28. La notte prima

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Per un intero giorno, Marcello mi aveva punito con il silenzio e un totale disinteresse nei miei confronti, passando la giornata fuori per lavoro, almeno così mi disse. Era impossibile entrare nei suoi affari. Sempre in giro a stringere mani, a fare su e giù per la città. Durante la colazione, mi aveva accennato l'ipotesi di un viaggio a Riyad per noi due. Saremmo stati via qualche giorno. Due frasi e nessuna spiegazione. Ignoravo completamente quali potessero essere gli interessi di Marcello in un posto così lontano. Pensai che forse era solo un viaggio di piacere per festeggiare il successo del Madama. Lo ignorai. Avevo altre preoccupazioni: eravamo alle porte del matrimonio di Alberto con Ginevra. Durante l'estate, quando ne avevamo parlato, Marcello mi aveva lasciato intendere che avrei avuto la possibilità di andare per qualche giorno a Latina. Ovviamente, non mi avrebbe accompagnato, ma dopo il nostro litigio non sapevo cosa aspettarmi. Avevo preparato una valigia con poche cose, alcuni cambi di abiti e il vestito per la cerimonia. Ero il loro testimone e Rafael mi aveva consigliato un tailleur pantalone Armani, perfetto per l'occasione. Dovevo custodire gli anelli, ma quel compito non mi preoccupava molto. Le mie ansie erano legate a Ginevra, incerta su cosa e se volesse parlarmi. Speravo che non desse peso all'episodio al Madama, quando stavamo cercando di costruire il caso contro Murgia, che poi era stato insabbiato da qualche magistrato o politico compiacente.

Ero pronta, ma non sapevo come Marcello avrebbe reagito al mio gesto. Mi avvicinai piano al suo studio, dove era sempre concentrato sul monitor del suo computer, osservando le curve dei vari investimenti che guidava.

«Io vado» sussurrai appena, rimanendo sotto l'uscio.

Alzò lo sguardo solo per un attimo. Era troppo concentrato per prestare attenzione alla mia presenza lì. Poi si fermò. Scostò la sedia dalla scrivania di cristallo e con fare sicuro ma attento si avvicinò. Raccolse la valigia dalle mie mani senza dire una parola. La posò a terra e poi, con cura, si avvicinò, portando le mani al mio viso e chiudendolo tra i suoi palmi come un bocciolo. Le nostre labbra erano distanti solo un soffio. Avevo le labbra secche e il cuore in fibrillazione. I suoi modi decisi e le attenzioni che mi riservava quando il suo volto si trasformava, cambiando completamente prospettiva, mi emozionavano. Era capace a mettere confusione nei miei pensieri. Voleva dirmi "Siamo solo noi e il resto del mondo non conta".

«Voglio che tu sappia» iniziò a spiegare, fermandosi solo un attimo per umettarsi le labbra. «Che quando mi dici che vuoi andare lontano da me, mi fai male. Ho cercato in tutti i modi di farti capire che sei importante per me». Mi baciò con passione, mentre le sue mani si spostarono dal mio viso alla ricerca delle mie mani abbandonate lungo i fianchi, stringendomi in un abbraccio profondo. «Dubitavo che potesse succedere ancora, ma ti chiedo di essere mia. Questa volta, però, ti chiedo di essere mia per sempre».

Il cuore mi batteva così forte che sentivo dolore nel petto. Ero estasiata e confusa. Era stata una dichiarazione d'amore strana, ma erano le parole più intense che un uomo mi avesse mai detto. Un anno prima, avevo sognato mille volte di essere abbracciata, baciata e desiderata da Marcello, ma in quel momento, mentre stava succedendo davvero, mi chiedevo se anch'io desideravo la stessa cosa, accettando tutte le sue condizioni. Mi chiedevo quanto avrei dovuto soffrire per amarlo e, allo stesso tempo, se amare significasse soffrire.

«Ne possiamo parlare quando torno» dissi quasi vergognandomi dei miei sentimenti, mentre fissavo la punta delle mie scarpe.

«Pensavo che tu avresti detto di "Sì" senza esitare» mi tenne ancora saldamente tra le sue braccia, i suoi occhi che cercavano i miei.

«Mi spaventi e mi costringi in una dimensione che non mi appartiene» cercai di spiegarmi, continuando a fissare il pavimento.

«Mi mancherai» mi baciò teneramente per un ultimo minuto.

«Quando decidemmo che non era il caso che venissi anche al matrimonio, la situazione era diversa. Ma adesso che il caso su di te è stato archiviato, cosa pensi di fare?».

«Tuo padre si sposa e la famiglia va rispettata, ma non accadrà mai che mi sieda a tavola con quella donna» disse con un tono quasi di disprezzo, mentre mi accompagnava all'ingresso.

«Lo immaginavo,» ripresi la maniglia della leggera valigia dalle sue mani. «Ma credevo fosse giusto chiedertelo».

«Ti prometto che presto risolverò anche il problema con Veronica e ti renderò una donna onesta».

«Di cosa parli? Non capisco» le sue frasi enigmatiche mi inquietavano ogni volta. Eravamo di fronte all'ingresso dell'appartamento e mentre Marcello sembrava promettermi amore eterno, io volevo solo andarmene.

«Non importa ora, vai o farai tardi e...» mi diede un ultimo bacio sulla mano libera dalla valigia che fino a quel momento aveva tenuto Marcello. «Salutami la sposa» concluse con arroganza, riprendendo in un attimo la sua maschera fredda e ruvida, come se tutto quello che mi aveva detto fosse già passato.

Mentre riprendevo lo spazio nel garage tra l'ascensore e Renato, che era pronto ad aprire la portiera dell'auto, mi chiedevo se quella di Marcello fosse solo un'altra tecnica per costringermi a pensarci, a assicurarsi che tutti i miei pensieri durante il viaggio fossero diretti a lui. In ogni caso, era riuscito nel suo intento. Durante il tragitto in autostrada, non potevo fare a meno di rivivere il suo profumo sulla mia pelle, le sue labbra sulle mie, la passione che mi aveva mostrato in quell'abbraccio.

Stare qualche giorno lontana a Latina mi avrebbe aiutato a capire cosa volevo davvero anche io. Avevo nascosto a Marcello che Alberto e Ginevra, dopo la cerimonia voluta per festeggiare con amici e parenti, sarebbero andati direttamente all'aeroporto per un viaggio di qualche settimana in una romantica località esotica. Quindi, sarei rimasta nella casa di mio padre, tutta sola con i miei pensieri. Li avrei messi in ordine e avrei preso una decisione definitiva: restare o andare. In ogni caso, ero determinata a farla accettare a Marcello, anche se ancora non sapevo come o se ci sarei riuscita.

Il fatto che non mi avesse accompagnato al matrimonio si rivelò utile anche per evitare di presentarlo ad Alberto e spiegargli la mia relazione con un uomo molto più anziano di me. Ancora una volta, potevo separare la mia vita familiare dalla mia vita privata secondo il solito schema. Ero felice, soprattutto, di poter nascondere la mia relazione a Carla, anche lei invitata al matrimonio. Avrei finto con tutti raccontando di lavorare nell'agenzia di comunicazione di Gloria. In particolare, avrei fatto credere a mia mamma questa verità, sicuramente non potevo dirle che trascorrevo le giornate svogliatamente tra saloni di bellezza e boutique di moda.

Feci un profondo sospiro prima di bussare alla porta di Alberto.

«Ehi, finalmente» mi accolse mio padre con un abbraccio sincero che subito mi tranquillizzò. «Avevo quasi paura che tutti i tuoi impegni ti facessero perdere questa giornata».

«Per nulla al mondo me la sarei persa» risposi prendendo le sue mani tra le mie. Eravamo entrambi emozionati, ognuno per ragioni diverse, ma felici di rivederci.

«Entra» mi fece segno di entrare con un gesto della mano nella casa piena di regali e scatole. «Qui è tutto un disastro,» disse sorridendo mentre spostava alcune valigie che ci bloccavano il passaggio. «Hanno mandato tutti i regali qui. Ginevra è stata bloccata per un'urgenza al commissariato».

«Ci sono io, dimmi come posso aiutare». Mi liberai in un attimo della valigia e cominciai a sistemare i regali, separandoli dai fiori e mettendoli in ordine.

«Perfetto, allora mentre tu riordini un po' qui e ti accomodi nella tua stanza, io metto l'acqua su così pranziamo insieme. Ti va?».

«Certo» risposi con un grande sorriso, felice di poter trascorrere del tempo con mio padre.

Ero sinceramente felice di essere lì, di ritrovare anche se solo per qualche ora un po' di normalità. Una malinconia smaniosa si accumulò veloce nel mio stomaco mentre spostavo gli scatoloni rivestiti da carta da regalo lucida d'un gentile avorio.

C'erano tanti amici felici della scelta di Ginevra ed Alberto di iniziare una famiglia insieme. Sembrava di essere in un romantico film hollywoodiano. Erano perfetti l'uno per l'altra: mio padre cordiale, premuroso, accogliente e Ginevra arguta, determinata e sicura dei propri principi.

Ero il loro esatto opposto, pensai con un velo di rammarico tra i denti.

Una volta che avevo riordinato tutte le stanze della casa, prese d'assalto da volant e tulle, mi sedetti sullo sgabello della cucina, come un uccello su un trespolo. Mi godevo la scena familiare di mio padre felice che maneggiava mestoli, padelle e altri strani utensili. Io mi limitavo ad osservarlo e ad assaggiare di tanto in tanto qualche boccone che mi offriva per sentire il sapore del sale o della cottura.

«Allora racconta,» disse Alberto mentre serviva un bel piatto di agnolotti al sugo, chiaramente fatti in casa a un'ora impensabile del mattino. «Come vanno le cose?»

Era un argomento scottante che avevo cercato in tutti i modi di evitare per non cancellare il sorriso dal mio viso, tenuto su con un pizzico di disagio. Non risposi subito. Masticavo lentamente, tenendo gli occhi fissi sul piatto come se le sue parole fossero disperse nell'aria.

«Abbiamo seguito un grande progetto, l'inaugurazione di un locale davvero importante in centro. Sto cercando qualche altro incarico che mi permetta di pagare le bollette, forse inizio a collaborare con un piccolo negozio di moda. Sono tutti giovani, ma Roma offre molti lavori interessanti da gestire in questo periodo» scrivevo nella mia mente una realtà alternativa che avrebbe potuto funzionare bene se non ci fosse stato Marcello.

«Le porte qui sono sempre aperte, non devi sempre affrontare tutto da sola. Potresti anche usare il mio studio per crearti il tuo spazio. Lo sai, vero?» mi guardò dritto negli occhi per assicurarsi che avessi capito appieno le sue parole.

«Per fare cosa, la tua segretaria? Ne abbiamo già parlato» ripresi a parlare guardando il piatto. «Lavorare con te o per te mi farebbe sentire limitata».

«Già... Ma potresti completare gli studi con più tranquillità. Studiare e lavorare non sono così facili».

«Non ti preoccupare, la mamma mi ripete sempre la stessa storia ogni volta che ci vediamo».

Le mie parole furono più dure di quanto avrei voluto. Metterlo a confronto con Carla era un modo cattivo ma che in qualche modo mi avrebbe permesso di allontanarmi da Alberto. Credevo di farlo per il suo bene. Mi sentivo come se la mia relazione con Marcello non facesse bene a nessuno. Ero una cintura nera a tenere tutto dentro. Questo lo avevo in comune con Alberto. Ripensai al discorso lasciato a metà con Carla, su di lei e Davide, su di lei e mio padre, su di me, forse non ero figlia dell'uomo che mi aveva cresciuta.

Chissà se Alberto è il mio vero padre? Domandai al piatto che lasciai quasi pieno, mentre il campanello della porta suonava. Era appena arrivata la sposa, un po' emozionata ma decisamente contenta di vedermi.

«Lia, quanto tempo!» disse sorridendo a lungo tra il rossetto rosso.

Per un istante sperai che non aggiungesse altro, che non parlasse a mio padre di Madama e di Marcello.

«Beh, sì» non seppi dire altro, andando incontro a salutarla con una stretta di mano.

«Che formalità!» mi tirò a sé in un abbraccio. «Tra poco io e te saremo una famiglia».

Follia, pensai, allontanandomi con un sorriso smorzato. Ginevra era una donna bellissima ed elegante, ma decisamente fuori sincrono con il mio modo di costruire una relazione, ancora meno di un legame affettivo o familiare. Oltre a rendere felice Alberto e a stare alle costole di Marcello, per me era poco più di una conoscenza.

Dovrei chiamarti mamma? dissi sarcasticamente solo a me stessa a denti stretti, raccogliendo il piatto per portarlo in cucina e dichiarando di aver completamente perso l'appetito.

«Ero preoccupato» disse Alberto, in netta contrapposizione al mio imbarazzante saluto, abbracciando appena Ginevra sulle labbra. «Pensavo fossi bloccata al commissariato per un altro omicidio, sarebbe stato il quarto in una settimana».

«Ormai c'è una vera faida tra clan,» commentò, come se volesse tenermi aggiornata. «L'altro giorno c'è stato un vero e proprio massacro familiare che ha destabilizzato la periferia di Roma. Sembra che ci sia una disputa tra la 'ndrangheta e alcuni imprenditori locali. Ancora non è stato provato completamente il movente del crimine, ma Lia, in questo periodo, dovresti essere molto più attenta ai posti che frequenti» sottolineò Ginevra, come se volesse far intendere molto più delle sue parole.

«Non devi preoccuparti, di sera non esco mai da sola» risposi con un sorriso forzato.

«Sai che non mi riferisco a questo,» riprese, sicura di non essere udita da Alberto che stava sparecchiando il tavolo della sala da pranzo. «Ma a Marcello» disse concisa, come se stesse interpretando il ruolo di un commissario di polizia. «Non posso dirti troppo, ma gli amici del signor Murgia non sono persone di cui fidarsi e nemmeno lui è un santo, anche se ha tanti amici in paradiso».

La guardai forse un secondo in più del necessario per mostrarmi autentica nella messinscena architettata per sfuggire alle sue accuse.

«Ti sbagli, non ho mai avuto una relazione con il signor Murgia. Lui ha il doppio della mia età e con tutti i suoi affari, di certo non bada a me, l'ultima arrivata, la stagista dell'agenzia di comunicazione» cercai di convincerla, mantenendo lo sguardo alto, ma sentivo il sangue freddo nelle vene. «Come ti viene in mente una cosa del genere?» minimizzai con una risata leggera, più isterica di quanto avrei voluto, mentre cercavo ansiosamente una sigaretta nella borsa appoggiata su una delle poltrone. «Ne abbiamo già parlato,» inspirai profondamente il primo tiro. «Lavoravo per lui e poi l'ho rivisto quando ho curato il suo locale per lo studio Costa».

Pensai di aver fugato tutti i dubbi di Ginevra, che senza aggiungere altro si avvicinò alla porta vetrata che dava sul giardino.

«La famiglia dei Sanna, una delle più spietate della 'ndrangheta, sta cercando di sfruttare la discoteca del dottor Murgia per il traffico di droga. Invece di collaborare con la legge, lui ha bloccato l'inchiesta grazie ai suoi contatti politici e giudiziari. Hanno depistato le indagini, sostenendo che l'uomo fermato al cantiere aveva piazzato la droga per compromettere la sua reputazione e purtroppo ci sono registrazioni delle telecamere di sicurezza a supporto di questa tesi. Non dovrei dirti queste cose, ma voglio che tu sappia con chi hai a che fare e di quale potere dispone. Ad Alberto non ho detto nulla,» disse, avvicinandosi e sussurrandomi all'orecchio. «Chiamami a qualsiasi ora, per qualsiasi motivo. Non esitare mai». La sua presa sul mio braccio mi fece trasalire.

Ginevra sapeva tutto.

Mi stava usando come pedina, avrebbe potuto tradirmi e rivelare tutto ad Alberto, distruggendo tutte le mie bugie e costringendomi a dire la verità. Anche se era dalla mia parte, la sua intromissione mi disturbava. Chissà se conosceva anche tutti i miei spostamenti con Renato. Mi chiesi se avesse messo delle microspie in casa o se le chiamate erano intercettate. Pensai avesse potuto ascoltare tutto o vedere tutto, come se fossi in un Truman Show. Ero spaventata.

«Se hai delle accuse da farmi, fallo pure. Ma non fingere di essere mia amica per cercare informazioni che non ho» dissi cercando di mettere insieme le parole confuse che avevo in testa, anche se uscirono con poco garbo. «Tu fingi di fare la poliziotta con me, ma io e Marcello abbiamo una relazione che si può riassumere in qualche avventura di sesso. Se non sbaglio, è ancora legale fare sesso al di fuori del matrimonio». Provai a mettere in ordine le parole incerte che avevo in bocca, rendendomi conto solo dopo che stavo dicendo la verità. La nostra relazione era monodirezionale, limitata a poche notti di sesso nonostante vivessimo sotto lo stesso tetto.

Il gelo che si era creato tra me e Ginevra, nascoste nell'oscurità, fu interrotto da Alberto.

«Eccoci» esclamò entusiasta mio padre, entrando nel doppio salotto con un sorriso e un vassoio di dolci.

La porta bussò di nuovo.

«Vado io» dissi felice di liberarmi della presenza di Ginevra. Mi avvicinai alla porta d'ingresso e presi il portafoglio dalla borsa, pensando che fosse un altro fattorino venuto a portare regali o fiori.

«Ciao» dissi con un sorriso radioso quando vidi Paolo. Mi gettai al suo collo e lo baciai come avevo sempre fatto.

«Non sapevo che saresti venuto!» quasi urlai mentre lo invitavo ad entrare. «Sono contenta».

«Mi fa piacere» rispose, tenendomi la mano delicatamente. «Grazie ancora per l'invito e congratulazioni» concluse, entrando in casa e stringendo la mano di Alberto in un gesto amichevole.

«Auguri per domani» disse poi, abbracciando la sposa che sembrava aver disteso il viso dopo la nostra discussione.

Ecco come avrei dovuto fare: salutare e porgere i migliori auguri! Era così semplice. Mi rammaricai interiormente per aver già perso l'entusiasmo che mi aveva pervasa quando ero arrivata a casa di Alberto.

In quel momento, con l'arrivo di Paolo, pensai che tutto sarebbe stato più facile. Eravamo di nuovo uniti e forse avrei potuto confidargli di più per capire come liberarmi dalla gabbia dorata in cui l'uomo che mi aveva chiesto di essere sua per sempre mi teneva prigioniera.

Terminammo la cena con un caffè, anche se io preferii versarmi altri bicchieri di vino. La serata per noi quattro fu un'attività frenetica di piccole cose da fare per prepararci per il giorno successivo. Paolo era sempre attorno a me, mi abbracciava e mi baciava mentre si muoveva per spostare scatole qua e là. Ci eravamo davvero mancati. Alla fine, tutti si lasciarono andare al sonno, mettendo da parte le proprie preoccupazioni. La cucina era buia, le luci spente in tutta la casa e il silenzio era interrotto solo dal respiro profondo di Alberto che dormiva nella stanza accanto come un orso bonario, felice di averci tutti intorno. La mattina avrebbe finalmente dato inizio a un giorno tanto atteso.

Nonostante avessi bevuto parecchio, non riuscivo a dormire. L'insonnia, alimentata dall'ansia e dall'agitazione, mi faceva camminare avanti e indietro per la casa o nel giardino con una sigaretta tra le dita. Mi perdevo a guardare il movimento delle stelle, punteggiate in un cielo blu intenso quasi nero. Brillavano incantandomi e ripensai alle luci che Valerio mi aveva mostrato nella sua tetra e sporca tana. Provai a chiamarlo, ma come era già successo altre volte, il suono monotono mi rimandò alla segreteria. Mi chiedevo se avessi trovato il coraggio di liberarmi dalla relazione asfissiante con Marcello, se quegli occhi azzurri, così chiari e trasparenti, potessero darmi la risposta.

Avevo trascorso solo pochi momenti con Valerio, ma volevo capire se il sentimento che provavo potesse trasformarsi in qualcos'altro, se potesse diventare amore. Eppure per Valerio stavo rinunciando ai miei sogni professionali e mettendo in standby tutti i progetti che avevo costruito negli anni. Avevo promesso di stare al fianco di Marcello per liberare Valerio dai suoi debiti, sia economici che morali.

Non riuscivo a dire se la luna e le stelle si muovevano a causa dei numerosi bicchieri di Verdicchio o per una forza ancestrale che voleva portarmi via dai miei tormenti terreni. Mi sentivo leggera, come se qualcuno mi stesse sollevando, ma le mie gambe non si muovevano, ero avvolta da una strana sensazione.

Aprii gli occhi e mi trovai di fronte agli occhi gentili di Paolo.

«Non puoi dormire sulle sdraio a bordo piscina, domani devi essere bella e riposata. Sei la testimone, non puoi rovinare le foto di tuo padre con un viso stanco» scherzò, portandomi in casa tra le sue braccia.

«Ciao» dissi, facendo scorrere il dorso della mia mano lungo i lineamenti del viso di Paolo. Era un bel viso in modo classico: tratti gentili ma decisi, un viso lungo con una leggera barba, capelli corti e un po' arruffati.

Lo baciai.

Ero impazzita o forse solo ubriaca. In un istante, la mia lingua cercò la sua e sebbene inizialmente avvertii una leggera tensione di fronte a quel gesto inaspettato, Paolo rispose con passione, permettendomi di avvolgere le mie gambe attorno al suo busto, mentre entrambe le sue mani mi sorreggevano sul sedere.

«Ehi,» disse bruscamente, come se si fosse appena reso conto di ciò che stava accadendo. Paolo si staccò dalle mie labbra e mi appoggiò contro lo schienale di una poltrona tenendomi con il contrappeso del suo corpo. «Così non va bene».

«Scusami, hai ragione, è stato il vino» dissi.

«Non intendevo questo» rispose accarezzando il mio viso e spostando una ciocca di capelli. Mi stava guardando in un modo nuovo.

«Scusami» balbettai, sgusciando via dalla sua presa, travolta dalla vergogna.

«Cosa significava quel bacio?» mi chiese in tono deciso.

«Scusami» mi avvicinai nuovamente, poggiando entrambe le mani sul suo petto piacevolmente solido, mentre i suoi occhi cercavano perdono con uno sguardo languido.

«Sparisci... Ci vediamo... Mi baci... Sei vestita così... Stento a riconoscerti» disse Paolo, distanziandosi e voltandomi le spalle.

«Di nuovo questa storia su come vado vestita!» esclamai cercando di mantenere il tono basso della voce, ma con la stessa enfasi di un grido. Mi infastidiva non solo ciò che aveva detto, ma anche il riferimento a una discussione avuta in passato fuori dallo Shekinà, quando stavo iniziando a frequentare Marcello.

«Lia, perché mi hai baciato?» mi interruppe Paolo, cercando le mie mani con le sue, mentre la sua voce tornava ad essere profonda.

«È stato un errore».

«Un errore» mi interruppe, allontanandosi di scatto dalla mattonella su cui eravamo seduti. Poi, come un'onda, tornò a avvicinarsi. «Stare con Marcello è un errore».

«E dovrei stare con te?».

«Sai che puoi stare anche da sola?!» fece allontanandosi nuovamente e voltandomi le spalle. «Ti svelo un segreto,» riprese in tono retorico. «Non è necessario che tu appartenga a qualcuno».

«Io non appartengo a nessuno».

«Ma se ti lasci manipolare come la sua bambola preferita» disse, accompagnando le sue parole con un gesto della mano plateale.

«Ogni volta è così, per stare vicino a te devo essere come vuoi tu» dissi, lasciando cadere tutta l'amarezza tra i denti.

«No, no... Solo io so come sei dentro, me l'hai detto tu. E tu non sei così... Oppure hai ragione... io e te non siamo più gli stessi, siamo cresciuti, siamo cambiati... Basta, vado a dormire, fallo anche tu» concluse, passandomi accanto come si fa con un fantasma senza riconoscere la sua presenza.

Rimasi appollaiata in una delle poltrone fino all'alba e quando sentii i rumori del risveglio provenire dalla stanza da letto di Alberto e Ginevra, mi rifugiai nella mia stanza. Volevo nascondere il fatto di aver trascorso la notte insonne. Più che stanca, mi sentivo vuota. Il bacio e il litigio con Paolo mi avevano sconvolta. Dovevo digerire un'altra confusione tra i miei pensieri. Avrei voluto sparire, lontana da tutto e da tutti. Chiusi gli occhi sotto la doccia sperando che l'acqua portasse via il male che mi stringeva lo stomaco. Dovevo indossare un ampio sorriso da condividere con gli ospiti, gli amici e i familiari. Raccolsi tutto e, con uno spillo enorme, lo fissai al centro del petto. Avrei riflettuto su tutto ciò nei silenzi che mi aspettavano dopo la cerimonia, quando sarei tornata da sola a casa di Alberto.

Spettatori silenziosi del mio calvario erano solo i peluche, che mi guardavano dall'alto di una mensola. Ero immobile nell'angolo del letto, seduta e umida nell'accappatoio.

«Ehi» bussò alla mia porta la mano delicata e curata della mia amica Marta. «Dimmi che sei presentabile perché ti ho portato un regalo da Roma».

«Marta!» esclamai spalancando la porta della mia stanza, senza preoccuparmi di essere gocciolante e seminuda.

Di fronte a me, impalato con un volto teso, un misto di felicità e perdono sottolineato dagli occhi color acqua tremuli, c'era Valerio.

Un fantasma.

«Cosa ci fai qui?» lo interrogai entusiasta nel rivederlo, restando ferma su un centimetro.

«Ciao» sbottò quasi sussurrando, mentre Marta alle sue spalle si fece spazio per abbracciarmi.

«Come stai, amica?» mi strinse per un po' prima di riprendere a chiedere. «Allora, ti piace la sorpresa che ti abbiamo fatto?» Slacciandosi dalle mie braccia, quasi mi lanciò Valerio addosso, come per incoraggiarlo a dire o fare qualcosa. «È venuto a cercarti al nostro vecchio appartamento, ma ha trovato solo me e una montagna di scatoloni. Gli ho detto che oggi sarei venuta, che ti avrebbe trovata qui. L'ho invitato a venire, ho fatto bene?» Raccontò tutto d'un fiato, mentre io e Valerio continuavamo a guardarci negli occhi.

«Hai fatto bene» risposi debolmente, cercando le mani di Valerio.

«Allora vi lascio qualche minuto, avrete tante cose da dirvi» disse Marta allontanandosi, portando con sé la porta e lasciandoci muti, in piedi al centro della stanza.

Nessuno parlava; lasciammo che i nostri occhi dicessero quanto avevamo desiderato quel momento.

Valerio mi baciò con trasporto, la sua lingua esplorò a fondo la mia bocca, così come le sue mani affondarono nel morbido tessuto di spugna.

«Ti ho pensato ogni minuto» rivelò Valerio, continuando a tenermi stretta.

«Ho cercato di chiamarti, ti ho scritto, sei scomparso».

«Mi hai urlato di andare via, lo ricordi».

«È tutto così complicato» lo guardai con gli occhi lucidi, sentendo un immaginario dolore sugli avambracci, dove i lividi ormai erano svaniti.

«Mi dispiace di averti messo nei guai con il Piotta, avevo paura che sarebbe venuto a cercarti di nuovo... Ma so che a Roma non lo vedono da mesi. Nessuno sa che fine ha fatto».

«Non ci farà più del male».

«Che dici?».

«Lascia stare. Non pensare più a questa storia». Restai vaga, perché se da un lato raccontare quello che sapevo del Piotta avrebbe messo entrambi nei guai, dall'altro ero sinceramente intenzionata a voler vivere solo quel momento insieme a Valerio. Non sapevo quanto sarebbe durato, ma ne avevo bisogno per riprendere fiato da tutto il male che avevo dovuto sopportare da sola in quei mesi.

«Oggi siamo io e te. Conta solo questo,» gli piantai un altro bacio. «Resta qui. Ci metterò poco». Mi assicurai mentre mi allontanai di qualche passo. Avevo paura che, se fosse uscito dalla mia stanza, l'avrei perso di nuovo. Entrai nel bagno, togliendo l'accappatoio e indossando gli abiti già pronti per la giornata. Ci volle poco tempo, perché non vedevo l'ora di ricevere ancora un bacio da Valerio. Gli ronzavo intorno incessantemente, cercando un rossetto o altri gioielli da abbinare. Sembrava incuriosito dai peluche guardoni che si prendevano gioco di noi dalle mensole. La stanza rosa della mia adolescenza era elettrizzata dalla presenza di un bel ragazzo, vestito elegantemente con una leggera camicia bianca, seduto sul bordo del letto.

«Vieni, ti presento gli sposi» gli offrii la mano, rendendomi conto che avrei dovuto spiegare a mio padre perché un perfetto sconosciuto fosse stato portato a casa sua da Marta, la mia amica, il giorno del suo matrimonio. Avevo solo il tempo del corridoio per costruire una storia da raccontare ad Alberto. Speravo che avere Valerio al mio fianco quel giorno mi avrebbe anche aiutato a dissolvere le fantasie di Ginevra su di me e Marcello.

«Papà, Ginevra» entrai nel salotto con un tono più enfatico di quanto avrei voluto. «Vorrei presentarvi Valerio, lui è il mio ragazzo». Cercavo Paolo con lo sguardo attraverso la grande sala. Teneva stretto un bicchiere già colmo di alcol e mi fulminò con lo sguardo. «Fino all'ultimo minuto non sapevo se sarebbe riuscito a raggiungerci, per questo non avevo detto nulla». Mentii, pronunciando una bugia sincera che sembrò credibile a quasi tutti in quella stanza.

«È un piacere conoscerti» disse Alberto, sorpreso dall'annuncio ma felice, mentre allungava la mano. «Lia non mi ha mai parlato di te, ma in fondo è anche la prima volta che porta un ragazzo a casa» disse con un mezzo sorriso.

«È un piacere» rispose Ginevra, ripetendo la stessa sequenza di mosse, imitando Alberto, ma continuando a scrutarmi come se sapesse che ci fosse qualcosa di strano o finto nelle mie parole.

Non sapevo dove stare o come muovermi mentre il fotografo ci immortalava negli scatti di rito. Continuavo a guardare in direzione di Paolo. Aveva un'espressione tesa e si mantenne in disparte per tutto il tempo. Lo vidi salutare Valerio con un gesto garbato, stringendogli la mano, ma senza aggiungere nulla. Era infastidito, anche se cercava di nasconderlo, ma il mio caro ragazzo con me non poteva fingere.

La cerimonia, prima a casa per la firma con l'assessore comunale e poi in chiesa per una benedizione religiosa, era la perfetta descrizione dell'idillio d'amore tra Ginevra e Alberto. Erano presenti tutti i parenti, gli amici e fortunatamente tenevano a bada i due. Ero il testimone, insieme a Paolo, ma i saluti e le frasi di rito a cui ognuno era chiamato a svolgere a turno mi tenevano lontana da dover dare spiegazioni a chiunque.

«Ho sentito dire che hai portato un ragazzo» mi disse Carla, con una voce dura, spuntando alle mie spalle.

«Ciao mamma. Mi fa piacere che sei venuta» la salutai con un bacio di rito mentre indossavo gli occhiali da sole per proteggermi, uscendo dalla chiesa in attesa degli sposi con gli anelli al dito.

«Allora dov'è questo ragazzo?» insisteva, cercandolo tra la folla come se un dettaglio potesse aiutarla a riconoscerlo.

«Valerio è andato a prendere la macchina, così evito di fare tutto il giro del selciato della chiesa con questi tacchi» cercai di restare vaga evitando il suo sguardo.

«Voglio conoscerlo, so che lo hai presentato ad Alberto».

«Trovi più strano che io abbia un ragazzo o che l'abbia presentato prima a papà?» la sfidai, incrociando il suo sguardo per un istante.

«Come sempre sei inopportuna, potevi portarlo a casa in qualsiasi altro giorno e hai preferito farlo il giorno delle nozze di tuo padre».

«Non era mia intenzione rubargli la scena e poi non è successo nulla».

«Sei così egocentrica, vuoi sempre attirare l'attenzione su di te» recriminò Carla senza rispetto per le mie motivazioni o per la mia scelta. Per lei, alla fine, ero ancora un adolescente in cerca di attenzioni. Immatura e viziata da Alberto.

«Siamo sempre allo stesso punto» sbuffai, strabuzzando gli occhi al cielo. «Piuttosto, ho parlato con Davide. Se continui a nasconderci la verità, siamo d'accordo nel fare un test del DNA». Provai a distrarre la sua attenzione.

«Ma di cosa stai parlando? Un test del DNA per cosa?».

«Non ci lasci altra scelta. Ci hai lasciati con un due di picche l'ultima volta alla Locanda». Entrambe cercavamo di nascondere il risentimento che provavamo l'una verso l'altra, mostrandoci un finto sorriso sul viso.

«Sono passati mesi da quel giorno e tu ne vuoi parlare proprio oggi?» disse, guardandosi intorno come per sottolineare la folla di amici e parenti che ci circondava.

«Sei tu che eviti costantemente di affrontare la discussione. Il tuo comportamento dimostra che hai qualcosa da nascondere».

«Stai dicendo assurdità. Per favore, abbassa la voce».

«Eccoli» annunciai, cercando di mettere fine alla nostra lite.

Gli sposi, coperti di riso bianco, furono trattenuti da altri calorosi saluti e ne approfittai per allontanarmi.

«Sei bellissima» disse Valerio, accogliendomi con un ampio sorriso quando entrai nell'auto presa a noleggio per la giornata.

«Vorrei che rimanessi qui con me in questi giorni».

«Speravo me lo chiedessi» rispose Valerio, mentre guidava lentamente l'auto verso la chiesa per far entrare gli sposi.

Il mio cuore batteva così forte che avevo paura che qualcun altro nella macchina potesse sentirlo. Accesi la radio.

Valerio, con l'aiuto del navigatore, imboccò facilmente la strada che ci avrebbe condotto al ristorante scelto per il ricevimento. Sentivo Alberto e Ginevra scambiarsi dolci parole alle mie spalle. Erano felici, e lo ero anche io, come non mi capitava da mesi.

La giornata continuò come previsto, con festeggiamenti fatti di sorrisi da parte di tutti gli invitati, abbracci con la sposa che cercava di nascondere l'emozione e, infine, iniziarono i balli. Prima gli sposi e poi ogni coppia che voleva condividere quel momento di gioia. Tutto, ma proprio tutto, stava procedendo come avevamo programmato quando Alberto e Ginevra erano venuti in preda al panico, a chiedermi aiuto per organizzare al meglio il loro matrimonio.

Trascorsi l'intera giornata mano nella mano con Valerio, in silenzio, con la paura che le mie parole potessero svegliarmi da quel sogno. Stranamente, anche Valerio parlò poco, probabilmente con la stessa apprensione nel cuore. Mentre gli altri ballavano, ci allontanammo nel giardino, continuando a restare muti. Arrivammo sotto un gazebo di edera illuminato da piccole luci bianche. Mi accoccolai sulle sue gambe, senza dire nulla. Volevo solo sentire il piacere delle sue grandi mani sui miei fianchi. I baci si susseguirono, profondi e caldi, come se volessimo recuperare in un solo momento tutti i giorni e i mesi passati lontani.

«Dove sei stato?» chiesi con le labbra infuocate dalle sue carezze.

«Ero partito per cercare di risolvere i miei problemi e tenerti al di fuori, ma non ce l'ho fatta a resistere. Mi sei mancata,» continuò, accarezzandomi il viso con la mano libera. «Non facevo altro che pensare a te. Le giornate erano vuote, senza senso. Volevo vederti almeno un'altra volta. L'ultima volta. Prima di andare via».

«Parti di nuovo, per dove?».

«Che senso ha restare qui? Marta mi ha detto che stai con il signor Murgia, ora non puoi mentirmi come l'altra volta».

«Già» sospirai, cercando di cancellare il pensiero di Marcello dalla mia mente.

«Perché mi baci se stai con lui? Mi hai detto di andarmene e l'ho fatto. Ora dimmi cosa vuoi che faccia, e lo farò».

«Ho paura, ho paura che possa farti del male». Mi sbottonai in fretta, senza voler raccontargli tutto per non metterlo in difficoltà con la storia del Piotta.

«Di cosa stai parlando» lasciò le sue parole in sospeso, fissandomi intensamente negli occhi. Abbandonò la sua solita aria beffarda, assumendo un'espressione seria, come per assicurarmi che avrebbe potuto prendersi cura di me.

«Non parliamone adesso, voglio solo stare con te. Vieni, è il momento del taglio della torta» lo esortai, cercando di mettere su un sorriso sicuro per invitarlo a seguirmi.

Tra gli applausi dei parenti e degli amici, Paolo, che era stato il mio testimone, si propose per un brindisi agli sposi.

«Diceva Paulo Coelho che l'amore non ha bisogno di essere compreso. Ha bisogno di essere dimostrato...» Paolo cercò il mio sguardo, puntando il bicchiere di vino spumeggiante verso di me. «Oggi, accompagnando Alberto e Ginevra all'altare, forse per la prima volta ho visto come si guardano due persone innamorate». Capivo quanto fosse teso, dal tintinnare delle sue dita sul bicchiere. «Oggi possiamo vedere tutti quanto sono felici. I loro occhi brillano e spero con tutto il cuore che avranno molti altri giorni come questo. Ma allo stesso tempo, sono sicuro che il sentimento che li lega li potrà far superare qualsiasi difficoltà o sofferenza. Oggi tutto è complicato: le relazioni, i sentimenti, dire "Ti amo" a una persona è diventato la cosa più complicata da fare. Ci nascondiamo dietro mille ragionamenti, ci preoccupiamo più delle convenzioni sociali o di ciò che ci conviene di più. Eppure, "Ti amo" dovrebbe essere una frase semplice, da mostrare spontaneamente all'altro. Tante volte mi sono chiesto cosa significhi amare... E allora, con questo brindisi, Alberto, Ginevra, vi ringrazio per mostrare il significato di questa parola. Oggi mi avete fatto capire che amare significa donarsi incondizionatamente all'altro, senza pensare se ne vale la pena, aspettando qualcosa in cambio».

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