, non avevo di certo le carte giuste per competere. Ogni volta che gli ero accanto a mi sentivo ancora più piccola, non perché lui fosse grosso, anzi la sua altezza rientrava nella media, piuttosto, era colpa del senso di austerità dalla sua fronte, sempre concentrata in qualche pensiero. Ero convinta che il mio corpo minuto, i capelli sempre un disastro non potevano rientrare nei canoni di bellezza scelti solitamente da Marcello. Le ragazze prese dall'agenzia per modelle del suo carissimo amico Rafael erano modelle perfette che sapevano ondeggiare ad ogni passo con i loro abiti firmati, i capelli in piega, gli zigomi alti, il trucco curato, definito per risaltare ogni parte del viso. Tra loro e me non c'era partita, non ero mai riuscita a trovare qualcosa di bello o qualcosa che mi rendesse speciale. Avevo sempre ritenuto essere fin troppo comune. Di certo non puntavo sulla mia bellezza per raccontarmi a qualcuno. Gli occhiali sostituiti solo da qualche mese dalle lenti a contatto, avevano solcato i miei occhi, ben distribuiti tra la bocca e il naso, ma ritenevo il mio viso troppo schiacciato. Avevo capito già durante l'adolescenza che i ragazzi popolari della scuola non erano interessati a me capace di arrossire ad ogni complimento, taciturna e riservata. Quelli che avevo frequentato si potevano contare in una mano e con nessuno di loro avevo vissuto grandi passioni, tutte le relazioni che avevo intrapreso con l'altro sesso erano durate poco più di qualche incontro e quando poi mostravo la mia emotività instabile, frutto del carico di risentimento col quale mia mamma mi aveva cresciuta, tutto finiva. Mi sentivo inadeguata, incapace a gestire il continuo conflitto tra stomaco e cervello.

«Domani mattina ho lezione all'università all'alba. Non posso fare tardi» mentii con un filo di voce per costruirmi una scusa utile nel caso la situazione lo richiedesse.

«Ti porto io a casa... Però dopo. Non preoccuparti...» mi accompagnò delicatamente a sedere sul divano mentre si avvicinava al mobile bar e preparava un drink. «Vuoi dello chardonnay o preferisci qualcos'altro? A cena hai bevuto poco, quasi nulla» chiese mentre buttava giù un altro sorso di whisky e si accendeva una sigaretta.

«Ehm, grazie, ma non ho bisogno di nulla» risposi cortesemente, cercando di occupare meno spazio possibile sul divano. Sapevo di non essere in grado di gestire ciò che stava per accadere: era il mio capo e non volevo contrariarlo, ma allo stesso tempo non volevo ritrovarmi sprofondata dalla vergogna quando il giorno seguente non mi avrebbe degnato neanche di uno sguardo. Volevo solo andarmene. Mi offrì un flûte di Chardonnay e si accomodò sul divano, rilassando le spalle sullo schienale. Sospirò profondamente una boccata di fumo, spingendola giù nei polmoni, per poi lasciarla uscire fuori: un gesto intenso, come se la sera fosse stata più impegnativa e stressante di quanto i suoi sorrisi o le sue parole dessero a vedere.

«Vorrei lasciarti riposare, sarai stanco» provai a svincolarmi. «Non preoccuparti per me, chiamo un Uber» conclusi cercando di prendere la pochette appoggiata sul tavolino basso e laccato che correva sul retro del divano. Ma senza rendermene conto, mi spinsi completamente sul suo corpo. Le sue labbra erano a un sospiro dal mio collo teso verso il mobile alle nostre spalle.

«Non pensare al taxi, non pensare di andare via» mi baciò più volte, delicatamente. Iniziai a vibrare quando le sue labbra mi lisciarono il collo, ma restai immobile in una posa plastica.

«Non posso» intimai rigida, senza dimostrare una buona convinzione, mentre ondeggiavo per cercare di rimettermi a sedere sul mio posto.

«Non puoi» Marcello continuava lascivamente a baciarmi con le labbra umide di alcol e intrise di tabacco. Le sue braccia mi cinsero i fianchi, facendomi cadere sul suo corpo, mentre le sue labbra continuavano a farsi strada sul collo, salendo sulle guance per poi ricadere sul décolleté. Mi sentivo completamente inerme, come la vittima intorpidita dal veleno di un cobra. Gli occhi seguivano i gesti, mentre i pensieri si inseguivano sapendo che sarebbe successo qualcosa di irrimediabile, qualcosa che avrebbe reso tutto più difficile.

È il tuo capo, cazzo, dissi solo a me stessa, nel silenzio dei miei sospiri profondi, del caldo che mi stava arrivando alle tempie. Mi ripetevo che dovevo smetterla di ricambiare i suoi baci, mentre cercavo già con la mente intorpidita dal suo profumo un modo, una parola per sfuggire a quella situazione surreale. Avevo sognato mille volte di svegliarmi un attimo prima che suonasse la sveglia, nella veglia e nel sonno. Come avrei potuto affrontare il disagio nei giorni successivi incontrandolo ogni sera al locale? Dovevo fermare quella folle corsa, eppure le mie labbra non riuscivano a muoversi, e la gola rigida non riusciva a trasformare i sospiri in parole. Vedevo l'immagine di un film a cui non avrei voluto assistere, ma allo stesso tempo non potevo fare altro che apprezzare le sue mani alla ricerca del mio corpo ancora coperto dal vestito lucido e setato. All'improvviso si fermò e raccolse con le mani il mio volto, i nostri occhi si incrociarono un attimo prima di perdersi in un bacio travolgente. Ormai avevo perso del tutto il contatto con la realtà, ogni suono intorno era ovattato. Ero per intero assoggettata al desiderio di Marcello. Testa e Corpo. Non potevo essere ubriaca, quasi non avevo bevuto né mangiato per non gonfiarmi e lasciare cadere perfettamente l'abito.

«Basta» intimai, sussurrando quella parola senza essere certa di averla pronunciata ad alta voce. Dovevo mettere fine a ciò che stava per accadere, sapevo che mi stavo andando a cacciare in una brutta storia. Se fossi andata fino in fondo, andando a letto con Marcello, me ne sarei pentita, ne ero certa. Poggiai una mano sul suo petto, lo respinsi, prima delicatamente e poi, riscontrando poco successo, quasi lo scaraventai sullo schienale del divano. Di scatto, libera dalle sue braccia, mi allontanai di qualche passo dandogli la schiena.

«Non posso» pronunciai con un filo di voce quasi impercettibile.

«Cosa vuol dire "non puoi"?» sbuffò beffardo. «C'entra per caso Paolo?».

«Non c'entra Paolo». Feci stranita con il movimento della mano.

«Allora» insinuò, «cosa ti prende, Lia?». Trascinò ruvido il mio nome tra la lingua e i denti. «Alle altre a quest'ora avrei già chiesto di andarsene, a te sto chiedendo di rimanere. Cosa vuoi ottenere da questo tira e molla?» andò a chiudere la doppia porta a scrigno, creando un ambiente ancora più intimo. Mi sentivo in trappola mentre si avvicinava al mio corpo e poggiava la mano sul mio fianco. Il suo bacino spinto sul mio mi faceva sentire quanto mi desiderava e ogni centimetro del suo corpo cercava di sedurmi. L'adrenalina mi faceva sentire la gola stretta, stavo per perdere il controllo. Restai pietrificata, cercando di non voltarmi e resistere al suo sguardo che mi cercava e mi avrebbe fatto cedere. Sentii Marcello provare a far scivolare la cerniera lungo la schiena, ma come una gatta mi rizzai.

«Scusami, ma non posso davvero». Sentii allora le sue mani piantarsi verso il basso.

«Andiamo» disse con un colpo, prendendo la giacca e lasciando volare via l'atmosfera lasciva nel tono delle sue parole. In un attimo diventò freddo e irritato, mostrando nel volto tirato tutta la sua delusione. Veloce, afferrai lo spolverino accartocciato e la pochette sul mobile, inseguendo i passi rapidi di Marcello, ormai già oltre l'ingresso, quasi all'ascensore in acciaio lucido. Il volo verticale sembrava interminabile. Standogli accanto, chiaramente innervosito, mi sentivo ancora più piccola e incapace di recuperare. Avrei voluto sdrammatizzare con una battuta, o almeno dire qualcosa, ma le parole si affacciavano senza senso tra i pensieri. Quando rialzai lo sguardo, le porte si erano aperte e lui era già lanciato a lunghe falcate verso l'Aston Martin sportiva. Lo avevo costretto a cancellare tutte le sue fantasie per la serata. Sapevo che mi avrebbe voluto incenerire per aver sovvertito il suo volere, ma nonostante ciò mantenne una gentilezza raggelante.

Infatti, senza battere ciglio, trattenne la portiera dal lato del passeggero attardandosi ad aspettare i miei passi brevi e incerti sui tacchi vertiginosi. Arrivata all'auto, mi aiutò ad entrare e il contatto della sua mano calda, salda come una roccia, mi fece ancora una volta sussultare. Abbassai lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo. A quel punto, sentii il peso degli occhi di Marcello soffermarsi con rammarico su di me, anche se per un momento vidi una smorfia di sfida trattenersi all'angolo della bocca. Fu solo un attimo, ma mi sembrò di vedere la stessa scintilla dell'animale che studia la sua preda, un attimo che svanì con il rumore sordo della portiera chiusa. Con la mia ritrosia, avevo innescato il desiderio della caccia.

Appena entrati nell'auto, il motore ruggì, scattando violento sotto la sua mano ferma. Le ruote sgommando alla partenza ci fecero ritrovare sulla strada a una velocità fin troppo sostenuta. La città era quasi deserta, il lungo viale si era trasformato nei suoi occhi in un rettilineo da gara sportiva. Girai il volto cercando di distrarmi e sperando che la folle corsa ingaggiata tra Marcello e la sua rabbia si sarebbe conclusa presto.

I lampioni rigidi sfuggivano sovrapponendosi veloci, mentre i profili dei palazzi si susseguivano senza poterne leggere i dettagli. Dopo poco, ci ritrovammo ad entrare sulla rampa del raccordo e la probabilità di poter trovare sul nostro tragitto gli autovelox non sembrava scalfire il suo profilo, fisso sull'asfalto. La strada si consumava breve sotto le ruote dell'auto, ma continuava a sfrecciare impavido sorpassando in strette manovre le altre macchine incontrate. L'abitacolo s'inondò di un assordante suono, un brano dance, dove le note battute veloci sembravano andare a tempo con il tachimetro che tra riprese e impennate si agitava stizzoso nel display del cruscotto.

Le attenzioni di Marcello nei miei confronti erano iniziate solo un paio di giorni prima rispetto a quella cena. Per anni avevo lavorato allo Shekinà e il rapporto con il mio capo era basato su qualche frase di circostanza o indicazioni per le mansioni da svolgere. Ricordavo di quella sera più i profumi e i gesti che le parole dette. Io mi stavo preparando per il solito turno al bar, Marcello si avvicinò a me con un sorriso eccessivamente cortese. Si accostò all'orecchio per parlare sopra le casse vibranti della cabina del DJ, che emanava una playlist house. Non gli ero mai stata così vicina prima di allora. Il suo interesse per me, di solito, si limitava a impartire compiti come faceva con gli altri dipendenti del locale. Il suo profumo aveva una sfumatura legnosa leggera e sfumata sulla pelle che mi stordiva con piacere, mentre le sue mani appoggiate appena sui miei fianchi innescavano un brivido caldo lungo la schiena. Ogni volta che il suo corpo si avvicinava al mio, mi avvampavo. Con poche parole quasi imperiose, mi chiese di aiutarlo ad organizzare una cena di lavoro, che si sarebbe tenuta a casa Murgia pochi giorni dopo. Mi disse che avrebbe avuto bisogno di una mano femminile per fare gli onori di casa e di qualcuno che si sarebbe preso cura degli ospiti. La mia risposta fu uno stupido sorriso abbozzato. Ero stata presa alla sprovvista e mi sentivo spogliata di qualsiasi difesa. Non sapevo come organizzare una vera cena mondana, ma non volevo e non sapevo dire di "No" al mio capo. Non avevo altra scelta se non quella di accettare.

All'uscita dell'autostrada, mentre entravamo nel paese immerso nel silenzio, ero nel panico totale e non guardavo nemmeno più la strada, sperando solo di arrivare viva sotto casa. Non avevo mai desiderato tanto di tornare al mio appartamento dopo una serata iniziata con i migliori presupposti. Capii che eravamo arrivati sotto l'appartamento che dividevo con Marta quando le ruote stridendo si inchiodarono all'asfalto. Era stato tutto una fantastica bolla di magia pronta a poggiarsi a terra e svanire. Pensai che ogni cosa sarebbe ritornata alla modesta normalità della mia quotidianità. O almeno così credevo. Ancora non sapevo che aver accettato di organizzare quella cena sarebbe stato l'inizio di una serie di eventi che mi avrebbero portata a diventare vittima delle mie stesse scelte. Ancora non sapevo che sarebbe stata la causa della perdita della mia indipendenza economica, dell'allontanamento dalle persone a me più care e non solo.

«Grazie» dissi per prima. Marcello continuò a fissarmi senza dire una parola, con il braccio teso sul volante. I muscoli dell'avambraccio sotto il cotone bianco mi dicevano quanto forte stesse stringendo la presa.

«Okay, vado. Ci vediamo domani sera?» chiesi allungandomi verso la sua guancia per salutarlo. Ma le sue mani mi fermarono afferrandomi per le spalle e, dopo un breve attimo dove mi teneva in pugno nel suo sguardo, mi baciò a lungo con una intensità profonda.

«Ci vediamo domani» rispose telegrafico. Scivolai via dall'auto senza avere il coraggio neanche di guardarlo. Ma prima di entrare nell'androne condominiale, mi voltai un'ultima volta per cercare, al di là del parabrezza, il volto di Marcello in penombra. Vidi una maschera irrigidita che sparì veloce quando con un'azzardata manovra fece ruggire l'auto.

«Allora?» gli occhi di Marta mi inchiodarono appena varcai la soglia del nostro ammuffito appartamento. «Racconta, come è andata la serata? Voglio ogni dettaglio».

«Ehi» la salutai alle spalle mentre armeggiava con il bollitore per preparare una tisana, il nostro rituale serale. «Non pensavo che mi aspettassi sveglia».

«Allora?».

«Allora che?».

«Com'era la casa? Chi c'era a questa cena di VIP?».

«La casa è straordinaria. Pensate che il bagno sembra la hall di un museo, con marmo ovunque e al centro c'è una chaise longue di Karim Rashid».

«Va bene, non mi interessa come è il bagno. Dammi qualche gossip succulento!».

«Dario, il socio di Marcello, è venuto accompagnato da una ragazza con un seno rifatto spropositato. La povera non ha detto una sola parola, credo capisse poco la nostra lingua», iniziai a spettegolare. «La ragazza che l'avvocato Girardi ha portato sembrava appena diciottenne». Continuai a parlare mentre mi slacciavo il vestito appuntato dietro la nuca e indossavo una deformata t-shirt. «Marcello non mi ha rivolto la parola per tutta la serata, tranne per darmi dei suggerimenti o delle indicazioni. Poi, quando sono andati via tutti, ha iniziato a fare il lumacone».

«Aveva bisogno di distendere un po' la tensione. Stronzo». Marta, divertita dai miei gossip, mi fece un occhiolino mentre caricava due tazze d'acqua bollente.

Per un secondo, chiusi gli occhi e sentii le sue mani sul mio corpo. Un brivido salì per la schiena. Quando ritornai con la mente nella cucina illuminata male da un vecchio lampadario in vetro verde, Marta mi stava guardando con un mezzo sorriso, scrutando i miei pensieri. Non so se stava osservandomi perché voleva mettermi in guardia o perché voleva incoraggiarmi a fare un passo avanti nei confronti del mio capo.

«Lo hai baciato. Avete fatto altro?» chiese la mia amica.

«Per tutta la serata mi sono sentita fuori posto. Le due ragazze, inclusa quella appena uscita dal liceo, erano bellissime, perfette nel trucco e nei vestiti. Se non fosse stato per Marcello che mi ha invitato questo haute couture, avrei indossato il mio solito tubino nero», confessai alla mia amica, mentre lei si concentrava a far tuffare e rituffare la bustina della tisana nel bicchiere d'acqua calda.

«Cosa può esserci tra un brutto anatroccolo come me e Marcello?» chiesi a voce alta, esprimendo i miei pensieri. La mia vita era divisa tra l'università, la famiglia e il lavoro: questa era la regola aurea che mi imponevo da quando ero ragazzina. Separare le aree della mia vita era l'unico modo che conoscevo per evitare il giudizio di mia madre e tenere a freno la mia ansia. Marcello apparteneva solo al mondo lavorativo, e non ero pronta a mescolare le cose.

«Quindi non vi siete neanche baciati? Da quando ti conosco, l'unico tipo che hai frequentato è stato quello dell'università. Ci sei stata poco meno di tre mesi e da allora sono passati mesi», disse la mia amica.

«Sì, ci siamo baciati, ma è finita lì. Pensi che ci possa essere qualcosa di diverso da una semplice scopata?» ribattei caustica, le parole che uscirono dai miei denti furono più amare di quanto avrei voluto.

«Come al solito, stai ingigantendo le cose», replicò la mia amica.

«Sono realista, Marcello è un donnaiolo e io non sono minimamente all'altezza delle ragazze a cui è abituato», mi giustificai.

«Okay, abbiamo stabilito che Marcello frequenta solo modelle perfette. Allora, come ti spieghi il bacio? È stato lui a prendere l'iniziativa?».

«Ero lì... Avrebbe fatto lo stesso con chiunque altra che ci fosse stata in quel momento».

«Mi vuoi far credere di non riuscire a vedere il piano di Marcello? Ti ha chiesto di preparare la cena a casa sua perché non poteva certo chiederti un appuntamento. Sei una sua dipendente, farti delle avances o chiederti di uscire potrebbe risultare una molestia», disse la mia amica, utilizzando la sua conoscenza del diritto.

Mi resi conto che forse aveva ragione, ero stata io a rendere ambigua la situazione quando avevo cercato di recuperare la pochette alle nostre spalle e mi ero completamente lanciata su di lui. Forse aveva frainteso il mio gesto.

«Inoltre, sei troppo severa nei tuoi confronti. Ti guardi attraverso una lente distorta. Lo capiresti se riuscissi a guardarti attraverso gli occhi di Paolo», concluse facendomi riflettere sulla mia autostima e sulla mia capacità di valutare le situazioni.

«Cosa c'entra Paolo? Paolo è solo un amico... Va bene, facciamo che ne riparliamo domani. Adesso sono esausta». Diedi l'ultimo sorso alla bevanda ormai tiepida e, con un bacio sulla guancia, augurai a Marta la buona notte. Mi trascinai in camera, distrutta dalla lunga e complicata giornata.

Continuavo a ripetermi che il lavoro nel locale di Marcello era l'unico modo per mantenere la mia indipendenza. Con il lavoro serale da barista, potevo studiare di giorno all'università, pagare la retta o le bollette del bilocale condiviso con Marta, senza dover chiedere ai miei genitori. Mettere in discussione quel lavoro per accontentare la romantica sarebbe stato come darla vinta a Carla, mia mamma, sempre pronta a sottolineare i miei errori.

Da quando avevo lasciato la casa di mio padre, poche volte mi ero concessa delle distrazioni. Ogni giorno uguale all'altro, seguivo i corsi, studiavo, lavoravo e ricominciava tutto daccapo. Le parole felicità, passione, ebbrezza le avevo lette molte volte nelle pagine dei romanzi, ma nella realtà, non le avevo mai vissute. Tuttavia, non avevo mai avuto la prova della loro esistenza. Nessuna storia o relazione mi aveva dato la possibilità di capire come declinare la parola amore. Amore fugace, leggero, effimero, certo, profondo, eterno: erano tutte declinazioni lette nelle pagine di tanti libri, viste nelle scene di un milione di film al cinema o a casa sotto un plaid.

È tutta colpa del sapore della pelle di Marcello che non riesco a dimenticare, dissi al cuscino tuffandoci la faccia. Già allora sapevo che Marcello era un uomo scostante, incapace di mostrare i suoi pensieri e le sue emozioni. Era potente e prepotente, apparentemente inavvicinabile, ma l'ebbrezza di essermi trovata tra le sue braccia, stretta nei suoi baci, mi fece vacillare. Mi chiesi cosa avrei dovuto aspettarmi dall'incontro dell'indomani, cosa ci saremmo detti o come ci saremmo comportati. Persa in voli pindarici nelle fantasie più romantiche, mi addormentai.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro