21. Isla del Sol

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Un leggero vento accarezzò i miei occhi, risvegliandomi. La piacevole brezza portava con sé un sapore iodato, mentre il sole filtrava delicatamente dalla finestra, spostando la tenda bianca. Le ombre si muovevano veloci e silenziose sul pavimento di pietra bianca, mentre i tagli squadrati delle fughe ondeggianti si riempivano di un bagliore dorato. Lo spiraglio mutevole faceva intravedere il mare al di là del parapetto fatto di lamelle di legno grezzo. La sera precedente, non ero stata in grado né disposta a comprendere la distesa nera che sotto le pale dell'elicottero copriva la distanza tra l'ospedale e il letto su cui mi stavo risvegliando. In un istante, tutti i miei pensieri si concentrarono sull'ospedale, i camici bianchi degli infermieri e dei medici cancellarono completamente la pesantezza del sonno dai miei occhi. Ricordai tutte le domande a cui avevo dovuto rispondere. Ero stata brava a inventare una rocambolesca e fantasiosa storia per spiegare gli ematomi e i tagli, evitando la verità e nascondendomi nella menzogna per paura di preoccupare Marta, Paolo e soprattutto mio padre. Apprezzai molto la decisione di Marcello di lasciare Roma. Durante il viaggio di qualche ora, mi rassicurò dicendo che avrebbe sistemato casa mentre eravamo via, eliminando così ogni traccia di quell'orribile episodio. Era esattamente ciò che desideravo: cancellare tutto, ogni ricordo, senza raccontare a nessuno ciò che era successo. Chiusi gli occhi per un istante e cercai di mettere tutto in una scatola, ma un nodo in gola mi bloccò il respiro. Cominciai a singhiozzare e affogai la disperata tristezza nel cuscino, cercando di placare il dolore che mi trapassava il cuore come spilli. Quando ripresi lentamente a guardarmi intorno, la stanza sembrava ancora più vuota, oscura e deprimente. Mi alzai di scatto e apprezzai il contatto con il pavimento leggermente ruvido e poroso. Mi avvicinai alla finestra per sentire i raggi del sole sulla pelle, caldi come una coperta nonostante l'aria tiepida. Davanti a me si estendeva una vasta distesa turchese orlata di schiuma bianca, soffice, e tutto intorno si sprigionava un dolce profumo di mirto e bouganville che ricopriva completamente la facciata del cubo da cui mi stavo sporgendo. Contai le facciate una per una nella mia mente, tutte uguali tra loro. Ce ne erano almeno una ventina, che cadevano a cascata come un alveare, coprendo il dolce pendio che si proiettava su una spiaggia bianchissima. Mi ci volle qualche minuto per realizzare di essere nella foto salvata sul desktop del mio computer. Ero a Isla del Sol, il resort della famiglia Murgia. Marcello mi aveva portato nella sua casa. Mi trovavo nella tana del lupo, dove avrebbe acceso le stelle più belle e allestito lo spettacolo più stupefacente, tutto per cercare di conquistarmi e rendermi come una creta nelle sue mani. Mi sentivo così debole, insicura e triste da non riuscire a sostenere il suo sguardo neanche per un istante. Presi un respiro profondo, cercando di trattenere tutte le lacrime e placare l'amarezza che mi stringeva il cuore come un macigno. Con riluttanza, mi diressi verso il bagno per lasciarmi andare in una lunga doccia di lacrime. Avevo dormito terribilmente male a causa di sogni confusi che avevano lasciato un retrogusto amaro in bocca, che cercavo di scacciare con un paio di sigarette, tenendole molli tra le dita e fumandole a metà, lasciando che il vento se le portasse via. Mi sentivo vuota, confusa, avevo perso completamente le coordinate della mia realtà, non provavo né caldo né freddo, non avevo fame, anche se erano giorni che non consumavo un pasto completo. Provavo solo un dolore intenso al petto, poiché il mio cuore si stava spezzando per aver dovuto allontanare Valerio.

Ero rimasta seduta sull'angolo del letto per un tempo indefinito, incapace di quantificare se fosse trascorso un minuto, un'ora o l'intera mattina. Fui colta di sorpresa, svegliata dai miei pensieri confusi, da un paio di colpi secchi alla porta. Prima di aprire la porta, cercai di asciugare i miei occhi gonfi e rossi con un lembo del telo che indossavo, ma passando accanto a uno specchio mi vergognai dello stato trasandato del mio viso. Quando aprii la porta, pensavo di trovare Marcello, scomparso dalla sera precedente dopo avermi accompagnata nella mia lussuosa prigione, ma le mie speranze furono subito deluse. Un enorme pacco nascondeva facilmente un fattorino armato solo di un sorriso di circostanza.

«Salve, questo glielo manda il signor Murgia» disse aspettando un segno da me sotto la soglia della porta.

«Lo può mettere sul letto» risposi con voce flebile, distrutta ancora dalle lacrime che mi riempivano gli occhi.

«Il signor Murgia le fa sapere che la aspetta al bar alle diciannove,» continuò posando la grande scatola chiusa da un enorme fiocco di raso color cipria, una tonalità appena più scura del cartonato liscio. «Inoltre, se avesse bisogno di qualsiasi cosa, non esiti a contattare il concierge. Basta premere il numero uno sul telefono della stanza. Posso fare altro per lei?». Chiese prima di congedarsi.

«Okay...» sospirai a lungo, cercando di far entrare nella mia mente intorpidita le semplici informazioni che il ragazzo mi aveva appena dato, ma che non riuscivo a elaborare.

«Le diciannove». Rifeci ad alta voce, tanto ero stordita da sembrare appena stata investita da un camion.

«Può andare, grazie». Conclusi rendendomi conto che il cameriere era ancora lì ad aspettare di essere congedato.

Appena sentii il rumore della porta chiudersi, mi avvicinai al pacco, curiosa di scoprire cosa contenesse. Slacciai il fiocco con la delicatezza di un dito e sollevai il coperchio, immaginando di trovare un abito mozzafiato, prezioso ed elegante come quello grigio che Marcello mi aveva fatto recapitare a casa il giorno della cena nella sua residenza. Strass e perline erano state superate da un leggero abito dorato con una stampa floreale tra il cobalto e il corallo. Alzai il vestitino leggero, incredibilmente morbido al tatto, liberandolo dalla scatola, e subito sotto trovai un completo intimo coordinato. Il tessuto impalpabile di questi capi mi avrebbe trasformato in un irresistibile angelo sexy, bellissima da togliere il fiato con quella scintillante armatura dorata. Per un istante pensai a quanto Marcello fosse bravo a organizzare ogni sua mossa, curando con attenzione ogni minimo dettaglio. Poi, sedendomi accanto alla scatola, sentii il rumore di un oggetto rotolare all'interno. Cercai in ogni angolo e trovai una carta di credito, anch'essa dorata, avvolta da un bigliettino di carta perlata su cui era scritto "Spero che stavolta la userai". Ecco, Marcello aveva ricostruito perfettamente il suo scenario preferito, quello di un gentile manipolatore. Nulla era stato lasciato al caso. Stava lucidando la sua bambola e iniziava a trattare sul prezzo della seconda rata della mia dignità.

«Come hai fatto a sapere che ero ancora in camera?» tuonai, iniziando la conversazione al telefono dopo aver chiesto a Siri di chiamare Marcello.

«Buongiorno...» sembrò correggermi con la sua inconfondibile voce fredda, gradendo poco il mio ostinato atteggiamento poco mansueto. «Hai ricevuto il pacco?» concluse retorico.

«Sì... Come hai fatto a sapere che ero ancora in camera? Hai messo una vedetta alla porta... Mi stai controllando se esco o meno dalla mia comoda prigione?» domandai, senza preoccuparmi di sembrare paranoica.

«No,» sentii il cenno di un sorriso beffardo, sicuramente si stava divertendo a spese mie. «Ho semplicemente chiamato e richiamato ripetutamente il concierge per sapere se eri uscita dalla stanza e quando ormai erano passate le tre, ho chiesto di inviare un addetto al piano per portarti la scatola» riprese in tono più serio. «Quando ieri mi hai chiesto di portarti lontano da casa tua, ho pensato di portarti qui per farti distrarre, staccare la spina per qualche giorno. Io sto lavorando, ma tu sei in vacanza, quindi vai in giro, fai shopping, mandami in rovina» concluse sorridendo alla sua battuta.

Anche se fuggivo spesso, non ero abituata alle "vacanze".

«Non puoi comportarti come se non mi avessi costretta, adesso mi proponi di usare liberamente la tua carta... Dovrei ringraziarti per tutto questo?» lo sfidai.

«Ti va se ne parliamo stasera,» come al solito bloccò le mie domande. «Ora devo davvero andare» disse rivestendosi con la solita aria poco tollerante.

«Va bene,» cedetti inesorabilmente, «ma promettimi che parleremo stasera». Cercai di fargli vacillare un "Sì".

«Certo, ora devo andare» troncò la conversazione, lasciandomi ancora una volta sconfitta e insoddisfatta. Ero a un passo dal frigo bar e mi venne naturale allungare il braccio per aprire lo sportello in legno scuro, quasi mogano, e bere a lunghe sorsate alcune mini bottigliette di Martini. Ero arrabbiata per l'inconfondibile noncuranza di Marcello, ma non potevo fare altro che dargli ragione ed uscire da quella stanza. Guardai intorno per trovare qualcosa da indossare. Il vestito con le frange della sera prima era troppo impegnativo e macchiato di sangue, il baby-doll che avevo trovato in camera come pigiama era decisamente inappropriato per andare in giro. Tutto magicamente seguiva i piani di Marcello, non aveva rivali. Riusciva con estrema facilità a prevedere mille mosse e odiavo quando mi rendevo conto che alla fine avrei fatto come voleva lui, come aveva immaginato nei suoi progetti. Indossai la fresca lingerie e l'abito leggero, sentendomi come una farfalla luccicante. Legai i capelli in uno chignon morbido, leggermente spettinato, e nascosi il volto dietro i miei inseparabili occhialoni.

Decisi di scendere alla reception, ma una volta arrivata, iniziai a guardarmi intorno cercando qualcosa da fare, solo per sentirmi un po' occupata. Era un ambiente elegante, con una serie di divani, sedute e pouf bianchi disposti come arcipelaghi, che si specchiavano con facilità nel pavimento in marmo. Nonostante indossassi un vestito prezioso, quasi scintillante ad ogni movimento, mi sentivo poco a mio agio in mezzo a quei divani Chesterfield dall'aria snob. Nonostante fosse quasi estate, l'intera struttura sembrava vuota, troppo grande per il numero di ospiti presenti. Camminavo accanto a una lunga vetrata incorniciata in basso da palme nane e rocce bianche, con piante tropicali dai colori caleidoscopici. Mentre distrattamente guardavo verso il mare, osservavo di tanto in tanto i bagnanti in spiaggia, sentivo qualcuno ridere intorno a me e alcuni turisti passeggiare tra le scogliere nere e frastagliate.

Senza rendermene conto, mi ritrovai ad ascoltare le parole di una donna che provenivano dalla porta di un ufficio. Non volevo essere un'indiscreta, ma la sua voce era così alta che potevo sentirla senza difficoltà, anche stando a qualche passo di distanza.

«Perché Riccardo non può stare con la mamma? Mi chiede continuamente di lei» disse la donna con tono preoccupato.

All'improvviso, la porta si aprì e istintivamente mi nascosi dietro una delle piante circostanti. Dalla mia posizione, nessuno poteva vedermi, ma riconobbi subito il volto di Marcello, in parte coperto dalla porta tenuta aperta dalla donna che sembrava non voler lasciarlo passare.

«Sai quanto tua sorella è instabile. Sarebbe pericoloso per Richie» disse Marcello, trascinando ogni parola con fastidio a causa dell'insistenza della donna.

«Sei tu che l'hai fatta impazzire,» la donna continuava a urlare con voce vibrante. «Stai sicuro che chiamerò lo Zio. Ai Sanna non piacerà questa storia».

«Letizia, credi che lo Zio non sappia già tutto? Ho provveduto io stesso ad informarlo, e sai che una mia parola vale il doppio di una spesa da te». La umiliò e chiuse la porta in malo modo, approfittando dello sgomento che aveva lasciato negli occhi della donna minuta con i capelli neri perfettamente tirati in una lucida coda.

Dovevo muovermi. Fare un passo, prima che qualcuno, o meglio quella donna, potesse vedere che ero stata lì ad ascoltare tutta la loro conversazione. Mi lanciavo verso la spiaggia, costeggiando la banchina per superare il divario creato dalle rocce frastagliate. Apprezzai la sensazione del mare che bagnava i miei piedi con ondate, come se potesse rinfrescare i miei pensieri. Quel nome, i Sanna, lo avevo già sentito a Miami, nella villa di Veronica. Pensai al dolore di una madre cui veniva negato di vedere il proprio bambino. Mi chiesi se c'era del vero nelle accuse appena ascoltate. È davvero instabile mentalmente, o forse è stato lui a farla impazzire? In ogni caso, fui grata di potermi allontanare dal resort e mi ritrovai presto a camminare con non poche difficoltà tra le rocce grigie. I blocchi di pietra avevano una tonalità antracite così scura da sembrare quasi neri, soprattutto quando il mare li bagnava e li faceva brillare al sole. Percorsi tutto l'arenile, passeggiando a lungo e senza meta, fino a ritrovarmi nei pressi di un piccolo ma grazioso villino. Inizialmente mi sembrò abbandonato, ma la presenza di abiti sventolanti al sole mi disse il contrario. Rimasi a contemplare il muro bianco ricoperto di bouganville e i tendaggi leggeri delle finestre che danzavano al vento, finché una piccola signora, abbronzata come un tizzone arso, logorata dal sole, fece capolino dall'ingresso principale. Era alta poco più di una bambina, ma i suoi occhi erano grandi, limpidi e brillavano come la tenda bianca che copriva l'uscio della casa. L'anziana signora rimase ferma cercando di capire chi fossi. Feci lo stesso, fermandomi di fronte alla stradina lastricata di sassolini. Non avrei voluto disturbarla, quindi potevo solo tornare sui miei passi. Sorrisi incerta per qualche istante, mentre stavo per voltare le spalle. Ma lo sguardo dell'anziana donna si fece gentile e si trasformò in un sorriso genuino. Mi stava salutando con le guance rugose alzate verso i suoi occhietti piccoli e stretti. Mi avvicinai naturalmente e sorrisi a mia volta. Indossava un camice verde con sfere rosse lungo il bordo, sopra un grande grembiule bianco tutto volant, ordinata come una scolaretta al primo giorno di scuola.

«Buongiorno, mi scusi per averla disturbata,» iniziai a dire, avvicinandomi a pochi passi di distanza. «Stavo camminando lungo la battigia e non pensavo di finire nella sua casa».

«Entra, entra,» mi incoraggiò con un gesto della mano, come se stesse radunando le galline nell'aia. «Una piccola come te non dovrebbe andare tutta sola. Ti ho vista arrivare ieri sera con Marcello. Quando poi il mio figlior d'anima è venuto a salutarmi, non ha voluto dirmi nulla su chi tu fossi...». Continuò a parlare in una lingua sconosciuta, accompagnando le parole con semplici gesti. L'anziana donna mi osservava con curiosità, come una bambina senza malizia, inconsapevole che fosse inopportuno permettere a uno sconosciuto di entrare in casa. La sua semplicità nell'accogliermi era disarmante, i suoi occhi piccoli e di un turchese intenso mi fissavano attentamente, seguendo ogni mio movimento.

«Mi dispiace averla disturbata, non era mia intenzione. Mi chiamo Lia,» dissi mentre la gentile signora mi faceva già accomodare al tavolo del suo modesto cucinotto. «Lei conosce il signor Murgia?» chiesi, incuriosita e incapace di trovare alcuna connessione tra loro due.

«Io l'ho cresciuto come se fosse mio figlior d'anima,» disse, battendosi il petto per sottolineare l'orgoglio. «Ma non devi fidarti, Marcello è un diavolo. Sarà stato per tutto il vento che si portava dietro quando era ancora un bambino, o forse per i maltrattamenti che riceveva da suo padre. Lo picchiava e lo trattava come le capre che allevava là dove Marcello ha costruito l'albergo. Eh, quante botte ha preso. Suo padre lo colpiva con la cintura. Ecco perché Battista, mio marito, alla fine lo ha preso con sé. Marcello non è della nostra famiglia, ma l'abbiamo cresciuto come se lo fosse».

Ero turbata dalle parole della donna che, senza nemmeno conoscermi, mi metteva in guardia nei confronti del bambino cresciuto come un figlio. La piccola signora continuò a parlare, ma il mio sguardo vitreo le dimostrò che non avevo capito nulla di ciò che aveva detto. Poi, senza aggiungere altro, lasciò la stanza. Mi ritrovai sola seduta nella cucina che sembrava un quadro di Cézanne, con il rosso e il marrone pastoso che si fondevano nei frutti al centro del tavolo. Guardai intorno, esplorando uno per uno gli arredi semplici e logori. Alcune porcellane erano visibili, scheggiate e graffiate dalle posate, e tutto aveva un profumo sbiadito di vita bucolica.

La signora rientrò nella stanza a passi piccoli e svelti, tenendo in mano una cornice. La foto, racchiusa in una cornice dallo stile un po' kitsch, ritraeva una famiglia prosperosa composta da almeno quattro generazioni. Riconobbi i capelli neri raccolti nella stessa treccia della signora accanto a me, la stessa facciata di bouganville che avevo visto nella villetta in cui ero seduta, e poi notai gli occhietti di un bambino. Riconobbi la determinazione delle sue braccia incrociate e la mascella già serrata per chissà quale capriccio non soddisfatto. Era Marcello, ne ero certa, riconoscendo le rughe accanto agli angoli della bocca, quella sua aria ostinatamente composta, inesorabilmente impeccabile. Duro, spietato, forse a causa di tutta la violenza che l'anziana signora mi aveva raccontato, assaggiata fin da bambino.

Senza rendermene conto, ero entrata nella sfera più intima di Marcello, mettendo piede nella piccola cucina della sua infanzia. Avrei voluto chiedere come fosse stato Marcello da bambino, come fosse diventato quell'automa con l'impenetrabile maschera di ferro.

«Questo è Marcello?» chiesi per accertarmene.

«Sì, e tu come lo conosci?» mi domandò con un leggero accento di malizia, che percepii nel breve sollevamento del sopracciglio destro.

«Lavoriamo insieme», ricorsi alla mia solita scusa, ripetuta così tante volte che ormai non convinceva nemmeno più me stessa.

«Ho cresciuto Marcello, tenendolo al petto, senza che lui abbia mai mostrato il desiderio di affetto. Non ha mai toccato una tenerezza. Ma con te è diverso, ieri sera ti teneva così stretta che sembrava avesse paura che tu gli sfuggissi. Forse tu non mi hai vista, ero con l'altro figlior d'anima mio: Riccardo».

«L'ho conosciuto a Roma, è un bambino straordinario».

«È cattivo come il padre,» mi corresse l'anziana donna con una gelida semplicità. «Battista non vedeva quello che vedevo io, nemmeno quella notte in cui il padre di Marcello sparì. Nessuno lo ha più trovato. Io ho visto... Ho visto... Ho visto per la prima volta il rosso della bestia negli occhi di Marcello. Stai attenta, è un diavolo. Ha fatto del male anche alla sua bella moglie. La mente non la aiuta più, è impazzita, ed è Marcello che l'ha fatta impazzire».

Sembrava che l'anziana donna avesse nascosto tutte quelle verità per tutta la vita e volesse istruirmi su Marcello per darmi la possibilità di sfuggirgli. Forse si sentiva in colpa perché non era riuscita a fare lo stesso con Veronica. Dopo averlo cresciuto come un figlio, doveva avere le sue ragioni per odiarlo così tanto da infangare la sua reputazione con una estranea.

«Lui se l'è presa solo per la dote dei Sanna...» disse, stuzzicandosi le dita come a indicare il denaro. «Poi con lo Zio l'intesa è nata dopo. Tra animali si sono trovati subito, alla fine, per uomini di quel genere noi donne...» batté di nuovo il petto come in un atto di dolore. «Siamo solo merce di scambio. Questi uomini prendono tutto ciò che vogliono senza chiedere, né ringraziare, né interessarsi se dopo una vita ad amarli tu sei ancora viva o meno». Concluse amaramente, come se si riferisse a sé stessa, anche lei vittima della visione egocentrica, dittatoriale e insaziabile di Marcello.

Mi alzai come per cercare di elaborare tutte quelle rivelazioni dell'anziana donna, mi avvicinai alla porta protetta dalla leggera tenda bianca che si gonfiava e si sgonfiava a causa della brezza leggera. Da quel punto potevo vedere il mare, a pochi metri di distanza, oltre una roccia ruvida, di un nero sbiadito dal sole ormai alto e rovente. Decisi di salutare l'anziana donna, pensai di tornare al resort, non volevo che qualcuno mi vedesse lì, preferivo tenere per me tutte le scoperte fatte su Marcello.

Tornai sui miei passi, percorrendo di nuovo il sentiero stretto, isolato e quasi nascosto da cui ero arrivata qualche minuto prima. Tra la vegetazione brulla potevo già vedere una parte della spiaggia. In quella zona, più vicina alla battigia, c'era un'ombra che sembrava Marcello. Stava uscendo dall'acqua. Probabilmente aveva deciso di fare un bagno tonificante prima di cena. Apprezzai il suo corpo bagnato che brillava al sole, gli addominali scolpiti e l'aria rilassata, quasi irreale. Aveva un passo decisamente sexy mentre si avvicinava dritto verso la chaise longue, dove un telo bianco lo attendeva. Era bello, ma ancora più bello era potergli rubare qualche minuto, sottratto alla sua maschera di ossessiva perfezione che indossava di fronte agli altri. Come le giacche impeccabili, con segni di piegatura appena visibili, o il polsino della camicia sistemato con precisione per essere visibile solo per un centimetro. Erano tutti stratagemmi per confondere la sua mente sottoposta a massicce dosi di stress. Come quando faceva piccole smorfiette con le labbra, passando la metà della lingua sui denti e accarezzandoli, o quando stuzzicava con il polpastrello del pollice le altre dita per poi scrocchiarle. Piccoli gesti nascosti per molti, ma che io avevo imparato a leggere. Come prima, nella cucina dell'anziana donna, gli stavo rubando un po' di intimità.

Marcello era seduto di spalle e si accorse del mio arrivo solo quando la mia mano toccò la sua spalla riscaldata dal sole. Senza spostare il suo sguardo fisso all'orizzonte, come un vecchio lupo di mare, prese la mia mano e la portò alle labbra, baciandola con delicati tocchi.

«Ciao» dissi piano, sedendomi dietro di lui sulla stessa chaise longue.

«Dov'eri?» chiese Marcello, serrando i denti con un'aria gelida.

«Stavo passeggiando sulla spiaggia per chiarirmi le idee... Non mi è piaciuto svegliarmi da sola stamattina» dissi in modo telegrafico, prima che potesse zittirmi come faceva solitamente.

«Be', non avevo voglia di prendere il posto di qualcun altro. Avresti dovuto essere tu a chiedermelo».

«Hai ragione,» risposi risentita alzandomi di scatto, «ma prima di iniziare a discutere ho bisogno di bere qualcosa».

A quell'ora, la spiaggia era quasi deserta e le dune pettinate riflettevano i raggi del sole, sembrando ancora più bianche. Cercai un modo per ridurre il senso di inquisizione e ritorsione con cui mi ero sentita accolta. Senza scomporsi più di tanto, Marcello alzò leggermente il braccio per chiamare un solerte cameriere. Ordinò per entrambi un Moscow Mule. Appena il cameriere, elegantemente vestito per la spiaggia, si allontanò, Marcello cercò la mia mano per tirarmi verso di lui, costringendomi a sedermi tra le sue gambe.

«Non fare l'offesa,» riprese immediatamente con un tono grave e uno sguardo duro che intravedevo attraverso le lenti scure. «Dovrei essere io ad essere amareggiato. Sei stata a letto con quel tipo mentre io ti chiedevo di essere mia. Mi hai tradito» concluse con un tono monocorde, piatto e rude, tanto da gelarmi le vene.

«Come ho fatto a tradirti se tra noi non c'è mai stato nulla».

Marcello si bloccò come se gli avessero sparato in pieno viso, sopraffatto dalle mie parole taglienti.

«Solo a te ho chiesto di rimanere, mai a nessun'altra,» i suoi occhi divennero ancora più lividi, colmi di rancore. «Ti ho dato tutto ciò che una donna potrebbe desiderare. Mi avevi assicurato che saresti stata con me quando ti ho chiesto se volevi essere mia, poi... Mi hai mentito». Sentenziò a denti stretti. «Ho sopportato molto più di quanto avrei dovuto. Mi hai chiesto più tu che chiunque altro». Ancora una volta mise in discussione la mia onestà e con astuzia mi aveva spiattellato tutte le mie mancanze, riuscendo a colpire i miei sensi di colpa.

«Tu non mi hai chiesto di rimanere o di stare con te, l'hai imposto» lo sfidai lanciandogli una smorfia con le labbra, mentre con un gesto lento gli tolsi gli occhiali per incontrare il suo sguardo.

«Credevo che avessimo un accordo io e te», mi strappò di mano le lenti scure e le lanciò sul tavolino poco distante. Marcello voleva tenere le redini del gioco e la mia costante mancanza di sottomissione lo innervosiva. Mi afferrò le spalle, facendomi sentire piccola tra le sue mani, e il mio respiro si troncò. Si soffermò un attimo prima di inondarmi la bocca con un lungo bacio a cui non risposi immediatamente. Piano, però, ogni terminazione nervosa iniziò a vibrare mentre la sua lingua continuava a strusciare sulla mia, sciogliendomi come miele caldo. Le sue mani aperte cercavano la pelle oltre i tessuti, stringendomi e accarezzandomi la schiena, cercando di tenermi stretta a sé. Il tocco ripetuto delle sue dita salì fino ai seni irrigiditi, ansimanti. Con poche abili mosse, mi fece sedere a cavalcioni su di lui e iniziò a baciarmi il collo. La sua lingua mi lisciava, mi mordicchiava delicatamente e non potevo fare altro che godere di quei piccoli tocchi.

Mi bloccai, cercando di ottenere un attimo della sua attenzione, affinché i nostri sguardi si incrociassero.

«Voglio che, per una volta, tu ascolti le mie parole», sospirai profondamente, cercando il coraggio per dare forma ai miei pensieri. «Non ti permetterò di trasformarmi di nuovo in una tua bambola da modellare a tuo piacimento. Non cadrò ad ogni tua richiesta. Ora so quanto tu possa essere crudele, poco tollerabile e possessivo, ma alla fine troverò un modo per non permetterti di vincere». Abbassai brevemente il capo, sentendomi stupida per essermi esposta così tanto.

«Spendi in fretta le lusinghe nei miei confronti» ironizzò con un ghigno amaro, mentre con le punte delle dita riportava il mio sguardo verso di lui. «Non scherzare col fuoco, potresti bruciarti,» sospirò profondamente, come se cercasse di trattenere il controllo. «Andiamo in albergo, si sta facendo tardi» concluse, irrigidendo la mascella e indossando la sua solita maschera impenetrabile.

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