20. Il Piotta

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Potevo leggere lo stupore scolpito sul mio volto nei tronfi occhi di superbia del Piotta, rozzo come le mani ruvide che mi spinsero, scaraventandomi al centro della stanza. Ci volle poco per riconoscere il suo tirapiedi al suo fianco, uno dei quattro uomini che la sera precedente avevano aggredito Valerio. Il cuore iniziò a battermi forte, come se volesse fuggire dal petto, e le domande affollarono la mia mente, pronte a scaturire dalla mia bocca come meteore.

«Chi siete? Cosa volete?» urlai disperata, sperando di attirare l'attenzione di qualche vicino distratto. Provai a lanciare loro tutti gli oggetti che trovavo a portata di mano, ma fui travolta dallo schiaffo di uno di loro, un colpo così forte da farmi sbattere contro i cuscini del divano. Ridevano come iene. Sentii un dolore lancinante al collo, mentre la stanza cominciò a girare come su una giostra. Ero sbattuta da una parte all'altra senza riuscire a capire da dove provenissero gli spintoni e i calci. Lo stesso energumeno che aveva picchiato Valerio si stava divertendo a colpirmi con schiaffi, tirandomi i capelli e infliggendomi violente percosse sul ventre. Un pezzo di vetro, forse un bicchiere, si conficcò nella mia pelle, squarciando il mio avambraccio e facendolo sanguinare. Urlai così forte per il dolore, la paura e il senso di impotenza contro quelle bestie che si accanivano su di me, sfinita e inerme sul pavimento.

«Lasciatemi in pace... Andatevene!» implorai inutilmente.

In risposta, lo scagnozzo che mi stava picchiando mi mise faccia a faccia con il Piotta. Il suo gesto fu rapido e violento: mi sollevò dal pavimento afferrandomi per i capelli. Il dolore della pelle che si strappava mi invase, al punto che sembrava che si stesse staccando a brandelli dal mio cranio. Provai a scalpitare invano, mentre l'aguzzino continuava a trattenere saldamente i miei polsi, stringendoli così forte da soffocarli. Il trucco che avevo curato nei minimi dettagli fino a un istante prima era completamente rovinato dalle lacrime e dagli schiaffi subiti.

«Prega, perché se stasera quel bastardo non ha i soldi, avrai brutti guai!» disse il Piotta stringendomi il viso tra le sue mani. «Mi hanno detto che sei la sua puttana... Eppure hai stile...» constatò, dando una breve occhiata al mio vestito. «Che cosa trova in quel pezzente?» chiese con disprezzo, senza aspettarsi una risposta. «Dove diavolo si nasconde?» urlò a un centimetro dal mio viso. «Ieri, quando è sfuggito dalle mani dei miei uomini, è venuto qui, poi ti hanno visto la sera... Quindi tu sai dove si nasconde quel bastardo che pensa di poter prendere in giro il Piotta!» concluse isterico di rabbia.

«No! Non so dove sia Valerio e anche se lo sapessi, non te lo direi mai!» risposi con determinazione, quasi mostrando i denti.

Lo schiaffo deciso del Piotta esplose sul mio viso come un petardo, facendo uscire il mio occhio dall'orbita e provocando una scottatura istantanea sulla mia guancia. Estrasse un cellulare dalla giacca e lo avvicinò all'orecchio con pochi movimenti.

«Digli di venire qui» mi intimò quasi ruggendo.

Per tutto il giorno, Valerio aveva ignorato le mie chiamate e avevo lasciato numerosi messaggi nella sua segreteria telefonica, pensando che avesse forse dimenticato il cellulare da qualche parte. Non credevo che rispondesse a quella chiamata. I suoni monotoni della connessione telefonica si susseguivano uno dopo l'altro mentre l'uomo che mi aveva aggredito continuava a tenermi ferma con le braccia dietro la schiena. Le mie braccia erano così strette insieme che temevo venissero strappate via all'altezza della clavicola. Sentivo ogni muscolo tesissimo e dolorante, mentre il sangue continuava a gocciolare dal mio braccio sul pavimento. Ancora un suono di squillo e la chiamata sarebbe passata direttamente alla segreteria.

«Pronto» la voce di Valerio riempì il mio cuore e, non sapendo da dove iniziare, urlai disperata il suo nome.

«Valerio, aiutam...»

Il telefono mi fu strappato di mano, allontanandolo dal mio viso. Allora, abbattuta, mi accasciai su me stessa, sconfitta dalle lacrime e dal dolore delle percosse.

«A coso se non ti spicci a venire e a portarmi i soldi la puttana tua non la vedi più!». chiuse la conversazione il Piotta. Poi afferrò di nuovo con violenza il mio volto tra le sue mani dure e grezze: «Spera che a mezza sega del tuo uomo si dia una mossa prima che me scocci di vederti guaire come una cagna!».

Ero pronta a ricevere un altro schiaffo sulla stessa guancia infuocata, ma il suono del citofono mi salvò. Il Piotta lasciò la sua mano sospesa, pronta a colpirmi, e si avvicinò al citofono.

«Chi è?» grugnì.

«Non c'è Lia, chi cavolo sei tu?... Vattene a fare in culo, non è proprio il momento di fare una scopata stasera!» rispose con veemenza.

«Ma allora sei proprio una puttana... Speriamo che tu valga qualcosa per quel pezzo di merda, altrimenti stiamo solo perdendo tempo qui stasera» rise in modo volgare, accomodandosi sul divano con un'aria rilassata e spavalda.

Pensai che fosse Marcello a suonare al citofono. Sapevo di poter contare sulla sua determinazione e che le parole volgari e sgrammaticate del mio aguzzino non lo avrebbero fermato. Speravo di essere salvata, ma allo stesso tempo ero preoccupata di coinvolgerlo in questa situazione. Sicuramente sarebbe arrivato da un momento all'altro sul pianerottolo, ma nonostante la sua stazza imponente, era in netto svantaggio numerico. Senza contare che avrei dovuto poi spiegargli cosa stava accadendo tra me e Valerio. Il rumore sordo delle lancette riempiva la stanza, alimentando l'ansia e la preoccupazione che si mescolavano ai miei battiti accelerati. Stavo impazzendo, incapace di trovare una via d'uscita da quella situazione surreale. Le uniche braccia che mi sostenevano, in modo brutale, erano quelle del mio stesso aguzzino.

Ho un braccialetto d'oro e diamanti, puoi prenderlo. Ti ripagherà del debito di Valerio» proposi speranzosa.

«Non sono spicci quello che mi deve il tuo uomo» tuonò il Piotta, seguito da una risata sguaiata.

«Ti assicuro che vale molto di più di quanto pensi. È un Cartier» cercavo di convincerlo, sapendo che se avesse accettato, avrei ripagato i debiti di Valerio e ottenuto la mia libertà.

In risposta, il Piotta fece un breve cenno e il suo scagnozzo mi spinse con violenza facendomi sedere sul divano, proprio accanto al capo. Cercavano qualcosa di interessante da depredare per passare il tempo in attesa di Valerio. Rimanevamo soltanto io ed il Piotta nella stanza.

Come un animale in gabbia, ero concentrata su ogni rumore intorno a me. Sentivo i cassetti dell'armadio essere tirati fuori dai binari e ammassati uno sopra l'altro, le ante che venivano aperte e sbattute con forza. Poi riconobbi dei passi che si avvicinavano dall'alto delle scale. Non erano i passi di una sola persona, ma erano silenziosi e attenti a non farsi notare. Sentivo delle parole bisbigliate e tre colpi sordi alla porta. Il Piotta si rizzò sul divano come se avesse annusato il pericolo. Si girò e il suo volto assunse un'espressione diversa, non più spavalda o arrogante, ma gli occhi si strinsero in due fessure. Lo scagnozzo, allarmato dal suono dei colpi sulla porta, si affacciò dal corridoio interrompendo la sua vana ricerca dell'oro. A quel punto, il Piotta si alzò e fece un cenno al suo complice, come per stabilire una comunicazione silenziosa. Come risposta, l'altro si avvicinò a me con aria minacciosa e mi trascinò di nuovo per i capelli, usandomi come scudo mentre andava a controllare chi fosse. Ci avvicinammo alla porta e lui cercò di guardare attraverso lo spioncino. Non potevo esserne certa, ma probabilmente le luci dell'androne erano state deliberatamente spente e la persona dall'altra parte della porta stava facendo di tutto per nascondere la propria identità.

«Chi diavolo è?» mi sussurrò il Piotta all'orecchio, enfatizzando ogni sillaba per mettere in risalto le poche parole. Poi, con una spallata, spinse via me e il suo scagnozzo per osservare cosa stava accadendo al di là dell'occhiello, ma non vide nulla. Con un impeto di coraggio, prese la maniglia e la girò. Aprì la porta e si trovò faccia a faccia con una pistola puntata tra gli occhi. Mentre, Renato, l'autista, nelle vesti di bodyguard teneva in pugno il Piotta, Marcello entrava con il suo solito contegno imperturbabile, senza trasudare la minima emozione.

«Lasciala» disse Marcello all'uomo, sottolineando ogni sillaba con un tono monocorde e inquietante, mentre si sistemava i polsini della camicia come se stesse chiedendo un caffè al bar, calmo e sicuro di ottenere ciò che voleva. L'energumeno tenuto a tiro in alternanza al Piotta dal portaborse di Marcello sembrava voler tener testa alla richiesta ma in realtà stava solo aspettando l'autorizzazione dal suo capo. L'autista di Marcello mi aveva sempre dato l'impressione di essere qualcosa di diverso, ma non avevo mai pensato a lui come a una sorta di guardia del corpo. Pensai che forse era stato un ex militare, dato quanto era a suo agio puntando le armi contro i due uomini. Nonostante la grandezza e il peso della pistola che teneva in mano. Io l'avrei dovuta impugnarla con almeno due mani, senza contare il rinculo che avrei dovuto sopportare se fosse stato sparato un colpo.

Arrivò rapidamente l'assenso del Piotta, consapevole di aver perso quella battaglia dato che le sue munizioni le aveva lasciate a casa e la legge della strada parlava chiaro: vince chi ha più ferro.

Mi gettai tra le braccia di Marcello, abbandonandomi alle lacrime e immergendomi nel dolce profumo della sua pelle, che traspirava attraverso il leggero tessuto di cotone della sua camicia.

«Chi diavolo sei? Il suo pappa» quasi urlò il Piotta.

«Taci, non aggiungere nemmeno una parola» raccomandò Marcello, alzando appena di tono la voce ma senza perdere la sua inquietante sicurezza.

«Cosa è successo? Come stai?» mi chiese Marcello con estrema dolcezza, accarezzandomi il viso stravolto dalle lacrime. Non riuscii a pronunciare una parola. Ero troppo scossa, spaventata, la paura mi faceva stringere le mani attorno al suo busto. Allora Marcello mi scrutò ancora una volta con lo sguardo. Non potevo vederlo, ma sentivo il peso dei suoi occhi sulla mia testa abbassata, quasi nascosta.

«Non vorrei coinvolgere la polizia,» disse ignorando la presenza dei suoi stessi ostaggi, «ma dobbiamo trovare un modo per risolvere questa situazione». Concluse come se stesse dando forma ai suoi pensieri.

«A coso,» s'intromise il Piotta, «non me ne frega un cazzo della tua puttana... Cerco un altro tipo. Ieri è venuto qui per farsi una sveltina e poi se l'è portata in giro per locali» raccontò con forza tutto ciò che sapeva, probabilmente per cercare di guadagnare la fiducia di Marcello. «Facciamo così, tu sei un uomo d'affari e questa è solo una trattativa: prendiamo il braccialetto e ce ne andiamo».

Il mio cuore si fermò di fronte alla violenza delle rivelazioni del Piotta. Aveva detto solo la verità, ma non avrei voluto far sapere a Marcello quello che c'era tra me e Valerio.

«Ti avevo detto di stare zitto» Marcello serrò le mascelle con forza. Non voleva far trapelare le sue emozioni, ma iniziavo a percepire anche le minime variazioni sul suo volto.

«Non è solo per chi cercavi, ma per ciò che hai fatto a lei che devi pagare!».

«Pagare cosa?! Sono io che ho perso soldi...».

«Quanto ammonta il danno che hai subito che credi di essere nel giusto per essere entrato qui, picchiando e spaventando la mia donna?» quasi sentenziò Marcello come un giudice. «Ti giuro che se fossi stato a casa mia adesso, non staresti più parlando» concluse amareggiato mentre lo guardavo di sottecchi, spaventata dalla piega delle sue parole che avevano un suono roco, quasi diabolico.

«Allora, a quanto ammonta il debito di quel senzatetto?» chiese Marcello, alzando ancora di tono la voce.

«Perché vorresti pagare tu il suo debito?» rispose il Piotta in modo ficcante, accompagnato da un risolino ironico.

«A quanto ammonta il debito di Valerio!» urlò Marcello.

«Quattromila» disse il Piotta, gelando l'atmosfera.

Marcello fece ruotare il capo come per distendere i muscoli del collo e allentare la tensione. Sembrava quasi assumere un'aura quasi sovrumana con la vena pulsante sulla tempia. Solitamente, odio e rabbia si traducevano in un irrigidimento violento della mascella e basta. In quel momento, però, il suo volto sembrava quello di un diavolo. Ma un istante dopo, la sua abilità nel controllo e la sua rigida compostezza riemerse. Estrasse un ferma soldi dall'interno della giacca, mostrando una fascetta di soldi notevolmente consistente.

«Ti giuro che non avrai il piacere di goderne» disse Marcello, contando facilmente otto banconote da cinquecento euro, con un'espressione di sufficienza, amarezza e risentimento. Le lanciò con disprezzo ai piedi del Piotta, che rimase immobile, stupito ma soddisfatto. D'altra parte, non credeva che sarebbe riuscito a recuperare tutto il bottino con questa missione. La frase di Marcello non lo aveva minimamente scalfito. Prese i suoi soldi e, con un segno di intesa al suo scagnozzo, uscì velocemente dalla stanza, temendo un possibile ripensamento.

A differenza del Piotta, il gesto di Marcello mi aveva completamente sconvolta. Cosa significava che avesse pagato lo strozzino di Valerio? Sapevo che i gesti di Marcello avevano sempre un tornaconto personale, e ero sicura che non poteva essere compassione per Valerio, né un modo rapido, forse indolore, per risolvere una situazione complicata. E quella frase, "ti giuro che non avrai il piacere di goderne", mi feci mille domande sul pericolo reale dietro quelle parole o se fossero state dette solo come intimidazione. Cosa era realmente capace di fare, fino a che punto avrebbe spinto la sua vendetta, la sua necessità di dimostrare il suo potere, la sua forza. Fino a dove sarebbe arrivato per mettere in atto la sua minaccia, rendendola una vera vendetta.

Ero terrorizzata e mi chiedevo quale sarebbe stata la prossima mossa di Marcello, nei miei confronti, nei confronti di Valerio e nei confronti del Piotta. In un sol colpo era riuscito a mettere in scacco il destino. Come al solito, era Marcello che teneva le redini del gioco. Noi tutti, nelle sue mani, eravamo solo semplici pedine.

Mi accasciai sul divano, la stanza continuava a girarmi intorno come su una giostra che non aveva intenzione di fermarsi. Il braccio mi bruciava e continuava a sanguinare. Marcello venne a sedersi di fronte a me e prese un fazzoletto bianco in cotone egiziano dalla tasca. Le sue attenzioni nei miei confronti, anche se gentili, erano spaventose. Prestava una minuziosa cura mentre puliva il mio braccio con il suo fazzoletto, tanto che il mio sangue nelle vene gelava, i suoi occhi erano così rigidi, due braci ardenti cariche di sdegno. Sapere da parte del Piotta della notte trascorsa con Valerio era stato probabilmente un prezzo più alto per Marcello da pagare, molto di più di quei biglietti da cinquecento euro.

«Hai intenzione di ucciderlo?» chiesi con la voce rotta dalle lacrime.

«Chi?» celò a malapena l'ira bloccata, come sempre, dalle mascelle contratte.

«Hai intenzione di uccidere, o far uccidere, il Piotta?».

«A uccidere spetta a Dio, io vendico solo il tuo onore» mi spiegò con tanta naturalezza quanto lo stupore che provai nell'ascoltare le sue parole. Ero completamente esterrefatta, non riuscivo a comprendere l'assurdità del suo ragionamento. Marcello parlava di onore e vendetta, come se fossimo in un film di Tarantino.

«Verrà punito per quello che ha fatto. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, è una legge,» mi sorrise amaramente, «ma questo non deve preoccuparti. Sicuramente non verrà mai più a darti fastidio».

Venne a raccogliere i miei occhi colmi di lacrime, pronti a traboccare, e con un gesto della mano fece cenno all'autista di lasciarci soli.

«Ti supplico...» balbettai tra i denti.

«Non hai paura del male che posso infliggere a quel tipo. Piuttosto, hai paura di cosa potrei fare a Valerio» mi guardò sicuro di aver colto il punto delle mie parole.

«Ti ripagherò io di tutto. Prima di tutto, prendi il tennis, poi ti ripagherò per il resto».

«Non hai alcuna intenzione di accettare un mio regalo, questo mi offende più di ogni altra cosa». Il volto di Marcello era teso e il suo sorriso da repertorio era scomparso, lasciando spazio a un'aria seria, quasi arrabbiata. «Stamattina mi hai mentito, quando ti ho chiesto se c'entrava qualcosa quel poco di buono... Mi hai mentito... E anche stanotte eri con lui».

«Quante ne avrai portate tu a letto in questi mesi?»

«A te questo non è permesso!» tuonò severo. «Dovresti sentirti in debito, non solo per il braccialetto, ma per tutto quello che hai causato con le tue stupide scelte» provò a sminuirmi, riportando un tono pacato nella sua voce. «Ti faccio una proposta, sei libera di accettarla o meno, ma se la accetti, non avrai possibilità di tornare indietro, come hai già fatto una volta».

Si prese un istante prima di continuare e raccolse entrambe le mie mani tra le sue.

«Dimenticherò tutto, farò in modo che né tu né quel clochard dobbiate preoccuparvi di questa brutta storia, a patto che tu smetta di frequentarlo. Non dovrai più vederlo». Mi guardò intensamente senza aggiungere altro, in attesa della mia decisione.

Ero all'angolo del ring. Marcello mi stava chiedendo di scegliere tra lui e Valerio. Mi metteva di fronte alla possibilità di condonare tutti gli errori di Valerio, ma a quale prezzo? Come avrei potuto spiegarlo allo sguardo genuino di Valerio? Lo avrei offeso e mi avrebbe chiesto di non immischiarmi. Era stato chiaro: erano i suoi problemi e io non dovevo intromettermi. Ma a quel punto, da quando il Piotta aveva bussato alla mia porta, erano diventati anche i miei problemi.

Dove era finita la piacevole serata a cui mi stavo preparando? chiesi al destino, trattenendo tutto il dolore, fisico e mentale, che mi attanagliava lo stomaco.

Marcello continuava a studiarmi in volto, indossando il suo solito atteggiamento sicuro e spavaldo, come quando seguiva una trattativa d'affari. Nonostante ciò, stava dimostrando ancora una volta che conquistarmi era solo una rivalsa. Non poteva accettare di essere stato scalzato da un ragazzo onesto, ricco solo dei suoi sorrisi larghi e sinceri. Eppure, se avessi acconsentito a quella richiesta, avrei potuto aiutare Valerio, dargli la possibilità di rimarginare le sue ferite, proteggerlo da quella brutta storia che fino a quel momento aveva dovuto affrontare da solo. Avrei dovuto essere spietata, fredda e distante. Ingannarlo. Nascondergli ciò che provavo davvero. Avrei voluto più tempo per studiare le mie parole, ma sentii il campanello suonare. Sobbalzai.

«Farò come mi hai chiesto» sapevo di dover accantonare tutti i dubbi, le mie inutili elucubrazioni. Dovevo essere risoluta, diretta, come non ero mai stata prima. Era l'unico modo per salvare Valerio.

«Ma lascia che parli io» pregai Marcello.

«Vedremo» si alzò di scatto e prima che potessi aggiungere altro, era già alla porta.

«Fallo entrare» ordinò all'autista, trasformato all'occorrenza in un buttafuori.

Dallo stipite della porta comparve il volto in fiamme di Valerio, aveva il fiato corto come se avesse fatto le scale a piedi, perché non aveva neanche un istante da perdere ad aspettare l'ascensore. Era devastato e non si curò minimamente della presenza dritta e marmorea di Marcello. Si lanciò, senza esitazione, tra le mie gambe, prese il mio volto tra le sue lunghe mani e iniziò a baciarlo come se fosse una reliquia sacra.

«Cazzo... Cazzo...» continuava a farfugliare senza senso mentre baciava ogni graffio sul mio viso. «Cosa cazzo è successo?» piagnucolò, accarezzandomi con totale apprensione.

«Valerio, dopo quello che è successo,» cercai un capo d'accusa su cui basare la mia tesi. «Non voglio vederti più. Sono stati qui, in casa mia e mi hanno aggredito perché ti cercavano!». Le mie parole erano taglienti e infamanti, tanto da ferire anche me nel pronunciarle. Sapevo che le stavo conficcando una per una nel suo petto. Mi sentivo meschina, orribilmente spietata. Ma pensavo fosse la cosa migliore, forse il male minore.

Non ricevetti risposta, ma gli occhi cristallini di Valerio si riempirono di lacrime, e solo un respiro profondo, quasi un lamento, riuscì a impedire loro di cedere. Il dolce volto di Valerio si trasformò in una maschera di dolore. Avevo il suo fianco scoperto, dovevo sferrare il colpo finale.

«Voglio che tu te ne vada. Non voglio più vederti» sentenziai ferocemente.

«Hai ragione, non puoi stare con uno come me! Ti hanno fatto del male a causa mia» le parole gli uscivano rotte tra le labbra appena dischiuse. «Ma ti prego, non lasciarti abbindolare da quello stronzo!» allungò il braccio verso Marcello. «Non meriti di finire male con me, ma neanche di stare con quel coglione». Mentre Valerio stava per concludere il suo discorso accorato, quasi supplicante, Marcello si scagliò ferocemente contro di lui. Lo allontanò dal mio volto, costringendolo a alzarsi, e quando lo tenne all'altezza giusta, lo colpì con un pugno violento.

«È colpa tua se Lia si è invischiata in questa situazione e credi di poter sentenziare su cosa sia giusto o sbagliato per lei». Vedere Marcello così furioso da alterare il suono delle sue parole mi terrorizzò, ma non potevo sopportare di rivivere ancora una volta l'immagine di Valerio rivolto a terra mentre si reggeva la mascella.

«Fermo!» urlai mettendomi in mezzo tra i due.

«Ma che cazzo ti salta in mente!» soccorsi Valerio, gettandomi sul pavimento a un centimetro dalle sue labbra che si aprirono in un tenue sorriso.

«Va tutto bene».

Mi incantai nei suoi occhi, nella sua solita aria sorniona.

«È stato orribile e...» le parole si strozzarono in gola, come lame taglienti da ingoiare una per una. Mi abbandonai a un pianto inconsolabile, in cui trovavano spazio solo singhiozzi isterici. Il petto di Valerio divenne la mia unica ancora a cui aggrapparmi e lo abbracciai forte, avvolgendolo con le mie braccia, tanto da togliergli il respiro.

«Non piangere» accarezzò il mio viso, guardandomi con gli occhi incrinati, cercando di nascondere la sua commozione. «Ti devo portare in ospedale, poi me ne andrò, te lo giuro» tuonò Valerio come se avesse preso una decisione importante, deciso a non fare compromessi.

«Vattene adesso. Alzati e vattene» s'intromise Marcello, mostrando ancora un forte accento astioso nelle sue parole.

«Ci penso io a Lia». Venne poi a raccogliermi da terra come si fa con un fiore, strappandolo a metà stelo. Mi sentii risucchiata, tenuta saldamente in un solo braccio, dalla statua rigida e immobile che Marcello aveva preso a raffigurare. Continuava a cercare il mio sguardo, distratto dai movimenti incerti di Valerio che cercava di rialzarsi.

«Lia, devi essere tu a dirmi se devo andarmene o no» cercò di sopportare il dolore alla mascella, accennando un sorriso beffardo e sfidando gli ordini di Marcello, che rimase impassibile, in attesa della mia risposta.

«Vattene» farfugliai, nascondendo ancora una volta il mio viso nella camicia profumata di Marcello, ormai bagnata dalle lacrime.

Valerio scosse la testa con disprezzo.

«Non capisci che se scegli di stare con questo uomo, te ne pentirai per sempre».

«Mi dispiace, ma devo andarmene» dissi con poca convinzione. Aveva ragione, ma pensai che era troppo tardi per tornare indietro.

Mi apprestai ad uscire dalla stanza, ma Valerio mi afferrò per il braccio. Mi voltai e lo guardai dritto negli occhi, cercando di convincerlo di ciò che stavo per dirgli.

«Lasciami andare, è finita tra noi, anzi, non è mai iniziato nulla. Quello che tu provavi non è stato mai corrisposto».

Mi guardò intensamente per un attimo, poi lasciò andare il mio braccio e mi allontanai lentamente, credendo che quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrei visto.

«Un amico mi disse una volta: non fidarti mai di chi un giorno ti vuole bene e il giorno dopo ti tiene lontano. Ha un cuore ballerino e la bocca da mercante... Ricordatelo» concluse amaramente.

«Vattene» sussurrai debolmente.

Pochi passi e poi solo il suono sordo della porta che si chiuse. Il mio cuore si contrasse al punto da farmi male, non sentivo più né vedevo nulla intorno a me. Guardandomi da fuori, vedevo una bambola senza vita, bloccata da un abisso incolmabile tra il petto e lo stomaco. Cercai invano il coraggio di reggermi da sola, ma le palpebre inondate di lacrime non riuscivano ad aprirsi.

Dopo un momento irreale di silenzio, Marcello ricucì la distanza che ci separava. Con cautela, allungò il braccio per accogliermi al suo petto. Lentamente, con le punte delle dita, sollevò il mio mento dalla sua spalla e cominciò a asciugare con i polpastrelli gli occhi gonfi di lacrime.

«Ricorda il nostro accordo. Stanotte non ti lascerò dormire da sola» sentenziò, anche se a quel punto mi sentivo così persa da non avere più interesse per nulla. Lui invece aveva l'aria calma, certo di aver ottenuto la vittoria.

Senza neanche rendermene conto, stavo già camminando, sostenuta dalle sue forti e calde braccia. Ero piacevolmente avvolta, ma allo stesso tempo spiazzata, spaventata dalla sua capacità di dare ordini, di essere così astuto nel cercare sempre la posizione migliore, il risultato ottimale, quello che aveva in mente. Nei suoi gesti non c'era spazio per gli errori, ogni sua mossa doveva essere ripagata da un vantaggio a suo favore, mentre io non riuscivo a trovare un ordine in ciò che desideravo. Non sapevo nemmeno se allontanare Valerio fosse la scelta giusta o meno.

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