29. Noi

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Passammo l'intera giornata a letto. Ero delicatamente appoggiata al torace nudo di Valerio, sentendo il suo respiro profondo, sereno, convinta che nulla potesse toccarci. Avevo preso in prestito la stanza da letto di Alberto, con l'intenzione di rimettere tutto a posto per evitare l'imbarazzo di fargli capire cosa fosse successo quella notte. Valerio aveva seminato su di me numerosi baci sensuali e appassionati, spogliandomi completamente. Mi ero lasciata travolgere dalla passione delle sue braccia intorno e dentro le mie cosce. Un brivido mi attraversò le gambe, immaginando ancora una volta l'intensità provata quella notte quando mi aveva dominato. Poi guardai intorno e rividi il silenzio della casa. Per un istante, le mie vene si riempirono di una gioia che non riuscivo a spiegarmi. Era la presenza di Valerio, il modo in cui mi guardava, mi toccava, accarezzandomi come una dea. Le sue labbra conoscevano ogni centimetro della mia pelle e ne ero profondamente soddisfatta.

«Dimmi quanto sono importante per te?» chiese girandosi lentamente, rendendosi conto che mi ero svegliata e stavo cercando la mia mano sul petto. La sua voce era roca, un po' rauca, con un sapore di risveglio. Incarnava un'atmosfera stravolta, con i capelli arruffati e gli occhi ancora gonfi dal sonno.

«Ti ho svegliato, mi dispiace».

«Rispetto all'ultima volta che ci siamo lasciati, purtroppo nulla è cambiato, il mio mondo non è adatto al tuo. Dimmi se è cambiato qualcosa per te?».

«Non mi importa».

«Deve importarti, altrimenti ripeteremo quello che è successo con Piotta. Io so cavarmela, tu no».

«Allora cosa dovrei fare?» chiesi a Valerio, anche se stavo ponendo a me stessa lo stesso dubbio.

La sua pelle dura, ricoperta di tatuaggi, lo rendeva spavaldo solo in apparenza, ma conoscevo la difficile storia che portava con sé, da quando era solo un ragazzino e doveva lottare contro la vita, affrontare genitori lontani, costantemente fuori casa, entrambi tossicodipendenti e come anche per lui il passo verso il declino fosse stato breve: fumare, ubriacarsi, poi iniziare a drogarsi.

«Mi disarmi. Da quando sei entrata nella mia vita, tutto gira intorno a te. Farei qualsiasi cosa per renderti felice. Se mi chiedi di andarmene, me ne vado. Anche se morirò dentro lasciandoti di nuovo» disse spostandosi sul fianco per prendere le mie mani strette tra le sue e fissare i suoi occhi nei miei. «Lia, ti amo. Questo lo sai già, e mi hai detto una volta quanto le mie parole fossero precipitose. Ma è quello che provo».

Abbassai lo sguardo, ma una delle sue mani sollevò il mio mento per portare i miei occhi all'altezza dei suoi. «Non c'è bisogno che tu dica niente, voglio solo che tu lo sappia». Mi baciò, spingendo il suo corpo sul mio, finendo per cavalcarmi sopra, sovrastandomi. Le sue spalle ossute, muscolose, definite e nervose, erano tese per mantenere le braccia dritte e non schiacciare il mio piccolo corpo sotto il suo. Le nostre pelli si fusero, così come i nostri respiri, a pochi centimetri di distanza. Un bacio, poi un altro e ancora un altro. Ci ritrovammo di nuovo in un amplesso vorace, ritmato, capace di soddisfare il nostro desiderio di appartenenza, almeno per un momento.

***

Le punte delle mie dita correvano lungo la traiettoria dell'uccello disegnato sull'intero fianco di Valerio. Osservandolo attentamente, notai una profonda cicatrice a forma di "Y" nascosta all'interno.

«Me la sono procurata in una rissa in carcere,» spiegò Valerio. «Quello stronzo aveva una lametta conficcata in un pezzo di pane vecchio. La mia banda aveva messo i bastoni tra le ruote a qualcuno e lui è venuto a cercarmi fin dentro la cella».

«E poi hai coperto la cicatrice con un tatuaggio per nasconderla?».

«Non l'ho fatto per nasconderla,» rispose, prendendo le mie dita nella sua mano e cominciando a baciarne le punte. «Ogni tatuaggio che ho ha un significato».

«Raccontami le storie di ognuno». Lo incoraggiai come una bambina in cerca di una fiaba.

«Mi toccherebbe raccontarti tutta la storia della mia vita,» disse con un sorriso ironico.

«Hai impegni?».

«Allora,» iniziò, sistemandosi sui cuscini e tenendomi vicino al suo petto. «Partiamo dalla mano: questa è la data in cui mi sono fatto il primo piercing e questa spirale si unisce a un uccello in volo» spiegò, unendo le fossette dei pollici. «L'uccello rappresenta il momento in cui ho iniziato a usare la musica per superare il dolore che avevo dentro. Poi ho altri tatuaggi che ricordano alcune serate particolari, quando ero in giro come un cane randagio con la mia vecchia banda. Passavamo le giornate cercando modi per guadagnare soldi per comprare alcol o droga. Facevamo tante cose sbagliate. Poi, un giorno, uno di noi è stato sparato e io sono finito in riformatorio per la prima volta. Avevo appena quattordici anni» continuò, mentre lo guardavo attentamente, seguendo il percorso fatto di ostacoli nella sua vita.

«Questo l'ho fatto per mia madre» indicò uno scheletro malconcio con tratti sia mostruosi che femminili. «L'ho fatto quando mi hanno detto che l'avevano trovata in un furgone abbandonato. Era lì da giorni e nessuno aveva chiamato un'ambulanza o la polizia. Forse anche questo mi ha fatto cambiare prospettiva. Ho iniziato a chiedermi che fine avrei fatto... Ma non avevo nessuno che mi mettesse in riga. Poi ho incontrato un prete durante l'ultima volta che sono stato in galera. All'epoca ero appena maggiorenne, più o meno dieci anni fa» riprese, spostando un ciuffo di capelli dalla fronte come per raccogliere i suoi pensieri.

«La fenice che risorge è questo che segue la linea della cicatrice» disse, tracciando il tatuaggio. «L'ho fatto più o meno in quel periodo. Volevo dimostrare a me stesso che si può rinascere dalle ceneri. Che quando tocchiamo il fondo, se abbiamo ancora il coraggio di rialzarci, possiamo fare qualcosa di buono. Poi ti ho incontrata e, invece di tirarmi fuori dai guai, ti ho coinvolta nei miei» si pentì, spostando il ciuffo di capelli come per liberarsi del risentimento che provava per ciò che mi era successo a causa sua.

«Ti ho già detto di non preoccuparti più del Piotta» dissi.

Mi bloccò, alzandosi in piedi e mostrandosi completamente nudo accanto al letto. «Come fai ad essere così sicura?».

«Marcello ha risolto la questione» risposi, in tono morbido senza aggiungere altro.

Rimanemmo in silenzio per un minuto, quasi senza respirare per evitare di fare rumore.

«Quindi, per pagare per i miei errori, stai con Marcello?» cercò di chiarire Valerio, rompendo il muro d'imbarazzo creato.

«Sì» sibilai. Quella semplice risposta si affogò in gola, spaventata nel condividere quello che Marcello mi aveva fatto.

«E stavi con lui anche prima di conoscermi... Vero?» cercò di capire, guardando nel vuoto.

«Sì».

«Quella sera in cui ti ho trovata malconcia e bagnata nel retro dello Shekina, era per colpa sua?», si accovacciò, portando il suo viso all'altezza del mio.

«Sì» sussurrai, girandomi e portando le ginocchia al petto.

«Lascia che ti aiuti, come tu hai aiutato me» fece un salto atletico sul letto, portando il suo volto a scoprire il mio tra le lenzuola.

«Cosa pensi che possiamo fare?» domandai ansiosa. «Marcello ha più potere e soldi di quanto tu possa immaginare. Conosce molte persone e non ha scrupoli. Se desidera qualcosa, la prende».

«Lia, tu non sei sua proprietà!» tuonò, stringendo le mie spalle tra le sue mani. Avrebbe potuto stritolarmi o spazzarmi via, ma la sua presa sembrava un mantello caldo che mi avvolgeva con passione.

«Se Marcello ci scopre, se ci trova qui adesso, dopo quello che è successo stanotte... Non oso nemmeno pensare a cosa potrebbe farci. Cosa farebbe a te...» le lacrime calde iniziarono ad affollare i miei occhi, pronte a traboccare.

«Allora andiamo via, scompariamo. Roma è così grande, non ci saranno occhi e uomini ovunque», suggerì.

«Dove pensi di andare, con quali soldi. Io non so vivere per strada» le parole mi scivolavano fuori dalla bocca e dalla lingua più acide di quanto avrei voluto.

«Hai ragione, non posso darti nulla. Ho solo me stesso, ma ti giuro che userei il mio corpo per proteggerti» notai un labile tremore nei suoi occhi di diamante, come se la sua forza e sicurezza si stessero sgretolando, consapevole di non poter competere con Marcello. «Posso scomparire e tu non dovrai più sottostare al suo ricatto. Hai una famiglia che ti ama, potresti stare qui da tuo padre o tua madre. Ieri, quando me li hai presentati, tua madre ha detto di volerci ospitare a Rieti. Potresti andare da lei».

Aveva ragione. Se Valerio fosse sparito, avrei potuto tener testa a Marcello. Chiusa nel mio silenzio, cercavo di capire cosa volessi e come poterlo ottenere. Avevo mille pensieri nella testa e nessuno riusciva a mettersi in ordine.

Con dolcezza, Valerio mi diede un bacio sulla fronte e scivolò via dal letto in cerca dei suoi jeans. Stava abbottonando una dei bottoni della camicia quando la mia mano, piccola sulla sua, fermò i suoi movimenti.

«Andiamo insieme a Rieti. Non voglio perderti di nuovo» dissi, nuda davanti alla sua concentrazione. Sembrava un déjà vu, ma in quel momento ero disposta a rompere la sua labile determinazione.

«Vengo dove vuoi, farò qualsiasi cosa tu mi chiederai» mi afferrò per le cosce, facendomi aggrappare al suo corpo.

I nostri baci lunghi, profondi e carichi di un trasporto sensuale si moltiplicarono e ancora una volta ci ritrovammo sul materasso ormai sgualcito, con le coperte accartocciate.

Come una gatta scattai, bloccando all'istante i nostri movimenti. Di riflesso, Valerio fece lo stesso, cercando di stare al passo con i miei occhi impazziti.

«Cosa...» inizio a dire, ma con la punta del dito sigillai le sue labbra, invitandolo a tacere.

Spensi la tenue luce dell'abat-jour sul comodino e mi appiattii dietro la tenda della stanza, che si affacciava su un angolo del patio. Bastò un indizio per riconoscere la monovolume Mercedes con cui Renato mi aveva accompagnato qualche giorno prima a casa di mio padre. Era scaduto il tempo concesso da Marcello. Era la mia mezzanotte. Marcello pretendeva che mi ritirassi nella sua gabbia dorata.

«Cosa sta succedendo?» sussurrò Valerio, avvicinandosi con attenzione, come se Renato, a metri di distanza e ancora dentro l'auto, di fronte a una casa chiusa, potesse comunque sentire le nostre parole.

«È venuto a prendermi» risposi.

Mi allontanai dalla debole presa di Valerio, cercando il cellulare, in modalità silenziosa, che era stato abbandonato da ore su uno dei mobili della stanza. C'erano molte chiamate di Marcello che avevo ignorato, alimentando così la sua insana mania di controllo nei miei confronti. Tra le applicazioni, c'era un messaggio inequivocabile, conciso, quasi mostruoso.

‹Renato sta arrivando›.

«Cosa facciamo?» sussurrai, anche se dentro di me avrei voluto urlare.

«Se vuoi, esco fuori e gli spezzo il muso» sussurrò Valerio, come se Renato, lì fuori, potesse sentirlo.

«Basta violenza» dissi, trattenendo i pugni chiusi di Valerio, che pulsavano di rabbia nelle vene. «Ragiona, Renato è il doppio di te e gira armato» cercai di convincerlo, fissandolo negli occhi. «Aspetta». Recuperai il cellulare. Avevo avuto un'idea. La casa, vista dall'esterno, sembrava chiusa da ore, con tutte le finestre serrate e la piscina sul retro coperta dal telone azzurro. Decisi quindi di mentire a Marcello con un altro messaggio altrettanto breve.

«Gli ho appena scritto che sono da mia madre. Speriamo così di guadagnare un po' di tempo» dissi a Valerio, supponendo che Marcello avrebbe avvisato Renato di tornare indietro. Nessuno dei due conosceva mia madre e neanche sapevano dove si trovava la sua Locanda, almeno così credevo e speravo.

«Dobbiamo rimettere tutto a posto, non voglio che nessuno sappia che siamo stati qui» sottolineai, cercando di rifare il letto al meglio. «Appena Renato se ne va, dobbiamo andare».

«Dove vuoi andare? Non abbiamo né una macchina né soldi per prendere un taxi» mi ricordò Valerio, spalancando gli occhi.

Bussarono alla porta. Ci bloccammo immobili come statue di sale. Renato non era il tipo che si arrendeva facilmente, soprattutto quando aveva un compito da portare a termine, dettato dal suo capo.

Feci cenno a Valerio con la mano, portando l'indice davanti alla mia bocca, chiedendo di restare in silenzio, mentre con passi lenti e attenti mi avvicinai al corridoio per capire cosa stesse succedendo alla porta. Potevo vedere l'ombra di Renato filtrare dallo spiraglio tra il pavimento e il legno. Era nervoso, andava avanti e indietro, spostandosi dalla porta alla finestra. Il mio cuore stava per scoppiare, batteva così forte che avevo paura che il nostro aguzzino potesse sentirlo anche al di là delle mura di casa. Ero così spaventata che avevo dimenticato di essere ancora completamente nuda. Tornai nella stanza da letto e, continuando il gioco del silenzio, feci cenno a Valerio di vestirci. Posai il cellulare nella borsa che avevo con me e decisi di lasciare le altre cose, come il vestito da cerimonia, i gioielli e il trucco. Pensai che era meglio essere leggeri, pronti per qualsiasi emergenza.

Sentii Renato rispondere con qualche frase che non riuscii a decifrare. Poi qualche passo e infine la porta dell'auto aprirsi e chiudersi.

Il piano aveva funzionato, ero riuscita a depistare Marcello.

Tornai alla finestra, da cui potevo avere un piccolo angolo di visuale sull'ingresso. L'auto era sparita, seguita dal rumore delle ruote sul selciato.

«È andato via?» chiese Valerio, mantenendo ancora un tono di voce molto basso.

«Spero di sì, ma dobbiamo fare presto, dobbiamo andarcene».

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